lunedì 29 marzo 2010

LE ELEZIONI REGIONALI

Alcune considerazioni sui risultati elettorali a urne ancora calde, potremmo dire. Il risultato più evidente mi pare sia quella del mancato insuccesso del PDL. I dati sull’astensione facevano ben sperare, ma purtroppo evidentemente c’è stata una percentuale ampia di astensionismo da parte dell’elettorato di sinistra. Onestamente, non me la sento di dare addosso a chi non ritenendosi rappresentato dai partiti all’opposizione, abbia poi finito per preferire astenersi. La mia delusione sta piuttosto nella mancata astensione massiccia a destra: evidentemente, non è ancora venuto il tempo della fine della love story tra il signor B. e una fetta consistente dei nostri concittadini. E’ chiaro che finchè ci saranno strati così ampi di popolazione che si sentono rappresentati da tale personaggio, non c’è possibilità di estrometterlo a meno di avere un’opposizione ben diversa, ben più qualificata di quella esistente. Il paradosso di chi da’ del traditore a chi non vota qualcuno, purchè sia contro Berlusconi, è di garantire in definitiva allo stesso signor B. un successo imperituro. Il dramma che qualcuno non riesce proprio a comprendere è che, proprio perché i consensi al signor B. non riescono a crollare, bisogna avere un’opposizione efficientissima, di ottimo livello qualitativo. Epperò, come si potrà mai sostituire l’attuale opposizione dequalificata se non rifiutandosi di votarla?

Secondo dato incontrovertibile mi pare il successo indubbio della Lega, che sicuramente riflette e determina nello stesso tempo un distacco della parte continentale del nostro paese rispetto alle parti peninsulari e isolane. Non si tratta più di un fenomeno che si possa considerare temporaneo, una certa situazione socioculturale circa un ventennio fa ha favorito il sorgere del fenomeno leghista, e da lì si è determinata una svolta rispetto alla tradizione di sinistra ed operaista che era andata avanti fino ad allora, trovando proprio nel nord-ovest uno dei luoghi più favorevoli. Ciò che io noto, e l’esperienza di questo blog me lo conferma, è un distacco anche antropologico del nord dal resto del paese. Mi pare che anche l’Italiano di sinistra del Nord sia in qualche misura differente dall’Italiano di sinistra del centro-sud, e lo dico con grande preoccupazione.

Altre evidenze sono date dai macroscopici errori nelle scelte dei candidati del PD e talvolta anche dei suoi alleati. Il caso più clamoroso è quello della Campania con la candidatura per certi versi del tutto incomprensibile di De Luca. Un candidato abbastanza mediocre quale Caldoro, ma per quanto se ne sappia non implicato in fatti di camorra, ha vinto a man bassa contro un candidato del centro-sinistra così chiacchierato. Ora, sarebbe interessante chiedere sia a Di Pietro che a Vendola quale sia stata la ragione per accettare ciò che in altre regioni è stato rifiutato, l’adesione a un’alleanza così male guidata.

Sicuramente l’evento più favorevole per la sinistra è la conferma di Vendola a governatore della Puglia. Nel quadro di una sconfitta strategica del PD, o meglio di suoi dirigenti storici, che non hanno saputo scegliere le strategie corrette, le persone giuste, ed anche in assenza di contenuti politici condivisibili, valga per tutti il caso del Piemonte, con destra e sinistra a favore della TAV, il ruolo che potrebbe svolgere Vendola potrebbe rivelarsi centrale per tutta la sinistra. Analogamente, il chiaro atteggiamento di distinzione e di manifesta ostilità di De Magistris verso la scelta dell’IDV a favore di De Luca, potrebbe rilanciarne la figura, e non è fantapolitica prevedere un avvicinamento e una collaborazione tra i due. Qui , bisognerebbe capire se Vendola in particolare punti a conquistare il PD, ovvero se si orienta a costituire una forza di sinistra credibile aggregando attorno a sé e forse De Magistris un nuovo schieramento.

Sono dicevo riflessioni a caldo, ci torneremo.

sabato 27 marzo 2010

I LAMENTI DI MARCHIONNE

Leggo che Marchionne si lamenta degli attacchi portati da varie parti alla FIAT, e rimango sbalordito. Un uomo che ha deriso lo stesso ministro alle attività produttive, che ha deciso irreversibilmente di chiudere Termini Imerese, che non nasconde di volere trasferire attività produttive fuori dai nostri confini alla ricerca di costi di produzione più bassi, cosa si aspetta dalla nazione che per decenni ha pagato per permettere la stessa sopravvivenza della FIAT, e ora si accorge che la FIAT non opera come una azienda italiana, ma è diventata a tutti gli effetti una multinazionale? Io spero proprio che anche dal mediocre mondo politico che ci ritroviamo la reazione sia quella di trattare da oggi in poi la FIAT come una qualsiasi altra azienda straniera, di farla finita con uno spirito di solidarietà nazionale che ormai non ha più alcuna ragione di essere, se mai l’avesse avuto. Ancora ieri Angeletti, segretario della UIL, si lamentava che gli Italiani comprano solo un terzo del totale dallì’azienda automobilistica nazionale: evidentemente, è rimasto il solo Angeletti a considerare ancora la FIAT come un’azienda italiana.

Se come io penso l’azienda è di proprietà degli operai che ci lavorano, allora diciamolo: la FIAT è più polacca e canadese di quanto non sia italiana. Nel momento in cui l’asse produttivo si sposta in altre nazioni, in cui quindi questa azienda non crea, anzi distrugge posti di lavoro nei patri confini, essa ha già scelto di estromettersi dalla comunità nazionale. Ciò vale per la FIAT, ma vale comunque per tutte quelle aziende che hanno delocalizzato le loro attività produttive, dove gli imprenditori hanno deciso di affidare le sorti delle loro aziende contando su bassi salari, e non scommettendo sul loro “know how”, su una sfida tecnologica.

Questo fenomeno è fondamentale certo dal punto di vista economico, indebolendo il lavoro dipendente ai livelli più bassi nei paesi sviluppati, ma è molto importante anche dal punto di vista politico nel senso più generale. Ciò deriva dal fatto che quando un’azienda fa dei grossi investimenti in un certo paese, non vuole rischiare di rimetterci per turbolenze socio-politiche. Io credo che si sia costituita una comunità transnazionale dei potenti che ha assunto il potere reale su tutto il globo, proprio perché quegli stessi paesi poveri privilegiati come fonte di lavoro a basso costo, non decidano di riprendere la loro sovranità, mettendo eventualmente in forse gli interessi economici delle aziende che lì operano. E’ un nuovo ordine mondiale che fatichiamo a decifrare perché è interesse di chi lo porta avanti di tenerlo nascosto, e certo la grande stampa non aiuta nell’opera di informazione, visto che la proprietà dei mezzi di comunicazione è sempre nella mano di queste congreghe di potere. Proprio nel momento in cui il ruolo dell’ONU si è molto ridimensionato, ciò non è avvenuto a favore delle sovranità nazionali, ma piuttosto a favore di queste associazioni internazionali su cui si sa troppo poco, ma comunque abbastanza per dedurre che l’ONU delle nazioni è stato sostituito da un ONU occulto dei grandi capitalisti, in cui temo le grandi organizzazioni criminali giocano un ruolo fondamentale.

giovedì 25 marzo 2010

CHE SUCCEDE AI CATTOLICI?

Io credo che si stia avverando quello che molti post fa avevo preconizzato, che la svolta conservatrice impressa da Ratzinger al cattolicesimo stia portando la chiesa che egli dirige verso una serie di sconfitte che alla lunga ne ridimensioneranno severamente l’influenza sulle società occidentali. Mi chiedo, ma come può Bagnasco intervenire così pesantemente sulla campagna elettorale, mentre è tuttora in corso lo scandalo internazionale sulla pedofilia di preti cattolici che coinvolge in maniera più o meno diretta lo stesso pontefice? Come si può apparire minimamente credibili nella difesa degli embrioni, quando si sacrifica la chiarezza sui crimini commessi da preti un po’ in tutto il mondo, esercitando molestie su bambini? In una società minimamente laicizzata come quella occidentale, la reazione più ovvia è la derisione. A me viene questa battuta: “La chiesa difende gli embrioni, perché sennò non ci saranno abbastanza bambini da molestare”. Oppure: “I preti piuttosto che sposarsi e fare sesso con donne, si contentano dei bambini per non dovere usare metodi anticoncezionali”. Insomma, vedere questi prelati che salgono in cattedra a fare moniti, a dare lezioni di etica, può suscitare solo ilarità, quando sappiamo che intere diocesi nei loro massimi rappresentanti hanno coperto con l’omertà crimini sanzionabili dal codice penale, ritenendo prioritaria, piuttosto che la difesa che pure viene spontaneo a qualunque essere umano dei nostri propri piccoli, la difesa dell’immagine dell’istituzione. C’hanno provato, ma li hanno sgamati, e adesso meritano di essere messi alla berlina. E tuttora, appare del tutto inadeguata la capacità autoriformatrice della chiesa, incapace di infliggere sanzioni a chi questa vergognosa opera di occultamento ha portato avanti per anni ed anni.

Ratzinger, ma direi l’intero collegio cardinalizio che lo elesse, ha preso a mio parere un abbaglio colossale, non comprendendo lo spirito dei tempi, come la secolarizzazione della società non poteva essere contrastata, se non altro perché al proprio stesso interno essa aveva prodotto degli effetti non facilmente, né rapidamente eliminabili.

Ratzinger avrebbe piuttosto dovuto imparare da Comunione e Liberazione, che secondo me interpreta nel modo più lucroso lo stesso cristianesimo. Come tutte le religioni, il cristianesimo non basa il proprio successo sulla coerenza logica e fattuale, ma al contrario nel far convivere al proprio interno elementi fortemente contraddittori che gli consentono di manifestarsi con la faccia adatta a una specifica situazione, come un uomo che avesse con sé una serie di maschere per potere indossare volta per volta quella più conveniente. Il vero volto di CL è quello di Formigoni, che non disdegna i matrimoni più incestuosi con il pagano Berlusconi, come con il Bossi dei riti celtici. Come dire: chi se ne frega, stare tutti assieme, mi da’ dei vantaggi, vantaggi di immagine, di potere, vantaggi soprattutto economici, il potere di gestione delle enormi risorse della Regione Lombardia, tutto quel sottobosco legato alla sanità, una sanità tra l’altro estremamente intrecciata al privato. Vorrei anche ricordare che il Saladino, quello dell’agenzia interinale coinvolta nell’inchiesta “Why not” al tempo delle inchieste giudiziare da parte di De Magistris, quello che riceveva le telefonate di Mastella e dei vari politici che gli chiedevano di sistemare nella pubblica amministrazione loro protetti proprio tramite la sua agenzia, è un esponente di CL. Chissà se questo spiega perché l’ANM a quel tempo non sostenne De Magistris, visto che nel suo consiglio direttivo ci stava un altro ciellino!

Vorrei finire con una nota autobiografica. Tanti anni fa, proprio qui a Catania, CL organizzò un dibattito a cui partecipò anche Gad Lerner, ed io vi volli assistere. Rimasi stranizzato quando vidi che alcune adolescenti, chiaramente cielline anche loro, erano state abbigliate con delle minigonne microscopiche che non nascondevano proprio nulla, per svolgere il loro ruolo di hostess. E’ contraddittorio predicare un sesso finalizzato soltanto alla procreazione all’interno della famiglia con l’utilizzare il fascino del corpo di giovani donne per allietare lo sguardo inevitabilmente indiscreto dei maschi loro attorno? Non so, ma è una nota di colore che mi colpì, perché per me del tutto inattesa, e che ho pensato di porgere alla vostra attenzione in chiusura di post.

martedì 23 marzo 2010

SARTORI E LIBERALISMO

Vorrei qui riferirmi all’articolo di Giovanni Sartori, apparso ieri sul Corriere. Ebbene, se uno degli esponenti di punta del pensiero filosofico-politico liberale mondiale scrive un articolo come questo, qualche problemino le teorie liberali ce l’avranno. Il Prof. Sartori esprime alcuni concetti in maniera inequivocabile, e li vorrei qui sottolineare.

  1. Egli dice: “quando si discute di trasformazioni della natura umana … allora il fattore decisivo è la tecnologia”. Bene, non sono quindi il solo a sostenere la neutralità della tecnologia. I mezzi tecnologici, proprio in virtù della loro stessa natura di oggetti fatti in un certo specifico modo e non in un altro, non sono mai neutrali, ma piuttosto il loro uso, ma dovrei dire la loro stessa disponibilità, ci influenzano pesantemente. La domanda successiva potrebbe essere se ciò non dovrebbe suggerire una disciplina nella ricerca tecnologica, quanto meno per quanto attiene gli aspetti palesemente applicativi: chissà cosa ne pensa il liberale Sartori…
  2. In particolare, Sartori punta il dito contro la televisione, che stimolerebbe il passaggio all’ ”homo videns”, un uomo che finisce per potere pensare solo ciò che vede, avendo completamente eliminato ogni capacità immaginativa. Chi mi legge con una certa costanza, sa bene cosa penso della TV, di cui ho detto il peggio che se ne possa dire. Ciononostante, qui Sartori mi pare che si concentri su un aspetto specifico, seppure molto importante, trascurando così le implicazioni collegate. Forse se Sartori fosse vissuto nelle campagna del Veneto o della Sicilia di appena un secolo fa, in cui quindi non c’era la Tv, e neanche la radio in verità, avrebbe potuto verificare le capacità di elaborazione critica dei contadini di quel tempo. Ciò che si è perso da allora non riguarda quindi l’alfabetizzazione, o una presunta diminuzione nelle capacità intellettive, ma piuttosto due elementi su cui mi vorrei brevemente soffermare. Il primo è la perdita della capacità di imporsi sforzi finalizzati. Il contadino affrontava continuamente le sfide che la natura e la sua attività gli poneva, sapendo che un insuccesso avrebbe potuto coinvolgere la stessa sopravvivenza sua e della sua famiglia. Ciò creava e sviluppava una microcultura, micro per il suo raggio di azione, ma una cultura per certi aspetti estremamente raffinata per la capacità di raggiungere lo scopo che si prefiggeva. Oggi, i nostri giovani non hanno l’occasione di confrontarsi con questa lotta per la sopravvivenza, tanto che la ricercano stupidamente e tragicamente nelle folli corse automobilistiche del sabato sera. Il secondo aspetto è lo sdoganamento dell’ignoranza. Si è cioè diffusa una cultura del ritenersi “giusti”, dell’orgoglio dei propri difetti e delle proprie carenze. In quest’aspetto, la Tv ha svolto senz’altro un ruolo devastante, esibendo le risse da salotto, il fare parlare la gente. Il messaggio è che non occorre sapere esprimersi correttamente, né essere educati, basta esserci, sono nato e mi è stata data la cittadinanza italiana, e quindi sono portatore di una serie di diritti di default, senza che la società debba pretendere da me una contropartita. Si è così persa l’umiltà, la capacità di riconoscere i propri limiti.

Credo, concludendo, che le brevi considerazioni di Sartori ancora una volta pongano problemi ben più ampi, che riguardano il ruolo della classe dirigente di una nazione, del modo di costruirla e rinnovarla, mettendo a rischio i sacri principi liberali tanto cari proprio allo stesso Sartori.

domenica 21 marzo 2010

IL CORAGGIO, UNA VIRTU' NECESSARIA

Quando l’otto marzo Napolitano affermò che viviamo in una nazione in cui la virtù può essere esercitata senza bisogno di coraggio, qualcosa mi apparse fuori posto, qualcosa su cui non riuscivo a concordare, ma poi non ci pensai più. Oggi, su “La Stampa”, compare un articolo della Spinelli che riprende questo discorso, commentandolo in maniera organica, come spesso le accade in maniera magistrale.

Cito un passo in cui la Spinelli fa un riferimento a Platone: Nella Repubblica, Platone spiega come il coraggio (andreia) sia necessario in ogni evenienza, estrema e non. Esso consiste nella capacità (dell’individuo, della città) di farsi un’opinione su ciò che è temibile o non lo è, e di «salvare tale opinione». L’opinione da preservare, sulla natura delle cose temibili, «è la legge e impiantarla in noi attraverso l’educazione», e il coraggio la conserva «in ogni circostanza: nel dolore, nel piacere, nel desiderio, nel timore».

Qui, quindi, il significato di coraggio non è certo il contrario di paura, perché anzi il coraggioso non ha meno paura degli altri, ma, al contrario dei pavidi, non se ne fa condizionare. Il coraggioso è piuttosto chi sa resistere al conformismo, chi ha una concezione del bene e del male, e la sa mantenere anche se le condizioni ambientali attorno a lui stanno cambiando radicalmente.

Meno convincente mi appare la seconda parte, dove finisce per parlare della democrazia con un apparente salto logico: gioverebbe forse ricordare che Platone non amava certo la democrazia. Se la Spinelli giunge alla conclusione che l’uomo non ama la legge, e quindi l’inevitabile coerenza e coraggio che il suo rispetto impone, ma sia piuttosto un essere conformista, come anche io sostengo nel mio libro, allora forse bisognerebbe ripensare se i meccanismi liberal-democratici non abbiano qualcosa di incompatibile con l’uomo così com’è e non come vorremmo che fosse. Dovremmo chiederci se non possano esistere strutture istituzionali che possano meglio delle attuali impedire quel degrado che non solo porterà a una tirannide che mai vorrà farsi chiamare tale, quella nei fatti è già iniziata, più in Italia, ma un po’ anche nelle altre nazioni occidentali. Porteranno piuttosto alla stessa estinzione dell’umanità. Bella e significativa la citazione da Kierkegaard: quando qualcuno preconizzerà la catastrofe, un pubblico istupidito ne riderà senza tentare di mettersi in salvo.

venerdì 19 marzo 2010

CHE FARE?

In questo post, mantengo l’intenzione già manifestata di tenermi fuori dal dibattito sulla prossima competizione elettorale. Lo specifico perché qualcuno potrebbe interpretarlo in maniera differente. Le riflessioni che faccio cioè, non si riferiscono alla prossima scadenza, in quanto oggi si sconta la situazione data, mentre ciò che io qui auspico richiede condizioni di partenza differenti ed oggi chiaramente non soddisfatte. Nei limiti quindi delle condizioni presenti, ognuno compierà la sua scelta, che nella mia opinione sarà sempre, qualunque essa sia, insoddisfacente, soppesando a proprio modo quale possa essere il male minore. Si tratta quindi di considerazioni rivolte al post-elezioni, a quella che teoricamente può costituire un intervallo di tempo abbastanza ampio, tre anni, per giungere in condizioni più favorevoli alle successive scadenze elettorali.

Si tratta, a mio parere, di costituire un’aggregazione forte, cioè un gruppo di persone con convinzioni politiche molto ferme e omogenee, motivate a promuovere un movimento politico riformatore, con obiettivi estremamente impegnativi. Proprio questa aggregazione è a mio parere ciò che oggi manca. Le aggregazioni presenti sembrano perseguire la pura gestione dell’esistente, ritagliandosi in sostanza un proprio ruolo e una propria fisionomia, senza alcun obiettivo di lungo periodo, con l’unica preoccupazione di sopravvivere, di mantenere ed accrescere il proprio peso elettorale, ma senza definire obiettivi di lungo periodo, di tentare di fornire una risposta convincente alle grandi questioni che il mondo di oggi ci pone con aspetti apparentemente inediti. Tra l’altro, proprio i risultati delle elezioni negli ultimi anni hanno mostrato che uno spazio c’è anche a livello elettorale per nuovi movimenti e formazioni politiche, perfino più, potrei dire, dell’augurabile, nel senso che favoriscono carriere politiche esaltanti anche a chi non ha avuto il tempo di manifestare il proprio percorso personale: il pericolo è il venir fuori di imbonitori improvvisati.

Naturalmente, una nuova lista non può aspirare alla maggioranza dei voti, è inevitabile che otterrà presumibilmente risultati a livello di pochi punti percentuali, nella migliore delle ipotesi. Cosa farsene di questi pochi voti? Come perseguire un progetto politico di lungo periodo e nello stesso tempo non apparire insignificante all’occhio degli elettori?

Questo punto secondo me va approfondito, perché risulta fondamentale, non soltanto per la nuova formazione politica che io auspico, ma un po’ per tutte quelle formazioni che si collocano nelle regioni estreme dello schieramento politico, e tipicamente l’estrema sinistra. La mia tesi è che, proprio caratterizzando ideologicamente, cioè costruendo un modo di pensare alternativo al pensiero dominante, sia possibile poi praticare, giustificandolo di fronte ai propri elettori, una tattica politica quotidiana adeguata a quegli aspetti di dettaglio, apparentemente compromissori, che, soli, possono superare quella apparenza di insignificanza e di velleitarismo di formazioni politiche tacciate di estremismo. Il compromesso, insomma, può essere praticato da chi ha alle spalle un substrato ideologico che, certificandone aldilà di ogni ragionevole dubbio, la coerenza, non appaia come un atto di trasformismo.

Da questo punto di vista, seguendo un blog dichiaratamente di sinistra, ho continua testimonianza di questo dibattersi di queste formazioni politiche tra velleitarismo e opportunismo. Si continua a dire da parte di tanti che la malattia dell’estrema sinistra sia il non mettersi mai d’accordo, troppe discussioni, troppi punti di vista differenti, troppi distinguo. Io invece ho un’opinione esattamente opposta, che delle ipotesi politico-ideologiche non si parli proprio più. Rimane questo richiamo, ormai generico e forse perfino nostalgico-affettivo al marxismo, un marxismo che tra l’altro alcuni considerano ormai ben lontano dalle tesi dello stesso Marx, considerato più un filosofo che propone un metodo, una chiave di lettura della realtà, più che un politico vero e proprio. In ogni caso, è evidente che le interpretazioni del pensiero di Marx sono ormai troppe e troppo divergenti l’una dall’altra, per potere costituire un riferimento utile per le scelte politiche di ogni giorno.

Ma diciamocelo, a nessuno interessa più parlare delle tesi di Marx, neanche ai più sfegatati sedicenti marxisti. A me sembra evidente un condizionamento delle menti anche nelle formazioni più estreme della sinistra da parte di Tv e altri mezzi mediatici che c’ha reso omologati a uno standard comune. Alla fine, l’adesione a una piuttosto che a un’altra formazione politica dell’estrema sinistra rischia di apparire come l’adesione alla strada di calcio del cuore, col risultato che ciascuna formazione politica si identifica col proprio leader: anzi, la storia della frantumazione di quest’area politica ripercorre le personali beghe di un potere sostanzialmente fasullo tra i vari capetti che non riescono a sopportarsi e a convivere nella stessa stanza con chi non ne riconosce l’incontrastata autorità.

Si tratta davvero di una storia di miserie, prima umane che politiche. Se tale è la natura delle divisioni, non v’è alcuna possibilità di superarle. Se invece si trattasse di un vero dibattito politico, questo non solo sarebbe auspicabile, ma si potrebbe sempre ricondurre a un disegno unitario più ampio. In altre parole, a sinistra ormai non si parla più, almeno non si parla più di politica, è questo il suo vero dramma.

giovedì 18 marzo 2010

SUICIDI DI IMPRENDITORI

Ieri, ascoltavo alla radio la lettura di un articolo apparso non so bene su quale quotidiano sui suicidi di piccoli imprenditori veneti, ormai un dato statisticamente significativo. Si tratta certo di una notizia triste, ma ciò su cui mi vorrei soffermare è sul commento che appariva nell’articolo in questione. In sostanza, il giornalista sosteneva che, pur condannando il gesto in sé, il suicido rappresenta la testimonianza di quanto ci sia di buono nell’imprenditoria italiana, e segnatamente quanto il modello “piccolo imprenditore” del nostro nord-est rappresenti un’isola di etica nel lavoro, soprattutto se paragonato ai grossi finanzieri che hanno causato con i loro comportamenti irresponsabili la crisi mondiale in cui ci ritroviamo. Difatti, per l’articolista, la causa del suicido starebbe nell’impossibilità di onorare il patto con i propri dipendenti a cui doveva necessariamente garantire una continuità nel rapporto di lavoro. Insomma, di fronte alla prospettiva di dovere licenziare, sentiva il peso della propria responsabilità rispetto ai dipendenti coinvolti.

A me, lo dico chiaramente, pare un commento assolutamente non condivisibile. Non dico che questo imprenditore non avesse stabilito un rapporto di reciproca fiducia e solidarietà coi propri dipendenti, ma se si isola questo aspetto decontestualizzandolo, non se percepisce il significato più profondo. L’aspetto di fondo è appunto questo spirito imprenditoriale, questa filosofia di vita che mette al centro della propria vita l’aspetto economico. Il miracolo del nord-est non si può capire, se non proprio a partire della religione del denaro, preso a modello e misura di tutto, la ricchezza come un numero che permette di stabilire gerarchie univoche dall’alto dell’autorità proprio dei numeri. Per questi imprenditori, la loro azienda non è soltanto il luogo del lavoro, dell’attività più o meno piacevole che ti permette il sostentamento, ma assume piuttosto il significato di una chiesa, del tempio dove si celebra il rito del successo. Se il faro della propria vita diventa il successo economico ottenuto col proprio duro lavoro e col lavoro altrettanto duro dei propri dipendenti, è chiaro che in caso di fallimento non si decreta soltanto l’insuccesso di un’attività lavorativa, ma l’insuccesso di tutta la propria vita. Da una parte il riconoscimento sociale viene meno, dall’altra si può improvvisamente scoprire di non avere altri interessi di vita, altre motivazioni su cui continuare a scommettere, con cui continuare ad impegnarsi.

Altro che positivo spirito imprenditoriale, qui si evidenzia un vuoto di valori, una vita ad un’unica dimensione: tolta questa, nulla rimane più, e il suicidio diviene una terribile alternativa possibile. Proprio questo intensificarsi dei suicidi evidenzia la crisi di civiltà in cui siamo finiti. Chissà se sarà possibile avere un mondo in cui l’aspetto economico possa trovare un giusto ridimensionamento all’interno di una vita più piena, più multiforme, in cui si possano riscoprire valori gratuiti, piaceri che non richiedono un controvalore in denaro.

martedì 16 marzo 2010

L'ATTUALITA' DEL '68

Recentemente, sul quotidiano “Il Manifesto”, una lettera di Luigi Cavallaro ha innescato un dibattito sul ’68. In sostanza, Cavallaio sostiene che nel ’68 c’era in nuce la rivoluzione liberista che abbiamo subito a partire dagli anni ’80 e imperante anche ai nostri giorni.

La giornalista Rina Gagliardi è perentoria nel respingere questa tesi, richiamando correttamente alcune specifiche circostanze che conferiscono a quel movimento caratteri di sinistra.

A me pare però che l’interesse maggiore di questo dibattito, e forse manderò una lettera al Manifesto, non stia negli aspetti storici, a chi ascrivere un certo movimento, ma a certi elementi di attualità che dovrebbero riguardarci. Non serve insomma secondo me ricordare i fatti avvenuti, le parole d’ordine specifiche: certamente per me che l’ho vissuto in prima persona, non v’era dubbio che eravamo di sinistra, ma così si sfugge a una riflessione più complessiva. Già in un precedente post, mi soffermavo sul carattere duplice del ’68, egualitario e libertario nello stesso tempo. Da qui forse sarebbe utile partire, dal fatto che nulla più del ’68 rappresenta una conseguenza coerente di teorie illuministe, filtrate poi attraverso la scuola di Francoforte, e particolarmente attraverso il pensiero di Marcuse.

Se a distanza di poco più di dieci anni la politica ha subito una svolta così perentoria verso teorie di destra, con il trionfo dell’economia liberista a partire dalla presidenza Reagan, non sarebbe doveroso riflettere su come tutto ciò sia potuto avvenire? Non è almeno lecito il dubbio che in nuce nel ’68 ci fossero delle contraddizioni che hanno poi consentito lo spostamento planetario della politica verso destra? Può essere ignorato che tanti dei fedelissimi del signor B. siano ex-militanti di Lotta Continua e di altre formazioni dell’estrema sinistra di quegli anni?

Io credo che il ’68 sia stata una vera e propria ubriacatura ideologica, da cui apparentemente non riusciamo più a risvegliarci. Per farlo, dovremmo finirla col porre il discrimine fondamentale, quello che si fa passare tra destra e sinistra, tra chi è egualitarista, la sinistra, e chi non lo è, la destra, entrambe nel contempo impegnate a difendere la libertà ognuno a suo modo.

Il modo di uscirne, quello che propongo nel mio libro, è dimenticare queste parole d’ordine, troppo ambigue per non provocare conseguenze dannose inattese. L’uguaglianza dovrebbe essere sostituita dalla fratellanza, cioè dal riconoscere l’uguale dignità di tutte le persone, evitando di considerarle uniformi, evitando di dovere sorvolare, perché politicamente scorretto, su cose che pure sono evidenti, che ad esempio le persone non sono egualmente intelligenti. Qui, l’errore sta nel considerare una persona più intelligente come migliore di un’altra, il che è evidentemente una baggianata.

Sulla libertà, che tutti rivendicano a loro modo, sarebbe credo utile riconoscere quanto la socialità degli uomini li porti al riconoscimento dell’autorità. La mia tesi è che gli uomini oscillino tra questi due opposti poli, da una parte l’aspirazione alla libertà, dall’altra al riconoscimento dell’autorità. Trascurare uno dei due poli, porta a rimanere inermi rispetto alla capacità sociale di condizionamento.

Naturalmente, il discorso è complesso e richiederebbe ben più spazio, ma mi fermo per il momento qui, alla semplice enunciazione della mia teoria: in fondo, è solo un post.

sabato 13 marzo 2010

PRIMA DELLE ELEZIONI

Con la sentenza del Consiglio di Stato sembra chiusa la querelle sulle elezioni regionali. Potrebbe essere un’occasione perché questo blog si distanzi un po’ dall’attualità politica, puntando su temi più generali, di cui finisco col parlare altrove. Partirà infatti alla grande la campagna elettorale, e nei blogs prevarranno i toni polemici, cose viste e riviste, e di cui si intravedono le prime tracce, ad esempio a proposito del giudizio su Napolitano. Ci saranno appelli al voto, il boia a chi molla da una parte, e l’invito più o meno esplicito all’astensione dall’altra. Sembrerebbe che stavolta l’elemento fondamentale che influenzerà i risultati sarà la percentuale, data in crescita, dell’astensionismo degli abituali elettori del PDL. Le immagini, più delle parole, ci rinviano un premier stravolto, sempre più aggressivo, addirittura feroce. Più di qualsiasi sondaggio, questo signor B. fuori di sé più di quanto sia mai stato, senza l’abituale tendenza allo scherzo, alla voglia di mostrarsi tranquillo e sicuro, ci parlano di una difficoltà del PDL proprio quando il risultato stesso delle elezioni del 2008 sembravano preconizzare un regime difficilissimo da scalzare. Il signor B. tenterà di ribaltare questa situazione, e ciò dovrebbe farci preoccupare data la sua insensibilità democratica e il basso livello, sia intellettivo che morale del gruppetto di fedelissimi che lo circonda.

In ogni caso, tutto ciò che è avvenuto in questi due ultimi anni alla politica ed alla società italiana lasceranno conseguenze non facilmente rimarginabili. Due anni terribili in cui abbiamo avuto una crisi economica terribile: del PIL e della sua decrescita non me ne potrebbe fregare di meno, ma non posso rimanere impassibile vedendo la disoccupazione galoppante, e non oso immaginare cosa potrà avvenire se la cassa integrazione non riuscisse più a coprire e tamponare l’effetto della perdita dei posti di lavoro. Abbiamo avuto la prova provata di un premier che utilizza aerei militari per portarsi ragazzine a Villa Certosa, dove trascorrere vacanze di Natale, e le foto che sono circolate non lasciano dubbi ed ambiguità sulle attività lì programmate. Abbiamo verificato che per una donna, purchè giovane ed attraente, è possibile violare la riservatezza che ci si aspetterebbe per la dimora del premier. Gli scandali si sono succeduti a ritmo galoppante, coinvolgendo le più alte cariche della Protezione civile. Infine, il bruttissimo pasticcio delle elezioni, come dire: è ufficiale, in Italia il rispetto delle regole è un optional, preferibilmente riservato ai pirla che ancora ci credono.

Come potremo un giorno rialzarci da tutto ciò? Come potremo uscire da queste situazioni di illegalità diffusa in presenza di un’opposizione palesemente non all’altezza dei suoi compiti? Mi convinco sempre più che la gente merita di avere un’alternativa credibile anche a livello elettorale, che qualche forma di aggregazione tra persone per bene e alieni dalla religione del mercato debba realizzarsi, e che ci dovrà essere qualcuno componente di tale aggregazione che si esponga, che scommetta sulla propria elezione. La sostanziale uniformità nelle politiche concrete tra governi di centro-sinistra e centro-destra ha tarpato le ali nella aspirazione della gente ad occuparsi di politica, a ritenersi in grado di potere influenzare i modi della convivenza sociale. Chi ne è in grado, deve dare alla gente una possibilità, oppure dovremo tacere per sempre.

mercoledì 10 marzo 2010

CHE GIORNALISTI!

Ma che diavolo sono diventati i giornalisti in questo paese? Voglio qui citare due passaggi, uno di Polito, e l’altro di Panebianco, riferiti alla nota vicenda delle liste.

Cominciamo da Panebianco, che scrive sul Corriere della Sera:

All’indomani del decreto, incapaci di sfruttare il grande vantaggio tattico che il Pdl aveva loro offerto, i dirigenti del Partito democratico si sono subito infilati in una trappola. Parlo della manifestazione di sabato prossimo. Se non verrà annullata, risulterà per il Pd un boomerang e un pasticcio politico, in qualche modo summa e specchio di tutte le sue debolezze. I dirigenti del Pd possono negarlo quanto vogliono ma la manifestazione avrebbe necessariamente il carattere di una presa di posizione contro il capo dello Stato e non solo contro il governo. Il decreto salva-liste, infatti, è stato firmato e difeso da Napolitano. In questa situazione, la stella di Di Pietro, oggi vero leader morale dell’opposizione, brillerebbe: egli è infatti il solo non-ipocrita della compagnia, quello che dice pane al pane, quello che ha chiesto subito l’impeachment per il capo dello Stato. Si badi: se fosse vera la tesi (ma i costituzionalisti sono assai divisi ) secondo cui il decreto crea un grave vulnus al processo democratico, allora Di Pietro avrebbe mille volte ragione a proporre l’impeachment. Quello del Pd risulterebbe dunque un capolavoro politico alla rovescia. Consentirebbe (e ha già consentito) al centrodestra, responsabile del pasticcio, di fare la vittima e di ergersi a difensore del presidente della Repubblica.

Qui, davvero Panebianco o c’è o ci fa. Non v’è alcun dubbio che il PD si trovi in un’insanabile contraddizione. Se afferma che il decreto governativo è una forzatura o un’aperta violazione dei principi costituzionali, dovrebbe con tutta evidenza accusare lo stesso Presidente della Repubblica. Invece non lo fa, attacca il decreto, ma si erge nel contempo a difensore estremo di Napolitano. Come si possa essere così contrario al decreto, ma non avere critiche da fare al comportamento di chi lo ha firmato, è un esercizio di equilibrismo destinato inevitabilmente all’insuccesso.

Però, è questo il punto fondamentale, chi è il responsabile di questa situazione? Non certo Bersani e il suo partito. Ha continuato ad attendere il cadavere del PDL che gli passasse davanti, contando sul rifiuto del Presidente a prestarsi a pasticci istituzionali. Se così fosse stato, il signor B. sarebbe stato costretto ad andare in Parlamento, che in questa situazione sarebbe stata la sua Canossa. Al contrario, Napolitano non soltanto ha ceduto alle insistenze del signor B., ma, decidendo di esaminare previamente il testo prima che il CdM lo approvasse, egli stesso ha indicato la strada che gli sembrava più opportuna, ma su questo tornerò.


Andiamo adesso a Polito, che scrive:

Seconda osservazione: la sentenza conferma la correttezza della firma di Napolitano. Il decreto non cambiava le regole a partita in corso, le interpretava. I giudici hanno dunque potuto decidere liberamente su quella interpretazione. La giurisdizione non è stata loro sottratta.

Voi lo avete capito cosa ha scritto? La sentenza a cui ci si riferisce è quella del TAR che ha rigettato il ricorso del PDL, indicando tra l’altro la non competenza del governo in materia, in quanto si tratta di materia sottoposta alla legislazione regionale del Lazio. Dunque, vediamo d’intenderci. Il governo con l’avallo esplicito del Presidente della Repubblica, l’unico che aveva la competenza a promulgarlo, ha fatto un decreto che doveva intervenire sulle elezioni regionali. Il Tar dice che il governo non aveva diritto di intervenire in materia, e sembrerebbe ovvio a tutti, ma evidentemente non a Polito, che ciò non può che suonare come una sconfessione dello stesso decreto. Se infatti tutto il regolamento elettorale regionale sfugge alle competenze del governo e della legislazione nazionale, il decreto non aveva ragione di esistere, anzi, cosa più grave costituisce per il fatto stesso di essere stato promulgato un illecito.

Ultima osservazione: il Presidente ha volutamente scelto il tipo di decreto che a lui sembrava potesse essere più costituzionalmente difendibile. Perché l’ha fatto? Evidentemente per difendere il proprio stesso operato, ma forse gli si dovrebbe chiedere se si sia reso conto che così sarebbe inevitabilmente divenuto un ulteriore Ghedini della situazione, un leguleio pronto a fare ottenere al signor B. ciò che questi chiedeva e bramava. Colmo dell’accaduto, il Presidente aveva torto, ed ha fallito nel suo tentativo di rendere lecito un decreto palesemente illecito: tanto, ci saranno i Polito e i Panebianco di turno a rivoltare la frittata pur di schierarsi aprioristicamente col Presidente, senza entrare minimamente nel merito della vicenda.

martedì 9 marzo 2010

ITALIA ADEMOCRATICA

Per descrivere lo stato della nostra nazione, userò una parola che credo costituisca un neologismo: “ademocrazia”. Di democratico ed antidemocratico, si fa un ampio uso, direi anche un abuso, ma quando si guarda all’Italia, nessuno di questi due termini sembra adeguato. Per chiarire il significato che io do’ ad ademocrazia e al correlato aggettivo ademocratico, farò il raffronto con educato, maleducato ed ineducato, termini tutti esistenti e di significato credo noto a tutti. Ecco, ademocratico costituirebbe il corrispettivo di ineducato. Per una certa cultura profondamente influenzata dal cattolicesimo, le regole semplicemente non esistono. Per l’Italiano medio, esse sono trasparenti, sono come i tanto pericolosi raggi ultravioletti che possono in una nuvolosa giornata di giugno provocarci gravi ustioni quando, ignari di tutti questi fotoni che colpiscono la nostra pelle, ignari perché non avvertiamo il fastidio del calore eccessivo, ci esponiamo liberamente su una spiaggia. Di fronte ad una regola, l’Italiano pensa subito a come aggirarla, anzi è un riflesso condizionato, l’aggira senza neanche bisogno di rifletterci. Si potrebbe dire che è come quando camminando per strada, ci imbattiamo in una buca oppure in una sporgenza, in un ostacolo di qualsiasi natura, viene spontaneo aggirarlo: ecco, la regola per l’Italiano è soltanto un ostacolo frapposto tra la sua persona ed il suo obiettivo.

In una certa misura, questo atteggiamento è assolutamente naturale, il nostro essere biologico funziona proprio così. Come sostengo nel mio libro, sviluppo tecnologico con la conseguente maggiore disponibilità di strumenti, e consapevolezza dovrebbero andare di pari passo, la cultura appunto dovrebbe permetterci non solo di circondarci di oggetti, ma anche di farne un uso appropriato. Proprio nello sbilanciamento tra disponibilità di mezzi tecnologici e livello di consapevolezza sta il problema del mondo contemporaneo.

Dovrebbe quindi essere l’educazione familiare, la scuola, che dovrebbero inculcare negli individui convincimenti a volte in evidente conflitto con le spinte istintuali, e dovrebbe esistere una classe dirigente che dovrebbe essere migliore del cittadino medio, anche solo di un po’, per indirizzare genitori ed insegnanti verso l’interesse generale. Lo sviluppo culturale dell’umanità è storicamente avvenuto così, non certo in modo lineare, e certo con grandi contraddizioni, ma la direzione prevalente questa è stata.

Oggi, in cui si idolatra il mercato, e in cui quindi un imbonitore da fiera paesana dalle sue TV e dai suoi giornali può sovrapporsi e perfino sostituirsi efficacemente ai tradizionali circuiti di comunicazione culturale, abbiamo spezzato questo circuito virtuoso, restituendo tanti Italiani a un livello di comportamento più istintuale, e le regole sono cultura, non istinto. Secoli di cultura, il rispetto verso chi ha le competenze, chi sa fare le cose che si devono fare, sono state distrutte da un’ideologia che considera la libertà non una conquista individuale contro sé stessi, ma intesa al contrario come il lasciar fare, il “si può” del grande Gaber, non autodisciplina, ma il rifiuto di sottostare a qualsiasi criterio di ragionevolezza. Prevale ormai lo spirito di branco, la mafiosità che va ben oltre i comportamenti scopertamente criminali, diventando illegalità, sostituzione delle regole formalmente definite con l’arbitrio del potente.

Si tratta ormai di uno stato ademocratico, che non ha quindi neanche bisogno di essere contro la democrazia, in quanto piuttosto la ignora del tutto, sostituendo ad essa la ricerca del potere fine a sé stesso. Le elezioni in questo stato che chiamai postdemocratico, ma qui chiamo ademocratico, un termine forse più appropriato ed eloquente, potrebbero ben essere sostituite da un sondaggio, perché dei cittadini sudditi è sufficiente conoscere l’opinione, che è poi divenuta pro o contro il signor B. Il Parlamento avrà la composizione voluta da lor signori, e a costoro manca soltanto l’ultimo passaggio, l’annullamento del potere giudiziario: per ora si contentano di usare la Gazzetta Ufficiale per scrivere qualcosa che risolva l’ultimo problema in ordine cronologico che essi hanno, un problema ed ecco la legge, o preferibilmente il decreto, tanto poi il Parlamento, costituito dai propri dipendenti, ratifica.

Come dico nel mio libro, l’Italia sembra rappresentare la triste avanguardia di una deriva a livello globale dello stato liberal-democratico, divenuto ormai uno stato di mercato.

sabato 6 marzo 2010

CI RIFLETTA, PRESIDENTE

Già da ieri mattina, dopo avere ascoltato la rubrica “Prima pagina” di radiotre, avevo pensato di postare sull’argomento, ma ho dovuto attendere la sera per trovare il tempo per farlo. Nel frattempo, c’è stata la riunione del CdM, l’approvazione di un decreto, poi firmato da Napoletano. A quanto pare, in questo paese, il rispetto delle regole è un optional!

Naturalmente le novità non potevano non rendere obsoleto il post che stavo ancora scrivendo, ma avervi riflettuto un po’ prima che si sapesse che il signor B. era riuscito a convincere il Capo dello Stato a firmargli il decreto, mi permette di andare oltre il pur doveroso sconcerto e sdegno per l’accaduto.

Napoletano, seguendo un filone di pensiero già abbondantemente rappresentato nella stampa nella settimana precedente, parla di un conflitto di esigenze: da una parte le norme e il loro rispetto, dall’altra i diritti di cittadini, a votare il PDL, immagino qui egli intenda.

Le norme sono quelle che sono, e proprio il rigoroso rispetto delle norme è il fondamento della democrazia. Sarà bene anche specificare perché, non è un dogma: la democrazia è un sistema che si basa sul rispetto delle minoranze, e il dovuto rispetto delle norme è proprio il modo in cui una minoranza viene difesa dalla maggioranza. Ad esempio, io ho diritto di parola anche se nessuno concorda con quanto io dico, e questo perché la norma recita che parlare liberamente è diritto di tutti i cittadini, indipendentemente dal consenso di cui gode chi parla. La minoranza però, intendiamoci bene su questo punto, non ha requisiti quantitativi minimi, tanto che anche un singolo cittadino costituisce una minoranza. Non si capisce quindi quanto andavano dicendo alcuni giornalisti nei giorni precedenti, quasi che il coinvolgimento delle minoranze parlamentari nell’operazione ne modificasse la natura. In altre parole, fare una porcata col 51% della popolazione consenziente, oppure col 99%, non ne cambia la natura di operazione illecita.

Andiamo adesso ai diritti dei cittadini di votare la lista che preferiscono. Questo diritto è certo sacrosanto, ma può riguardare solo le liste ammesse al voto, quelle che compaiono sulla scheda elettorale. Per essere ammessi, sono state fissate delle norme che vanno rispettate. Se una lista non compare nella scheda elettorale, la situazione è esattamente uguale a quella di una lista mai presentata. Chi può ragionevolmente prendere in considerazione che esista un diritto del cittadino a votare una lista che non c’è? Qui, abbiamo due separati diritti, quello di presentare liste e l’altro quello di votarle, ma quest’ultimo ovviamente può essere esercitato solo all’interno delle liste presenti. Sarebbe ben strano che il mio diritto a votare comportasse l’obbligo di altri a presentarsi. Quando i simboli dei vecchi partiti scomparvero, bisognava forse gridare come se fosse stato calpestato un diritto degli elettori a continuare a votare DC e PSI? Mi chiedo quale perversione del pensiero può mescolare questioni totalmente diverse.

Purtroppo, il Presidente ha firmato, e la natura del decreto che si pone come interpretazione di norme già vigenti è particolarmente grave: d’ora in poi, qualunque governo potrà cambiare il significato delle norme votate dal Parlamento, minandone il potere legislativo. Caro Presidente, se il governo, magari con l’avallo del Capo dello Stato, si riconosce il diritto di interpretare ciò che il Parlamento ha approvato, mi dice Lei cosa rimane delle prerogative legislative delle Camere? E a cascata, cosa mai rimane della separazione dei poteri? E infine, Lei, Presidente, non ha decretato la fine della democrazia in questo paese? Ci rifletta, presidente, ci rifletta tanto.

martedì 2 marzo 2010

FILMATI E BLOGS

Quanto conta in un blog l’aspetto grafico? Quanto contano le immagini e quanto i filmati?

Come sa chi mi segue, il mio blog è spartano, non ho mai tentato di renderlo più appetibile con orpelli vari, e non inserisco nei post né immagini né filmati. Questo mi pare il punto fondamentale, quanto l’aspetto visuale sia dominante nella società in cui viviamo.

Mettiamo ora da parte le immagini fisse, le foto, i disegni, tutta roba la cui funzione è essenzialmente estetica: si capisce che un aspetto gradevole attira sguardi e nel web contatti (provate con qualche bella figliola svestita e vedrete i risultati). Mi vorrei piuttosto soffermare sui filmati, resi disponibili a tutti da servizi come youtube, che risulta non a caso uno dei siti più clickati in assoluto. I filmati hanno dalla loro l’evidenza delle immagini, ci consentono un approccio perfettamente analogo a quello che sperimentiamo nella nostra vita quotidiana. Soprattutto direi, ci evitano uno sforzo immaginativo che risulta crescente passando a un audio e ancora più intenso nel caso della parola scritta.

Tra tutti i filmati però, ne esiste una sottospecie che davvero suscita la mia curiosità. Mi riferisco a quelli che chiamerò “alla Travaglio” che, seduto alla scrivania del suo studio, semplicemente legge qualcosa che egli stesso ha già scritto. Vedo con stupore che quest’uso si va man mano diffondendo, che sempre più blogs offrono come post filmati, generalmente con poche righe di commento scritto, a volte anche senza ulteriori commenti scritti. Non dico adesso che non mi piacciano, che, se ben realizzati, non possano svolgere perfettamente una funzione informativa. L’obiezione di fondo che faccio è cosa aggiungano al testo scritto. Sicuramente, l’intonazione della voce, le corrette pause, possono sicuramente facilitare la comprensione del messaggio, ma credo che possiamo tutti convenire che durante la lettura possiamo ben ricostruire da noi queste caratteristiche, guadagnandone in tempo: è un fatto che si legge più rapidamente di quanto si possa fare parlando, dovendo cioè pronunciare le parole.

La cosa più importante che avviene quando si passa dalla scrittura al filmato è il ridimensionamento del ruolo dell’immaginazione. Assistere a uno spot, non richiede granchè immaginazione, in quanto tutto è esplicito, il processo di decifrare non è richiesto, o almeno se ne richiede una dose minima, in quanto i codici di interpretazione delle immagini, soprattutto se in successione come avviene nei filmati, ci sono ben noti come cittadini del nostro mondo. Quando invece passiamo alla scrittura, allora al soggetto è richiesto di aggiungere tanto, ricostruire l’intonazione e le pause aiutandosi con la punteggiatura, ed in ogni caso il messaggio perviene abbastanza ambiguo da richiedere la partecipazione attiva del lettore: il leggere non è per niente un’attività passiva, ma è molto creativa, nel leggere in qualche modo riformuliamo il pensiero trasmesso. Non credo che dovremmo considerare questo impegno immaginativo come un elemento negativo? Credo piuttosto che dovremmo apprezzarlo, dovremmo goderci qual minimo di autonomia che il leggere ci regala in più dell’assistere ad un filmato.

Perché allora tanto successo dei filmati? Direi per un inganno biologico che ci fa credere sempre preferibile l’azione a minimo dispendio, e mi fermo qui in proposito perché il discorso diventa complicato e non riportabile in questa sede. C’è però anche un elemento culturale, l’essere la civiltà della televisione, avere quindi acquisito nel corso della vita un’abitudine a seguire immagini in movimento su uno schermo. Nel fatto di preferire il testo scritto ai filmati, riconosco in definitiva la mia età anziana, l’avere anche solo sfiorato nella primissima parte della mia vita una società priva di TV.