venerdì 24 luglio 2009

LA MALATTIA DELLA SINISTRA DOC (TERZA ED ULTIMA PARTE)

L’ultima parte di questa serie di post la vorrei dedicare alle questioni di schieramento. Questa questione diventa molto importante, soprattutto in riferimento alle scelte sulle questioni di rilevanza istituzionale.

Ho ripetutamente richiamato la tendenza che si è andata manifestando nella sinistra, che addirittura una volta veniva significativamente indicata come sinistra extra-parlamentare, a considerare la propria presenza all’interno del Parlamento, non soltanto, come sarebbe stato perfino ovvio, come un aspetto importante della propria politica, ma, possiamo certamente dire, analogamente alle altre formazioni politiche, come lo scopo più importante da perseguire nella propria attività.

Bisognerebbe allora a questo punto interrogarsi su quale possa essere la funzione che si ritiene di volere svolgere all’interno del Parlamento.

Strana nazione davvero l’Italia! Siamo andati avanti per almeno quarantanni con una democrazia bloccata dagli accordi di Yalta. Nella divisione del mondo seguita alla seconda guerra mondiale, l’Italia era collocata sul fronte occidentale, condannata in definitiva ad essere governata da coalizioni costruite attorno alla Democrazia Cristiana. Il PCI, malgrado il suo peso elettorale certo rilevante, era confinato in un eterno ruolo di opposizione. Solo la caduta del mura di Berlino nell’agosto del mitico 1989, che io, per una coincidenza fortunata, ho potuto vedere ad appena un mese dalla caduta del muro (scusate la notazione personale), tutto si è rimesso in moto, senza, paradossalmente, che i partiti italiani si fossero davvero resi conto delle formidabili novità che la nuova scena internazionale creava. Proprio a causa di questa carenza di visione prospettica, nel giro di pochissimi anni le principali formazioni politiche hanno in pratica deciso di autodistruggersi, anche se ognuna con modalità sue proprie.

Sorvolando adesso su ulteriori dettagli, attraverso una serie di eventi in qualche modo incontrollabili, e io credo imprevisti anche da parte di chi detiene il potere reale nella nostra nazione, si sono andati configurando una serie di formazioni politiche inedite, attorno a uno schema bipolare, che andava a sostituire il sistema rigorosamente proporzionale che aveva retto l’Italia per quasi quarant’anni. Questo bipolarismo è una creatura tipicamente italiana, nel senso che rappresenta un succedaneo del bipartitismo esistente in altri paesi. A mio parere, si può essere a favore del sistema proporzionale, oppure a favore del sistema maggioritario, ma, se si opta per quest’ultimo, esso va perseguito fino in fondo, e questo richiede il bipartitismo. Il bipolarismo, tanto caldeggiato dai nostri politici più influenti, sembra piuttosto riassumere tutti gli svantaggi dei due sistemi opposti che vorrebbe, nella mente di taluni, contemperare.

Io dico chiaramente di essere a favore del bipartitismo: un sistema elettorale che preveda un’articolazione del territorio in collegi uninominali. Io, nel mio collegio eleggo una persona, esprimendo in tal modo non soltanto una vaga opzione politica, ma traducendo la mia opzione politica in una persona fisicamente data, su cui esprimo un giudizio di fiducia sulla sua capacità di rappresentarmi. Secondo me, questo rappresenta il massimo di possibilità dell’elettore di espressione della propria volontà nel momento di elezione del parlamento.

L’obiezione che viene sollevata a questa posizione è che in tal modo diventa più larga la fascia di popolazione che non viene rappresentata. Ci sarà inevitabilmente una contrapposizione tra due formazioni più grandi, e le altre formazioni tenderanno a sparire dal parlamento. Questa obiezione è fondata e condivisibile: nessun dubbio che percentuali significative di elettori vedranno le loro opzioni politiche non rappresentate in parlamento. Rimane tuttavia da stabilire se questa evenienza è davvero così negativa e se, soprattutto, esista una via ragionevole che ci permetta di dare maggiore rappresentanza agli elettori. E’ su questo punto che penso le opinioni si dividono. Se vogliamo apprendere qualcosa dalle esperienze sin qui maturate, dobbiamo ammettere che la stessa motivazione che impedisce a gruppi politici di stare assieme nello stesso partito, difatti rende problematica la loro convivenza in una stessa maggioranza. Non solo, la dinamica delle alleanze politiche che si fanno e si disfanno, avviene senza più alcun controllo da parte degli elettori. Per come io giudico la storia parlamentare italiana, in regime di sistema proporzionale puro ma anche in qualche modo modificato, il risultato elettorale non determina il tipo di maggioranza che viene a costituirsi. La legislatura 1996-2001 ha, ad esempio visto al suo interno tre governi differenti succedersi, con maggioranze non coincidenti.

All’interno di uno schema bipolare, sorge inoltre un problema di legittimità formale e anche sostanziale. Già la facoltà prevista di apparentamento è un’ipotesi formalmente azzardata. Si potrebbe dire che le liste apparentate stanno alle liste uniche come i PACS starebbero ai matrimoni: i Pacs non li hanno fatti, ma l’apparentamento sì. Il problema più grosso sorge però quando più partiti condividono un’unica lista, perché qui non si capisce più chi abbia formalmente la rappresentanza di cosa e a nome di chi, per presentare al Viminale le liste così formulate. Sul piano sostanziale, non solo il noto deficit di democrazia dentro i partiti rende la formulazione delle liste un processo in mano a poche persone, ma se addirittura esse sono il frutto di alleanze, ci dovrà essere un’istanza che include responsabili di più partiti che definisca alla fine le liste: capite come il semplice iscritto sia del tutto espropriato di potere decisionale.

Come dicevo, le formazioni di sinistra mostrano un’enorme attenzione verso i momenti elettorali: Tanta è l’importanza a ciò dedicata, che ogni loro scelta è influenzata da l’esigenza, considerata prioritaria di stare in parlamento. Così, ad esempio, è stato per il referendum: si prendeva a pretesto la questione dello strapotere che il signor B. ne avrebbe potuto conseguire quando questo punto era ininfluente, tanto che lo stesso signor B. ha reputato un successo del referendum un frutto avvelenato a causa degli ovvii problemi che gli avrebbe creato nei rapporti con la Lega. Il motivo reale era un altro: se, sempre all’interno di uno schema bipolare, dato sostanzialmente per scontato, il premio di maggioranza dev’essere beccato da un unico partito, questo determinerebbe il rifiuto del PD ad apparentare altre liste alla propria, avendo la certezza che nessun aiuto darebbe tale apparentamento nel raggiungere il premio di maggioranza.

Dando per scontate le considerazioni che precedono, rimane il problema principale: cosa cambia per il popolo italiano e per i milatanti di sinistra stare o non stare in parlamento? A mio parere personale, quasi nulla. Difatti, dando per scontata una presenza largamente minoritaria, la presenza in parlamento si può tradurre o in una presenza simbolica, in caso di opposizione, oppure, se si reputa di partecipare a una maggioranza di governo, si inaugura una nuova stagione di polemiche giornaliere, di frustrazioni rispetto anche a istanze pienamente giustificate, di tranelli parlamentari da parte del venduto di turno, senza sostanzialmente portare a casa nulla di significativo.

Non posso chiudere questo post senza considerare quale possa essere l’alternativa. Per me, l’alternativa è condurre una battaglia seria per introdurre nel nostro sistema istituzionale delle forme di democrazia diretta. Qui, insomma, c’è da affermare un punto fondamentale, che consisterebbe nel fatto che ciascuno di noi ha diritto a svolgere un proprio ruolo politico, indipendentemente dallo stare dentro il parlamento. Da semplice cittadino mi si dovrebbe dare la possibilità di scegliere tra un mio impegno in un partito, che andrebbe tra l’altro regolamentato in alcuni suoi decisivi aspetti, e che è rappresentato in parlamento, e un impegno al di fuori di questa cerchia ristretta di formazioni politiche. Insomma, non posso essere cancellato come soggetto politico, solo perché non trvo affinità con quanto è rappresentato in parlamento.

2 commenti:

  1. In questa tua analisi è precisa e impeccabile e istintivamente sento d'essere d'accordo. Ma ci leggo due aspetti che non mi convincono.
    1) punto: dicendo " dando per scontata una presenza largamente minoritaria, la presenza in parlamento si può tradurre o in una presenza simbolica, in caso di opposizione, oppure, se si reputa di partecipare a una maggioranza di governo, si inaugura una nuova stagione di polemiche giornaliere, di frustrazioni rispetto anche a istanze pienamente giustificate, di tranelli parlamentari da parte del venduto di turno, senza sostanzialmente portare a casa nulla di significativo." togli la valenza ideologica e morale e quindi la possibilità di condizionare le decisioni del parlamento a quella parte della sinistra estrema che invece in Italia ha sempre portato avanti le più importanti battaglie come quella per l'aborto ecc. e nelle stesso tempo dici tra le righe di essere stato d'accordo con Veltroni al momento della sua scelta di escludere la sinistra dalla coalizione.
    2) Se da una parte penso anch'io che si possa attuare una politica fuori dal parlamento mi accorgo che in pratica è sempre meno possibile

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  2. @Antonella
    Io intendo "sinistra estrema" quando dico "sinistra": mi pare che oggi includere il PD nelle formazioni di sinistra non abbia davvero più senso, neanche alla fine per gli stessi PDini.
    L'aborto, scusa, ma c'entra ben poco: è stata una battaglia portata avanti in primis dai radicali, e in ogni caso non c'è nessun rapporto tra l'essere in parlamento e proporre un referendum.
    Mi chiedi se sono stato d'accordo con la decisione di Veltroni: naturalmente no, perchè è stata assunta all'interno di una cornice istituzionale di tipo bipolare. Non basta volere semplificare la composizione del parlamento per farlo, quando intanto i tuoi avversari fanno una scelta radicalmente bipolare apparentandosi tra loro, Lega inclusa. Voleva essere una scelta coraggiosa, ma è stata una scelta suicida, e penso che nel PD gliel'hanno fatta pagare abbastanza, visto che non è più segretario.
    Ne capisco la logica, e come me molti che hanno fatto mancare i loro voti alla sinistra, fino ad escluderla dal parlamento. Ma vogliamo porci un'altra domanda: se la sinistra avesse superato la soglia e fosse rappresentata in parlamento, secondo te, oggi, cosa sarebbe cambiato? Io non vedo proprio nessuna significativa differenza: la maggioranza, con la legge elettorale confermata dall'astensione al referendum, sarebbe stata altrettanto solida e sarebbe andata avanti, come sta facendo, a botte di fiducia. Dovremmo forse capire che non siamo più in un paese che possa definirsi democratico. Se la sinistra volesse stare lì dove è importante esserci, dovrebbe stare nelle stanze decisionali delle TV, perchè è lì che avvengono le cose che contano davvero.
    Per il secondo punto, chissà che aggregando questo aspetto a una legge elettorale in senso bipartitico qualcosa si possa fare passare!

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