martedì 29 dicembre 2009

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 20

Stavolta, la rubrica tocca dedicarla al PD, che si pone al centro del dibattito politico su due differenti fronti regionali, in Puglia e in Sicilia.

Riassumiamo brevemente i fatti della Puglia. Il governatore uscente Vendola intende ricandidarsi, e in una riunione regionale di una decina di giorni fa, il PD regionale appoggia la sua ricandidatura. A questo punto, il notabile di Gallipoli, tale baffino Massimo D’Alema, interviene pesantemente sulla vicenda, tentando di imporre una candidatura interna al PD. Il grande stratega delle strategie tutte miseramente fallite, l’immagine stessa di un ceto politico tutto italico, nello stesso tempo determinato nel rimanere al centro del potere, ed irresoluto sul come governare, lancia la sua ultima idea di strategia fallimentare: di certo, la notte invece di dormire, il baffino pensa su come mettere su la strategia peggiore possibile, tanto egli sa per esperienza diretta che in Italia non si paga mai per le proprie scelte sbagliate, anzi è già un titolo di merito essere riusciti ad imporre la propria strategia, e ciò indipendentemente dai risultati conseguiti. La presente strategia sta nel coinvolgere l’UDC di Casini in una trama di alleanze, proprio a partire dalle candidature alle prossime elezioni regionali. Questa strategia appare così irresistibile a baffino, che egli non considera minimamente i modi effettivi con cui Casini si atteggia. Egli ha già deciso di allearsi col PDL in Lazio sul nome della Pollastrini, esercita cioè in pieno il ruolo di battitore libero, o se preferite a tattica dei due forni. In Puglia poi, Casini probabilmente si chiamerà fuori se Vendola persevererà sulla propria candidatura, per evitare l’inevitabile tracollo che seguirebbe ad avere entrambe le candidature di Vendola ed Emiliano, un altro degli strani personaggi politici di questa nostra repubblica, che ancora qualche settimana fa sosteneva che non si sarebbe mai dimesso da sindaco di Bari, tradendo così i propri elettori. Ora però, che strano, è pronto a candidarsi come governatore in aperta contrapposizione a Vendola. Il risultato di questa strategia dalemiana sarà con tutta evidenza di restituire al PDL il governo della Puglia, pagando tutti interi i costi di questa proterva linea di stop a un ex-governatore che ha governato bene.

In Sicilia poi, siamo in attesa del Lombardo-ter, della terza giunta regionale a guida Lombardo, con una maggioranza inedita. Starebbero in giunta, oltre al MPL dello stesso Lombardo, i PDL di Miccichè e l’unico deputato dell’Apl di Rutelli. Si tratta di un’alleanza di minoranza, ma che potrebbe contare sull’appoggio esterno del PD, che lo ha accolto nella maniera più ipocrita possibile, dicendo che è finalizzato soltanto allìapprovazione di riforme. Solito destino minoritario e perdente del PD in Sicilia, una strategia che trovo stupida, prima ancora che sbagliata.

Nel frattempo, continua il solito valzer del PD con il PDL sul tema delle riforme, contiunua la contrapposizione apparentemente insanabile tra D’Alema e Franceschini. Speriamo solo che la crisi del PD sia così profonda che costringa queste mezze calzette della politica a ritirarsi a vita privata.

martedì 22 dicembre 2009

TUTTI SANTI!

Ma nel mondo di oggi non c’è proprio nessuno che provi talvolta un po’ di vergogna? Nel mondo politico, ciò è evidente, così pure intorno a noi, vediamo con che facilità le norme della buona creanza siano violate.

Oggi però, mi voglio rivolgere all’istituzione “Chiesa Cattolica”, e chiedere se non provano un po’ di vergogna. Io credo che dovrebbero vergognarsi, se si pensa che, escludendo Luciani, quello che forse la meriterebbe più di tutti, degli ultimi quattro papi, se ne vogliono fare santi tre. Si potrebbe dire che ormai diventare papa assicuri la propria santificazione. Quindi, dicono che Pacelli sarà fatto santo, Roncalli mi pare già a buon punto, e così pure Woityla. E’ rimasto fuori quel poveretto di Montini, e a questo punto pare davvero una scortesia escludere lui e lui solo. Si potrebbe dire che tra loro, una santificazione non si rifiuta. Sembra una politica di santificazione perfettamente nell’alveo della società presente: perché rifiutare un titolo, una promozione a qualcuno? Rifiutarla significa farsi dei nemici, da noi perfino i generali sono molti di più che nelle Forze Armate di altri paesi, per non parlare dei docenti universitari, articolati in tre fasce, ma con la strana geometria a piramide rovesciata.

La Chiesa, appunto, mi pare che abbia pienamente sposato questa logica, con Ratzinger che già gongola pensando che da morto lo faranno di certo santo: del resto, gli amici di Pacelli e di Woityla si sentiranno impegnati a restituire il favore.

Se quindi un’istituzione millenaria come la Chiesa è così sensibile alla mentalità della presente era, si è così profondamente secolarizzata, che speranze abbiamo che i titoli conservino ancora una loro validità? Basta centellinare, siamo generosi: da todos caballeros a todos santos!

sabato 19 dicembre 2009

IL FALLIMENTO DEL VERTICE SULL'AMBIENTE

Credo che dovremmo guardare con la dovuta attenzione alle conclusioni della conferenza di Copenaghen, in quanto esse illustrano magistralmente l’esigenza di una rivoluzione culturale verde nel mondo.

La prima lezione che l’umanità dovrebbe apprendere è che il mito della crescita inarrestabile va abbandonato. Già, l’abbandonare questo mito, l’assioma stesso su cui l’ideologia occidentale ha conquistato la quasi totalità del mondo, evidenzia come un’ideologia verde non può convivere con nessuna ideologia che le preesista. Non è cioè possibile immaginare di aggiungere o modificare le politiche dell’oggi, pensando così di fronteggiare efficacemente le problematiche ambientali che ci si pongono di fronte nella loro gravità ed urgenza. Sta proprio nel perseguire la crescita economica del proprio paese, nel rifiutare vincoli verso una maggiore disponibilità di oggetti per i propri concittadini, la motivazione del fallimento del vertice internazionale. La cosa è ancora più evidente quando la confrontiamo con la reazione degli stati nazionali all’attuale crisi finanziaria. Lì, nel giro di pochi giorni, sono state trovate risorse ingentissime, sono state violate regole sacre del libero mercato, mentre oggi non si sono individuati e apprestati i mezzi necessari per fronteggiare la crescita dell’effetto serra. In altre parole, all’altare del mito della crescita inarrestabile sono stati sacrificati decenni di demagogia liberista, svariati miliardi di dollari, come oggi si sacrifica il futuro stesso del nostro pianeta. Il motivo cioè delle decisioni rapide, durissime che l’anno scorso governi di tutto il mondo hanno assunto è lo stesso delle mancate decisioni al vertice di Copenaghen: l’esigenza di garantire la crescita illimitata, quanto meno per la propria nazione.

Dobbiamo quindi imparare a vivere consumando meno energia “pro capite”, disponendo di un numero minore di oggetti, liberando nell’ambiente una massa minore di rifiuti.

So che esiste una tesi che potrei chiamare “scientista”, quella per cui non bisogna porsi il problema delle conseguenze future di certe politiche dell’oggi, perché gli sviluppi scientifico-tecnologici predisporranno le soluzioni adeguate. Naturalemente, ognuno ha diritto di credere ciò che vuole, ma il riporre la garanzia della sopravvivenza dell’umanità su sviluppi futuri e a tuttoggi imprevedibili del progresso scientifico è pura fede, allo stesso modo delle religioni e delle superstizioni.

Se quindi la complessa strategia che l’umanità deve mettere in atto per mantenere il nostro pianeta a noi ospitale richiede anche un contenimento nel livello di disponibilità di oggetti a nostra disposizione, chi potrà convincere l’umanità ad una riconversione nei propri modi di vita, che oggi vengono vissuti come un sacrificio? Com’è possibile riconvertire gli stili di vita in tutto il mondo, se questa riconversione viene vissuta come un obbligo? Sembrerebbe che ciò sia possibile solo attraverso modalità autoritarie: un gruppo illuminato di despoti dovrebbe obbligare le popolazioni a rinunciare ad oggetti e consumi fino al giorno precedente considerati indispensabili.

La via alternativa, che è quella che io propongo è quella della convinzione. Anche in questo caso, avremmo bisogno di un gruppo di persone illuminate, ma questi dovrebbero piuttosto indurre un processo di educazione, mostrando appunto come la nostra natura ci abbia resi adattabili all’ambiente, e come nello stesso tempo c’inganni, facendoci credere di avere bisogno di cose in realtà superflue.

Il libro che ho scritto mostra appunto come non solo sia possibile vivere senza disporre di tanti oggetti che l’ideologia dominante ci fa ritenere assolutamente indispensabili, ma come anzi liberarci di tanti di tali oggetti ci permetta di avvicinarci alla nostra natura, a vivere cioè non felicemente, una parola che ritengo fondamentalmente ambigua e che porta a fraintendimenti, ma a vivere pienamente, a bere sino in fondo il calice che la natura ci porge, questa nostra breve esistenza apparentemente individuale.

venerdì 18 dicembre 2009

IL PD TRA INCIUCIO ED IRRESOLUTEZZA

La domanda del giorno mi pare: ma cosa sta facendo il PD? Si potrebbe dire che il PD non sa cosa voglia fare da grande, essendo certo che adesso non si comporta da adulto, posto che gli adulti dovrebbero comportarsi seriamente.

Il PD, mi pare, sta facendo quello che non dovrebbe mai fare, e non fa ciò che sarebbe ovvio che facesse.

Non dovrebbe offrire sponde compiacenti al signor B., come fa in modo francamente osceno baffino D’Alema. Quest’uomo incarna, mi pare,, in maniera emblematica tutto ciò che non va nell’uomo politico italiano contemporaneo. Certo, ha una sua classe, una sua arguzia, una sua capacità brillante di argomentare, ma dietro tutto questo non troviamo che il vuoto assoluto. Troviamo questo stile allusivo che finisce inevitabilmente per assomigliare a un comportamento curial-mafioso. Sì, baffino davvero impersonifica alla perfezione questo genere di creatura, tutta interna alla politica, frutto di una cultura collusiva, che ama le stanze chiuse del potere, le manovre dietro le quinte. L’ho ascoltato ieri ad “Ottoemezzo”, e non ho potuto che rinnovare i miei profondi sentimenti di disprezzo per quest’uomo. Come forse saprete, ieri baffino si è aggiunto alla lista di coloro che vedono in un provvedimento ad hoc per il signor B. l’uscita dal culdesac in cui ci ritroviamo, con lo scontro frontale tra maggioranza parlamentare e governo da una parte, e magistratura dall’altro. Non è il primo, l’ipotesi è stata inizialmente avanzata esplicitamente da Casini. Ciò che rende insopportabile il ruolo svolto da baffino è il modo in cui egli interviene nella faccenda. Egli dice che non sono questioni che lo riguardano come parlamentare, che se ne occupi chi ne è coinvolto. Quale allora sarà mai il ruolo che egli dichiara di giocare? Udite, udite: è quello di un semplice cittadino, da semplice cittadino egli suggerisce questa via d’uscita. Non chiedetegli una responsabilità per questa opinione espressa, anzi egli si rifiuta di formulare un’ipotesi specifica sul genere di provvedimento da approvare, perché egli esprime un parere come semplice cittadino.

Ora dico io, da cosa dipenderà se uno è un semplice cittadino? Secondo baffino, pare che si tratti di indossare una casacca piuttosto che un’altra: adesso indosso quella con su scritto “semplice cittadino”, più tardi metterò quella di “parlamentare della Repubblica”, poi quella di “ex-Presidente del Consiglio”, e infine forse anche quella di “Presidente dell’Associazione Europea di non so cosa”. No, caro baffino, non siamo tutti come quei giornalisti che ieri sera sono rimasti in silenzio ad ascoltare simili insulsaggini: noi crediamo nell’impossibilità di dismettere un ruolo pubblico che la nostra storia, come la nostra pratica quotidiana ci consegna. La tua, baffino, è una furbizia come a volte le tentano i ragazzetti, una furbizia che appare a tutti come un mezzuccio per non assumerti la responsabilità dei tuoi atti.

La domanda successiva è: ma perché baffino entra nel merito di una questione così vischiosa, soprattutto quando viene dall’opposizione, se poi egli non intende assumerne la paternità esplicita? A me sembra abbastanza ovvio correlare questo intervento con l’appoggio dato dal governo alla sua candidatura a Ministro degli Esteri della UE. Essì, penso proprio che baffino debba pagare il debito contratto col signor B. sulla questione della invocata e poi negata nomina. Lo fa col suo stile, tentando, a modo suo, di chiamarsene fuori, ma qualcuno che ha occhi per vedere c’è sempre!

Quindi, questo è ciò che il PD fa con uno dei suoi più prestigiosi membri, grande elettore dell’attuale segretario, e che non avrebbe proprio dovuto fare, facendo scaturire alla chetichella interventi per motivazioni strettamente personali, che poi condizioneranno l’intera politica italiana.

Andiamo adesso a vedere cosa il PD avrebbe dovuto fare, e non ha fatto. Io dico: capisco che il PD voglia smarcarsi da Di Pietro, da un’opposizione intransigente in cui (misteriosamente invero) non si riconosce. Il punto però non mi pare sia questo, il punto è rubare l’iniziativa all’avversario. Sulla questione dell’incidente di Milano, il PD avrebbe potuto fare la sua figurina, senza figurare come il nemico del signor B. L’avrebbe potuto fare entrando nel merito del servizio di scorta al premier. L’avrebbe potuto fare, perché ora è già troppo tardi, visto che Santoro, che è un politico molto più accorto di loro, ha ieri sera “bruciato” questa questione facendola sua: ora davvero sembrerebbe che il PD si accoda a Santoro: anatema!

La questione della scorta è sicuramente quella su cui un’opposizione che si rispetti avrebbe dovuto indagare e chiedere conto proprio allo signor B. Cioè, il signor B. non è solo una determinata persona fisica, ma è anche il premier di questo paese. Come tale, è, come dire, di tutti noi, nel senso che ognuno di noi ha diritto di pretendere che il governo metta a punto un servizio di scorta del premier, che è anche (mio malgrado…) il mio premier, all’altezza delle esigenze di sicurezza. Le falle in questo servizio, le manie personali del signor B. di continuare ad usare uomini del servizio Fininvest, come la sua mania di mostrarsi sanguinante alla folla, rappresentano l’ennesimo atto di mal politica di questo governo.

Vedete, se il PD avesse insistito su questo tasto, avrebbe raggiunto lo scopo di sputtanare ancora una volta il governo, e nello stesso tempo di rappresentare la propria apprensione per lo stesso personaggio obiettivo dell’attacco. Come amano dire i terzisti, e nel PD ce ne sono tantissimi: il signor B. è un avversario, non un nemico.

giovedì 17 dicembre 2009

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 19

Mi pare che oggi si possa dire che la parentesi Tartaglia si sia chiusa senza troppi danni. Il paventato decreto che avrebbe dovuto introdurre delle restrizioni sulle manifestazioni e sul web sembra non verrà promulgato, e quindi ora si parla di un eventuale DDL: almeno, non essendo applicato subito, avremo il tempo di analizzarlo e magari predisporre dei mezzi di difesa.

Si è trattato di un fattaccio di cui avremmo volentieri fatto a meno. Non credo alla tesi dell’incidente taroccato, ma certo che gente come Feltri e Cicchetto si è comportata esattamente come se lo fosse stato: potremmo dire che si tratti di riflessi condizionati.

Apparentemente, sembra che in questo paese non ci si renda conto di come il potere, di qualsiasi tipo esso sia, richiede una corrispondente responsabilità. Di conseguenza, il signor B. dovrebbe capire che non può permettersi di attaccare figure istituzionali quali il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, e altri poteri dello Stato come l’ordinamento giudiziario: se lo fa, è inevitabile che scateni delle reazioni che non gli saranno di certo gradite.

Analogamente, come può un ministro della Repubblica rivolgersi agli elettori dell’opposizione, augurandosi che muoiano, e continuare imperterrito a sedere in Consiglio dei Ministri. L’ultimo episodio riguarda Cicchitto che, da capogruppo alla Camera del PDL, non ha la sensibilità per capire quanto attaccare un elenco nominativo di persone, se messo in atto da una persona nella sua posizione, acquista jun significato persecutorio, quasi uno scatenare una caccia all’uomo. Ovviamente, non ho dubbi che come Brunetta continua a fare il ministro, allo stesso modo Cicchitto continuerà a fare il capogruppo del PDL, saranno onorati, intervistati, e sarà data loro ampia opportunità di continuare a spargere veleno su chi si oppone alla marcia trionfale del capo.

Quindi, a seguito dell’incidente Tartaglia, non è successo nulla di clamoroso, ma si è solo aggiunta un’ulteriore pagina di degrado nella storia di questo povero paese.

Se le cose stanno così, mi pare che l’ipotesi che lanciavo la settimana passata, prima quindi del fattaccio, possa ora essere ripresa, anche se vedo che le reazioni sul web sono prevalentemente di silenzio. Questo silenzio non è certo una cosa confortante, perché segnala non tanto un dissenso, che potrebbe almeno costituire un’occasione di dialogo, ma invece proprio la negazione del dialogo. Tenterò qui di motivare meglio l’ipotesi dell’appello che ho avanzato.

Lo faccio sulla base dei risultati delle ultime elezioni politiche, quelle del 2008. Esse confermano come la pretesa plebiscitaria del signor B., di avere il popolo dalla sua parte, oltre ad essere democraticamente improponibile (in democrazia esistono cittadini elettori, ognuno con la propria opinione, soggetta tra l’altro a cambiare nel corso del tempo, e pertanto non esiste alcun popolo, inteso come entità collettiva monolitica), è infondata anche nei numeri, come mostro nel proseguo per punti:

1. Esistono milioni di cittadini senza diritto al voto, ed alcuni, come gli adolescenti, esercitano già un ruolo attivo nella società.

2. Quando si calcolano le percentuali dei voti acquisiti dalle liste elettorali, ciò viene fatto sul totale dei voti validi. Ciò è ovviamente corretto, ma se qualcuno rivendica di avere il popolo dalla propria parte, allora, almeno questi, dovrebbe considerare le percentuali sul totale degli aventi diritto al voto. Questi includono, oltre gli astenuti, anche chi ha votato scheda bianca, essendo anche questi, come voti non espressi, esclusi dal computo delle percentuali.

3. Infine, bisogna considerare che in accordo alla legge elettorale vigente, a causa della soglia minima necessaria per accedere al Parlamento, e per la Camera a causa del premio di maggioranza, per avere la maggioranza dei seggi in Parlamento non occorre avere la maggioranza dei voti, ne bastano molti di meno.

Ho richiamato brevemente alcune considerazioni di natura tecnica che probabilmente già conoscete, per dare forza all’ipotesi della rivolta civile che io sostengo come unica via valida per uscire da questo stato di degrado in cui l’Italia si trova e per evitare che essa sia condotta verso il peggio. Il signor B. ha certo molte persone al suo servizio, gode di una certa popolarità in ampi strati di popolazione, ma certo non gode della fiducia della maggior parte delle persone in questo paese. Ciò che si dovrebbe quindi farre è adesso di dimostrarlo.

martedì 15 dicembre 2009

IL DELIRIO MEDIATICO CONTINUA...

Ed io non ci sto, non ho alcuna intenzione di stare a sentire tutto quello che passa sui giornali. Mi ripeto: l’unica cosa che mi pare venga fuori da questa vicenda è lo stato prepolitico di questo paese e di parti consistenti della sua classe dirigente.

Leggere tanti editoriali è da vomito: stiamo qui a parlare di clima d’odio. Ma come la collocano questi signori la categoria dell’odio? E’ davvero possibile giudicare la politica in base a questo genere di categorie?

Sono stufo di dovere leggere questi commenti stucchevoli di persone il cui unico scopo è apparentemente quello di coprire sotto una coltre di giudizi morali e di buoni sentimenti un’operazione politica che completa l’instaurazione di un regime autoritario.

No, Presidente Napolitano, non sono d’accordo a foderarmi gli occhi e far finta di non vedere. Qui non si tratta di ipotizzare un futuro ignoto, qui si tratta di saper guardare a ciò che è già accaduto e trarne le dovute conseguenze, come farebbe un ragioniere sommando due numeri tra loro. L’ossessione di minimizzare porterà questo paese a lidi tristi e che la sua storia ha già conosciuto. L’operazione politica è chiara e, come al solito, le figure istituzionali da una parte, e l’opposizione dall’altra, sembrano non averne consapevolezza. Qui in sostanza avanza una campagna che pare coinvolgere gran parte della classe dirigente il cui scopo ultimo è quello di criminalizzare certi tipi di giudizi politici. Ieri sera ho sentito Lupi a “L’infedele”, che già faceva una sua casistica di cosa si può dire e cosa no sul signor B. Si può essere dissidenti, si può non convenire sui provvedimenti di legge del governo, ma, a suo parere, non si può dire che egli si fa le leggi ad uso personale. Ebbene, signor Lupi, taccia lei che ha le sue buone ragioni per farlo (chi mai le avrebbe dato tanta visibilità e potere?), io trovo un mio preciso dovere morale non tacere la verità, né le implicazioni devastanti di questa politica ad personam.

Voglio qui insistere anche con alcuni dei miei followers che continuano a sostenere che è tutto frutto di un certo clima politico che, bontà loro, attribuiscono al signor B. Anch’essi, a quanto pare, non si rendono conto di come così si faccia venir meno il concetto di responsabilità personale: se è un clima d’odio che provoca il gesto di uno squilibrato, di cosa mai i giudici potranno accusare il Tartaglia? E di conseguenza, stiamo già predisponendo una giustificazione di tutta quella classe dirigente che ha permesso questo degrado del nostro paese. Io rimango nella mia convinzione che la responsabilità è individuale, l’unica base possibile di uno stato di diritto, del clima d’odio ne parlino gli psicologi, i talk-shows, se ne parli pure nei salotti e forse anche nei social networks, ma nessuno che senta una propria responsabilità può consentire che un fatto che è di cronaca nera, e di cronaca nera deve rimanere, condizioni il modo di fare politica in Italia. Io domenica ho lanciato un appello per un’opposizione intransigente nel paese che faccia cadere il governo del signor B., e non permetterò che qualche servetto del regime ostacoli questo progetto col solito messaggio del “volemose bene”. I miei personali sentimenti verso il signor B. sono strettamente personali, e tali devono rimanere. Questa commistione tra stati d’animo e politica rappresenta un’ulteriore tappa verso l’espropriazione della democrazia in questo paese. Tutti questi editorialisti che dichiarano di voler gettare acqua sul fuoco, difatti sequestrano l’ultimo possibile strumento di intervento politico attivo che ci sia rimasto: esprimere opinioni chiare ed esplicite sui nostri governanti, ed in questo attentano ai miei diritti costituzionali. Non è un’aspra lotta politica che sta portando alla deriva la democrazia di questo paese, ma è tutta questa corte di replicanti di ogni colore che, consapevolmente o no, fornisce l’olio di vaselina per una sodomizzazione di massa.

lunedì 14 dicembre 2009

DELIRANTI COMMENTI AI FATTI DI IERI

Sono davvero preoccupato. Leggo i commenti a un fatto di cronaca, il gesto di uno squilibrato, e rimango attonito: cosa mai ci sarà di contenuto politico in un pugno sferrato da una persona che già da dieci anni ha problemi psichici? Come si possono spiegare editoriali come quelli apparsi stamane sulla stampa nazionale? Che conclusioni generali sul clima d’odio che si respira in Italia si dovrebbero trarre dal gesto di un singolo? Qui, anche se al signor B. fosse caduto il classico vaso da una finestra ci sarebbe stato il Battisti di turno che sul Corriere c’avrebbe spiegato come il caso non esiste, e come bisogna evitare gli scontri politici per non far cadere i vasi sulla strada. Se siamo a questo punto, se la gente va fuori di testa e trova logico commentare politicamente un fatto di cronaca nera, non vedo come sia possibile dialogare, argomentare, tentare di far minimamente ragionare gente ormai preda dell’ultima notizia da prima pagina. Io dico: se il signor B. ha subito un danno fisico permanente che ne comprometta la possibilità di continuare a svolgere il suo ruolo di premier, questa sì sarebbe una notizia di politica, ma se si tratta di un danno limitato che presto gli permetterà di tornare al lavoro “più forte che pria”, allora non mi pare che si tratti di politica. Non dico, badate bene, che non sia notizia da prima pagina, ma anche uno stupro può essere da prima pagina: tentiamo, se c’è ancora qualcuno che abbia deciso di usare il cervello in questo martoriato paese, di non attribuire a questa spiacevole evenienza un significato politico che con tutta evidenza esso non può assolutamente avere.

Dopodiché, visto che comunque questo clima lo si respira anche in blogs che leggo abitualmente, sospendo la stesura dell’appello a cui avevo fatto riferimento nel post precedente: non mi pare che ci sia l’attenzione necessaria, essendo questa stata sequestrata ancora una volta dal signor B., seppure stavolta suo malgrado. Come dicevo appunto nel precedente post, non ho alcuna intenzione di sprecare energie per combattere una battaglia che non abbia una significativa possibilità di essere vinta. Chissà, forse nel giro di pochi giorni la gente ricomincia a ragionare e si può ripartire con l’iniziativa, che momentaneamente metto in standby. Se qualcuno vuole darmi suggerimenti, sappiate che non aspetto altro.

venerdì 11 dicembre 2009

RUBRICA DI POLITICA INTERNA N. 18: UN APPELLO

Ormai la situazione appare in tutta la sua evidenza: il signor B. non arretrerà di un pollice dalle sue posizioni, ed è disposto a sacrificare lo stesso sistema istituzionale italiano ai propri interessi politici, economici e giudiziari. Abbiamo, ed io forse più di altri, a lungo analizzato i vari passaggi che sempre più sembravano metterlo in un angolo e, pur consapevoli della natura del personaggio, sembrava che egli dovesse ad un certo punto prendere atto della situazione in cui egli stesso si era cacciato. Ora è chiaro che non è così. Ieri non ha esitato ad attaccare Corte costituzionale, giudici, Capo dello Stato, e successivamente anche Presidente della Camera. Questo atteggiamento ci pone in una fase di obiettiva emergenza, e che per l’appunto richiede a quanti in questo paese hanno un atteggiamento tuttora responsabile di assumere comportamenti adeguati alla gravità degli attacchi portati alla Repubblica nata dalla Resistenza. Qui, naturalmente, poco importa che tali attacchi provengano da una persona che tuttora riscuote un notevole consenso: questo consenso non può essere utilizzato per giustificare comportamenti che ormai pongono il signor B. al di fuori dell’ordinamento istituzionale costituzionale.

Vorrei innanzitutto rivolgere un appello a coloro che per il loro ruolo istituzionale possono svolgere un ruolo adeguato ad assumere decisioni all’altezza del momento. Partirei dalla massima autorità che finora ha mostrato un comportamento del tutto insoddisfacente ai fini del contenimento dell’azione potenzialmente eversiva del signor B. Mi chiedo se ora, dopo che i suoi tentativi di mediazioni, invero non condivisibili da tanti di noi, quel volere gettare acqua sul fuoco ad ogni costo, quello che a taluni è apparsa come un’acquiescenza al premier, sono chiaramente falliti, ora che malgrado questi precedenti il signor B. non ha esitato un istante a sferrare un attacco frontale alla stessa sua persona, Napolitano voglia svolgere con consequenzialità e senza calcoli di opportunità politica contingente il ruolo che la Costituzione gli assegna: mi pare che sarebbe ora, Presidente!

Mi chiedo ancora se tra i parlamentari della maggioranza ci sia ancora qualcuno che ritenga di potere esprimere un’opinione ed abbia una residua sensibilità verso questa Repubblica, senza obbedire ciecamente al signor B., o al suo sodale Bossi. Mi chiedo se anche nel mondo dell’informazione sia possibile usare l’arma sistematica della menzogna e dell’occultamento dei fatti senza sentire di avere tradito la propria professione, i propri lettori, lo stesso senso della propria vita. Mi chiedo ancora se esistono imprenditori, istituzioni finanziarie, che colgano le implicazioni che la dittatura sostanziale che il signor B. vuole imporre all’Italia, possono avere sullo stesso comparto economico, sulla loro tanta amata libertà di mercato.

A coloro che, come me, sono privi di poteri specifici, chiedo di svolgere il ruolo più importante, di dare la spallata che è necessaria per disarcionare il signor B., con la speranza che molti altri siano disarcionati nella stessa fase. Questo forse costituisce l’ostacolo più grosso, la paura di vassalli e servitori vari di essere coinvolti nella rovinosa caduta del loro capo. Ebbene, questa paura non puà essere vinta tranquillizzandoli, moderando la forza dell’attacco, e rendendolo più mirato. Ciò è quello che finora si è fatto con scarso successo: non resta adesso che usare il terrore, fare capire loro che se non si smarcano da subito dal signor B., la loro sorte sarà triste, perché dovranno pagare per i tutti i danni procurati a questo paese da iniziative da loro condivise a vario livello di responsabilità.

Non è più tempo di passeggiate per le strade delle nostre città, la vera azione va svolta lì dove si opera, bloccando l’attività in scuole, università, settore trasporti, fabbriche, uffici pubblici, banche. E’ il tempo che chi lo sente, si svegli, e riprenda il protagonismo che compete a ciascun cittadino di uno stato democratico. Che il paese venga bloccato, paralizzato! Se si lotta, lo si deve fare per vincere, non è più tempo di atti dimostrativi, di segnali da mandare. I segnali sono arrivati chiari e forti, ma non sortiscono alcun effetto, questo è ormai chiaro. Ci vuole una vera e propria rivolta civile, un rifiuto assoluto di svolgere i propri compiti ordinari in presenza di un attacco di questa portata alle nostre istituzioni democratiche. Speriamo che Il Presidente della Repubblica non chieda ancora una volta un armistizio, speriamo che ciò che ha così tanto tardato a capire, gli sia a questo punto chiaro ed esplicito. Ci vuole una lotta che non può che essere la lotta finale, perché è chiaro che non abbiamo più nulla da perdere, la pervicacia con cui il signor B. coltiva i suoi personali disegni eversivi toglie ogni dubbio sull’ipotesi che egli possa pacificamente venire a più miti consigli. Questo è un appello che lancio da questo blog, sperando che venga raccolto e amplificato adeguatamente, per giungere alla fine a una platea abbastanza ampia, almeno alcuni milioni di persone.

martedì 8 dicembre 2009

IL PROBLEMA GENERAZIONALE. PARTE SECONDA

In un recente articolo, Rusconi prende in esame la classe dirigente italiana in senso lato e in riferimento allo specifico ceto politico. Mi pare un’analisi inadeguata, direi del tutto erronea, perché sembra riconoscere nei contrasti esistenti, nel non reciproco riconoscimento la sua malattia. Secondo me, l’autore confonde in modo direi grossolano il conflitto di interessi con un conflitto di idee, di visioni della realtà. Egli non sembra cogliere qualcosa che invece appare a me addirittura ovvio, che è proprio l’incapacità di dividersi nelle opinioni di fondo la fonte degli aspri scontri al suo interno. Dobbiamo cioè capire che se non sono le idee a dividere i partiti politici, lo saranno le mire personali. Siamo cioè a mio parere in una società, e segnatamente in una classe dirigente, che vive in una monocultura immobile e soffocante, in cui maggioranza ed opposizione condividono troppe cose, e pertanto si scontrano per chi deve raggiungere lo stesso obiettivo. Rusconi dice invece bene quando riconosce che si tratta di una crisi non confinata ai partiti, ma riguarda anche settori di potere economico, finanziario, amministrativo, giudiziario, e più che mai il settore dell’informazione. Le regole di questa classe dirigente consistono nella difesa dei propri componenti, nella fedeltà reciproca, nel conformismo, in un meccanismo di cooptazione basato su doti come omogeneità e fedeltà verso coloro che devono promuovere. Il risultato di un tale meccanismo è che viene a mancare il principio di responsabilità, perché chi riesce a raggiungere un posto di potere conquista non una responsabilità, ma un titolo che potrà spendere nel seguito della sua vita. Un risultato correlato è che essere più anziano è un vantaggio, perché il trascorrere degli anni comporta il procacciarsi sempre nuovi titoli. Un’altra conseguenza è il degrado nella gestione pubblica, inevitabile una volta eliminata la verifica e l’accertamento dei risultati di gestione.

Così, i giovani vengono tenuti lontano dai posti di potere anche soltanto per motivi anagrafici, mentre il degrado comporta un declino economico, che è ormai diventato un dato strutturale italiano, l’unica economia tra quelle più sviluppate che non riesce ormai da tanti anni a crescere in maniera sensibile. Così, mentre il perseguimento della competitività richiede un continuo aumento della produttività, la sostanziale stagnazione economica si traduce in una decrescente disponibilità di posti di lavoro.

Un altro fattore economico specifico italiano è il peso altissimo del debito pubblico che, a causa del peso degli interessi su di esso, richiede sempre maggiori sacrifici di bilancio. E’ sorprendente la sostanziale cecità degli economisti di ogni colore che, ad ogni difficoltà di bilancio statale, propongono sempre la stessa ricetta: lo spostamento in avanti dell’età di pensionamento. Il punto però che sembra sfuggire loro è che tale provvedimento non ha il semplice effetto di ridurre la spesa pensionistica, ma comporta inevitabilmente un turn over ritardato. Se insomma una donna dovrà aspettare i 65 anni per andare in pensione, il risultato sarà che ella permarrà nel suo posto di lavoro, e ciò comporterà inevitabilmente che ci sarà un giovane che non potrà accedervi. Il ritardare l’età della pensione sarebbe una misura efficace se i posti di lavoro fossero troppi per essere coperti dalle nuove generazioni. E’ un’evidenza lampante invece che lo sbilancio è in senso opposto: troppi giovani che aspirano a un numero di posti di lavoro carente. Possibile allora che a nessuno di costoro venga in mente che stiamo costringendo delle persone nel meglio della loro capacità lavorativa all’inattività, imponendo nel contempo a persone che per loro avanzata età hanno un’efficienza certo minore, sia per stanchezza che per difetto di motivazioni? Mi chiedo se è possibile che coloro che sono chiamati ad assumere decisioni socialmente rilevanti, non riescano ad avere una visione di corto raggio, ma considerando i provvedimenti in un’ottica di lungo periodo. Se dobbiamo spendere meno in pensioni, non ci resta che pagare pensioni più modeste, non v’è altra strada. Ci si lamenta della bassa entità delle pensioni, ma in realtà, soprattutto al sud, sono molti i nonni pensionati che contribuiscono significativamente al mantenimento di nipoti, che spesso hanno già concluso gli studi e non riescono a trovare un’occupazione. Questa è una situazione più che abnorme, direi mostruosa, e che mostra ancora una volta come nell’agenda della classe dirigente nel nostro paese il problema dei giovani stia in fondo, come non sia considerata un’emergenza gravissima: tanto, ci pensano le famiglie! Mi chiedo che genere di classe dirigente sia quella che non si rende conto della priorità che un tale problema dovrebbe avere.

sabato 5 dicembre 2009

IL PROBLEMA GENERAZIONALE. PARTE PRIMA

La questione sollevata dalla finta lettera di Celli al figlio ha tenuto banco sulla stampa nazionale ed anche sui blogs. La cosa in sé è da una parte sorprendente, dall’altra addirittura irritante. E’ sorprendente ed irritante perché in questo nostro strano paese questioni arcinote a tutti, spesso per esperienza diretta, sembrano tuttavia diventare di pubblico dominio solo perché qualcuno solleva la questione. La prima impressione che se ne ricava è di un paese schizofrenico che si confronta giornalmente con certe problematiche, e che tuttavia ha bisogno di un “casus belli” per discuterne.

Aldilà delle specificità, legata allo specifico personaggio, che qui vorrei tralasciare, mi pare che due aspetti di carattere generale vengano coinvolti, e sono questioni per me di grandissimo interesse. Le formulerò così:

- Esiste una questione generazionale?

- Che ne è della classe dirigente italiana?

Comincerò dalla prima. Per me, non v’è alcun dubbio, abbiamo tolto la speranza ai nostri figli, la speranza prima di un’occupazione a tempo indeterminato prima, e ormai addirittura di qualsiasi tipo di occupazione. Abbiamo però tolto qualcosa di molto più importante, la stessa possibilità di mettersi alla prova. La scelta incomprensibile di fare sempre meno figli non influenza soltanto la curva demografica, ma cambia la stessa fisionomia del nostro paese. Ciò è diventato chiaro nei primi anni novanta, quando la natalità ha raggiunto livelli bassissimi che sono tornati a crescere soltanto per effetto della crescente immigrazione di popoli con altre culture. Siamo, insomma, un paese di vecchi, con molti singles, e tante famiglie con un unico figlio. Questa situazione è dovuta al duplice effetto di un elemento culturale ed uno strutturale, in realtà tra loro intrecciati. L’elemento strutturale è dato dalla legislazione, sia quella del lavoro che quella fiscale. Entrambe hanno finito col determinare una intollerabile pressione in primis sulle potenziali madri, ma in genere poi sulle famiglie nel loro complesso. In sostanza, le forme di sostentamento del ruolo genitoriale sono assolutamente insufficienti, il che equivale a dire che lo stato non riconosce la funzione essenziale di chi garantisce il ricambio generazionale. Qui non si tratta di definire quale sia la popolazione ottimale per il nostro paese, perché un paese, in ogni caso, non può scegliere di avere un solo nuovo nato per anno per cento ultrasettantenni, anche se riconoscesse di essere un paese sovrappopolato. Se pure si volesse ridurre la popolazione, ciò dovrebbe essere fatto gradualmente, e probabilmente con altri mezzi. Chi infatti potrebbe garantire le risorse in senso lato a tanti vecchi? Per i demografi, è un fatto ovvio che debba sussistere una certa proporzione tra giovani e vecchi, come aspetto indipendente dal dato della popolazione totale.

Sia chiaro: questo problema strutturale lo condividiamo con gran parte dei paesi occidentali: potremmo anzi aggiungere che altri stanno anche peggio di noi. Il motivo è dovuto alla logica capitalista, che vede sempre il profitto come criterio fondamentale nelle scelte politiche. In Italia più che altrove mi pare abbia invece operato il secondo elemento, quello culturale, che ha visto farsi avanti un’ideologia sostanzialmente egoista, quella del diritto alla felicità, e la felicità come libertà, nel senso però gretto di avere a propria personale disposizione tutte le nostre cose. Secondo quindi questa vera e propria ideologia, i figli sarebbero dei pesi vitali che, come un pesante zaino sulle nostre spalle, ci impedirebbero di procedere celermente verso esperienze luminose di felicità. Pur sapendo di rischiare di essere tacciato di facile retorica e di filocattolicesimo, non sarebbe però onesto se io non comunicassi anche in questo breve scritto la mia personale esperienza, quale ricchezza ineguagliabile siano i figli, quanto essi siano in grado di donarci qualcosa che non possiamo acquisire in nessun modo alternativo. Per il resto, personalmente sono convinto che l’esperienza genitoriale dovrebbe avere una durata limitata nel tempo, e che certi legami di dipendenza dai genitori in età adulta debbano considerarsi patologici.

Fatto sta che per questo duplice motivo, strutturale e culturale, ci troviamo con pochissimi bimbi in giro per le nostre strade, così come in tante case. Questa loro rarità attira verso loro un’attenzione assolutamente sproporzionata da parte di parenti, amici e conoscenti, e nello stesso tempo le uniche persone che dovrebbero davvero curarsi di loro, finiscono per rivendicare un loro personale tempo di svago o anche di realizzazione. Essi diventano quindi importanti per la società per la loro stessa esistenza, mentre le cure specificamente educative diventano in questo contesto insufficienti.

Divenire adulti significa farsi carico di responsabilità, da cui l’infanzia è esonerata. La vera spinta a crescere sta proprio nell’acquisizione di diritti che sono negati all’infanzia, e che compensano in qualche misura il gravame delle responsabilità degli adulti. Si è invece diffusa un’ideologia che pretende un automatismo nei diritti, che pretende di trattare i bambini come fossero adulti, che pretende una divisione nelle responsabilità decisionali tra due entità del tutto asimmetriche come sono genitori e figli. Il risultato è che la crescita non viene adeguatamente incoraggiata, ma diritti e mezzi sono donati senza pretendere un corrispettivo che ha in definitiva un valore educativo. Nella seconda parte, mi soffermerò sulla questione della classe dirigente, anche in riferimento allo stesso problema generazionale.

giovedì 3 dicembre 2009

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 17

Nella consueta rubrica settimanale, vorrei oggi guardare alla situazione politica da un punto di vista che potrei definire “laterale”. Non v’è dubbio che il palcoscenico è occupato dal PDL, con lo scontro tra Fini e il signor B. Sui vari quotidiani e notiziari vari, l’attenzione viene focalizzata, esaminando fin i più piccoli dettagli. Se però astraiamo da questi dettagli, dovremmo alal fine ammettere che c’è ben poco di nuovo. Lo stesso “fuori onda” di Fini non aggiunge e non modifica nulla sulle note divergenze tra i due, oscillanti da questioni di principio a questioni di interesse. Lo stesso PDL in fondo ha importato questi motivi di dissenso, considerato che Fini ha subito, come era del resto ovvio, il fatto che FI abbia inglobato AN. Di gente come Gasparri e La Russa, pronti a svolgere un ruolo subalterno rispetto al loro nuovo leader, ce n’erano tanti in An già prima quindi della fusione, e a Fini non è rimasto che far buon viso a cattivo gioco. La cosa davvero sorprendente è la pretesa sorpresa del signor B. per le difficoltà di questa convivenza. Sarebbe come se un tizio convincesse i parenti di una ragazza che questa debbe andare in sposa a lui, e poi si lamentasse che ella vivesse il matrimonio come una costrizione. Del resto, questo del pretendere di avere sempre ragione lui, è un tratto caratteristico, direi a livello perfino psicopatologico, del personaggio.

Ciò invece su cui vorrei soffermarmi è questo ricacciamento dell’opposizione, ed in particolare del PD, in platea. Essi siedono magari in prima fila, ma ottenendo soltanto un punto di vista privilegiato di osservazione di ciò che va in scena e che vede protagonista solo la maggioranza. Ogni tanto una voce si solleva dalla platea. In questo, si sono distinti Violante ed Enrico Letta, con questa pretesa distinzione tra democrazia e legalità. Dunque, essi sostengono che la democrazia sta nel principio del consenso, mentre la legalità nel rispetto della costituzione e dell’insieme delle norme legislative. Da questo, fanno discendere la necessità di contemperare il diritto del signor B. a governare con la necessità di non violare l’impianto costituzionale. Io piuttosto li chiamerei cerchiobottisti, perché ciò che vogliano contemperare è prima di tutto il loro diritto a rappresentare ancora qualcuno in questa Italia. Infatti, questa contrapposizione tra democrazia e legalità (e qui mi trovo costretto per l’ennesima volta a citare la Spinelli), è del tutto pretestuosa, anzi è una vera bestemmia. La democrazia sta appunto nel fatto che i governanti devono seguire la legge,e le leggi devono essere conformi alla costituzione. A garanzia di ciò, esiste la divisione dei poteri, e l’istituzione di una serie di organismi che hanno proprio lo scopo di garantire il rispetto delle regole. Il consenso fa certo parte delle regole della democrazia, ma non ne costituisce in alcun modo il tratto essenziale, e quindi la premessa che la legalità possa essere in qualche modo in opposizione alla democrazia, è priva di qualsiasi fondamento: che studino prima di parlare!

Tra l’altro, queste posizioni sembrano anche un modo di avvicinarsi a Casini, che come noto ha proposto di rifare il lodo Alfano come legge costituzionale per superare le obiezioni della corte. Quindi, anche queste posizioni che si vorrebbero ammantare di una sorta di motivazione nobile, fanno in realtà parte di una consapevole strategia politica di costruzione di un’alleanza con Casini che finora, furbescamente, si allea per le regionali con chi gli pare, e che sfrutta alla grande la famosa tattica dei due forni di craxiana memoria.

martedì 1 dicembre 2009

DEMOCRATICISMO A SINISTRA?

Vorrei qui commentare un post recentemente apparso in uno dei blogs che frequento, sperando di non tirarmi più polemiche di quelle strettamente necessarie. Esso riporta la deliberazione seguita a una riunione di lavoro di un coordinamento di forze di sinistra, che si riconoscono nella sigla Rete@Sinistra.

Ne parlo perché non condivido questo documento che, al contrario, mi appare come sintomo di un grave stato di confusione di quest’area politica. Il modo critico in cui ne parlo nel proseguo, lungi dal volere essere una vuota polemica fine a sé stessa, avrebbe piuttosto lo scopo di portare un po’ di chiarezza, proprio sperando di contribuire a tirar fuori la sinistra dalla confusione in cui si trova.

Innanzitutto, permettetemi di manifestare la mia sorpresa nel leggere un documento in cui non si esprime una posizione politica di merito, che sia una, ma tutta centrata sulle modalità organizzative. D’altra parte, le stesse modalità organizzative “a struttura partecipativa” sembrano suggerire un’organizzazione priva in sé di contenuti, pronta piuttosto a riceverli volta per volta dagli iscritti. Si arriverebbe così alla costruzione della perfetta organizzazione vuota e sensibile all’ultimo alitar di vento.

Proseguendo nel documento, la struttura partecipativa viene contrapposta alla “struttura centralistica e gerarchica, immotivatamente fatta coincidere con un’organizzazione leaderistica. La cosa un po’ curiosa è che più avanti si riconosce l’esigenza di avere un organismo centrale di decisione: come doveva essere ovvio dall’inizio, di una struttura centrale non se ne può fare a meno. Epperò, ci se ne vergogna: è il male inevitabile insomma. Che una decisione assunta dall’organismo centrale prevalga nell’organizzazione configura poi l’esistere della gerarchia. La gerarchia, qui bisogna intendersi, non riguarda le persone ovviamente, ma piuttosto gli organismi.

La mia impressione è che la degenerazione della politica a seguito del crollo dei partiti comunisti, in assenza quindi di idee forti, io direi esplicitamente di ideologie, a seguito della discesa in campo dell’uomo-azienda, voglia essere esorcizzata attraverso la demonizzazione di una efficace struttura decisionale. Visto che è inevitabile avere un organismo centrale di decisione, a cosa serve parlare contro il centralismo? In cosa si sostanzia il centralismo e da cosa si differenzia rispetto all’ovvia esigenza che qualunque organizzazione deve ad un certo punto trovare un punto di coagulo? Il punto è piuttosto come fare in modo di avere il migliore organismo di decisione possibile. La soluzione a chi ha scritto questo documento pare quella del sorteggio, e qui davvero mi fermo impietrito… C’è in questa, che io considero una boutade, quel tarlo libertario della sinistra di questo paese, che si scopre ultra-illuminista, molto più di quelli che lo enunciarono, con un concetto dell’uguaglianza ai limiti del paradosso, quasi che la pari dignità di ogni persona si possa tradurre in un’uniformità. E’ davvero inaccettabile ammettere che ci sono persone che hanno una capacità dirigente maggiore di altre?

D’altra parte, lo stesso insistere sulla possibilità di tutti gli iscritti di essere adeguatamente informati, cosa che ovviamente condivido pienamente, non è infine finalizzata ad avere un voto qualificato? E’ davvero così alta la fiducia nei meccanismi deliberativi della nuova formazione, da lasciare fare piuttosto alla sorte!!!

Naturalmente, ci sono anche cose pienamente condivisibili nel documento, come la rotazione degli incarichi per evitare cristallizzazioni di potere. Stiamo però attenti: consideriamo il caso di D’Alema, che continua a professarsi quale semplice iscritto del PD. Tale posizione però è proprio quella che gli consente di operare con la massima spregiudicatezza, come appare dal recente caso della Puglia.

Io dico allora: partiamo dai contenuti, costruiamo una casa comune che sia condivisa, le cui finalità siano chiare dall’inizio. Alla fine, il solo collante che possa davvero funzionare è la concordanza tra gli iscritti, quella ideologia condivisa che oggi appare irraggiungibile. Senza questa, non ci sarà organizzazione che tenga, se non basata su interessi materiali come è stata Forza Italia, ed è tuttora il PDL.

Ciò che apertamente considero positivo nel documento è il riconoscimento della necessità di stabilire regole chiare e vincolanti nelle organizzazioni politiche, cosa che ho già espresso in precedenti post.

domenica 29 novembre 2009

BRUTTE NUOVE DA DUBAI

La crisi finanziaria che ha investito Dubai, aldilà della sua effettiva gravità e ampiezza, mostra come la crisi scoppiata a metà del 2008 e data per superata, è invece all’ordine del giorno. Come risultò presto chiaro, la sua vera causa, i cosiddetti titoli spazzatura, sono stati tutt’altro che un elemento marginale nei mercati finanziari mondiali: basti considerare il loro importo complessivo, valutato al disopra di 5000 miliardi di dollari. Si tratta di una cifra gigantesca, la cui effettiva entità finisce con lo sfuggire. Per valutarne la dimensione enorme, basti considerare che costituisce poco meno di metà del PIL degli USA. Qual è stata la terapia che hanno seguito gli stati, a partire dagli stessi USA? E’ stata di immettere enormi quantità di liquidità. Come è stata utilizzata questa gran massa di denaro? Solo per acquistare una parte di questi titoli spazzatura, senza distruggerli. Insomma, la bomba che metteva a repentaglio l’edificio, non è stata fatta brillare, ma è stata messa in mezzo alla sabbia, o almeno il 40% di essa, perché la maggior parte viaggia tuttora liberamente per i mercati finanziari di tutto il mondo. Si è valutato che la priorità assoluta fosse costituita dal salvataggio delle banche, sperando, in verità fideisticamente, che ne seguisse un circuito virtuoso che potesse minimizzare l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale.

I risultati credo che siano davanti ai nostri occhi: le banche hanno già ricominciato a macinare utili, le borse di tutto il mondo sono cresciute mediamente di circa un quarto dai minimi raggiunti. Nello stesso tempo, nei paesi occidentali abbiamo avuto una contrazione del PIL di circa il 5%, anche se segnali di crescita si osservano nell’ultimo trimestre. Il dato oggi più preoccupante è costituito da tassi di disoccupazione in sensibile crescita.

Sarebbe chiedere troppo alle autorità statali di tutto il mondo, a partire da Obama, di volersene occupare? Di dedicare energie e risorse con la dovuta generosità e urgenza alla gente, alle persone fisicamente definite? Possibile che di emergenze si parli solo a proposito delle istituzioni finanziarie e invece, per la garantire la sopravvivenza delle persone ci si affidi fideisticamente ai meccanismi propri del mercato?

Nell’ultima puntata di “Annozero”, Bersani è riuscito a far ammettere all’ironico Tremonti che davvero la politica economica di questo governo è inesistente, basandosi sullo spostare fondi da una voce all’altra di bilancio, secondo un abile meccanismo, il cui effetto sostanziale è un rinvio effettivo nell’erogazione delle somme, cioè delle uscite. La difesa di Tremonti è stata quella di pavoneggiarsi con i riconoscimenti internazionali che ha ricevuto: notare bene, riconoscimenti da parte di quelle stesse istituzioni che Tremonti ha ripetutamente disprezzato tranne, ovviamente, nel momento in cui gli affidano compiti di prestigio.

Io non sono certo ministro, e neanche economista, e pertanto mi posso permettere di esprimere giudizi ben più critici sulla gestione internazionale della crisi. La verità è davanti a noi: non ci sono mele marce nella finanza colpevoli della crisi, c’è un intero sistema economico-finanziario malato in tutto il mondo, incapace di confrontarsi con i limiti dello sviluppo dovuti alla limitatezza dei mercati (limiti della domanda globale), e, in maniera più drammatica, i limiti delle risorse naturali, che presto chiederanno il conto a un’umanità in corsa sempre più folle verso il baratro della invivibilità ambientale.

Volendo riassumere le cose dette in poche domande:

- Come mai, a distanza di più di un anno dallo scoppio della crisi, nessuno aveva sollevato il problema Dubai? Non si era capito il problema, pensando che non esistesse, o si voleva nasconderlo, chissà assieme a quanti altri? Come potremmo mai fidarci delle istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali se dimenticano o fanno finta di dimenticare falle finanziarie ancora presenti?

- Possibile che non sia chiaro come il capitalismo, cioè un sistema basato sul profitto, è incompatibile con un mondo non in grado, al livello tecnologico esistente, di reggere a uno sviluppo inarrestabile?

- Possibile quindi che si pensi di risolvere i problemi occupazionali, affidandosi ancora una volta al mercato, piuttosto che attraverso una pianificazione deliberata centrata sul criterio della piena occupazione?

venerdì 27 novembre 2009

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 16

Dunque, per il signor B., c’è un clima da guerra civile. Ebbene, se lo dice lui, dal suo osservatorio, le informazioni le dovrebbe avere. Sarebbe interessante ci dicesse chi è responsabile della situazione data. A volte, la guerra civile nasce da un colpo di stato, è la conseguenza inevitabile di strappi fatti alla legalità. A me pare ne siano stati compiuti un bel po’ nel nostro paese in questi ultimi anni.

Il primo, e che io ritengo forse il più grave di tutti, è una legge elettorale indecente: i parlamentari vengono scelti dagli apparati di partito e, vista la netta svolta cesarista in politica, sostanzialmente da cinque persone. A noi elettori non rimane da stabilire niente più che la loro ripartizione tra le cinque liste elettorali che sono rappresentate in Parlamento. In tal modo, si innesca un meccanismo di selezione al contrario: viene premiata innanzitutto la fedeltà, che a me pare un pregio degno di un cane, ma non di una persona. A un candidato parlamentare dovrebbe piuttosto essere chiesta lealtà, non fedeltà, anzi l’indipendenza di giudizio dovrebbe costituire la dote principale.

Il risultato è un continuo abbassamento nello loro qualità, parlamentari sempre più dequalificati, pronti ad esaltare il leader che li ha promossi, che dividono le loro energie tra il curare i loro interessi personali e riconfermare la loro subordinazione al loro leader E’ difficile riconoscere perfino una sovranità a un Parlamento così composto, e qui smettiamola di invocare sempre la sovranità popolare: al popolo è stato concesso solo di scegliere un simbolo elettorale, non una persona fisicamente determinata. D’altra parte, è conseguente che questo Parlamento si è auto-ridimensionato, accettando di formalizzare decisioni prese nella loro forma più dettagliata al di fuori.

La legge elettorale ha quindi fatto fuori il potere legislativo, a favore del governo, cioè del potere esecutivo. Adesso, per completare lo scempio istituzionale, non rimane al governo che fare fuori il potere giudiziario: a quel punto, la cosa si completa, della democrazia non rimane che un vuoto simulacro, pronti a sposare un nuovo tipo di sistema politico, che io chiamerei post-democratico, i cui tratti fondamentali sarebbe interessante tracciare in dettaglio: chissà se avrò l’energia per occuparmene con il dovuto impegno!

Il signor B. sbraita come un bambino a cui hanno sottratto il giocattolo preferito: ma questa magistratura perché non si lascia normalizzare alla svelta e senza opporre resistenza? Come osa non sottostare passivamente ai miei capricci, alla mia necessità di assicurarmi l’immunità permanente e totale? Se non cede, allora è una magistratura golpista: notare la logica tipica del signor B. !

Esimio signor B., dai per una volta nella tua vita il buon esempio: ritirati dalla vita politica, magari ti diamo anche un salvacondotto per un paradiso fiscale, dove trascorrerai la tua vecchiaia in modi consoni a questa età. Smetti dunque di considerarti eterno, insostituibile, il migliore: sei solo un ometto patologicamente ambizioso, che susciti soltanto l’ammirazione di folle di ometti che ti somigliano nei loro desideri, ma a cui è rimasto soltanto il piacere di immaginarsi nei tuoi panni.

martedì 24 novembre 2009

L'IDEOLOGIA ASSENTE NEL PD

Vorrei oggi citare ancora un articolo di Barbara Spinelli, assieme, stavolta a un articolo di Giovanni Sartori. Trattano certamente due temi diversi, ma finiscono per mettere a fuoco lo stesso argomento, secondo punti di vista chiaramente differenti, anzi, per molti aspetti, opposti.

Si tratta di articoli complessi, la cui analisi richiederebbe ben altri approfondimenti di quelli compatibili con un blog. Li userò piuttosto in maniera parziale, soffermandosi su aspetti specifici.

Parto dalla Spinelli che colpevolmente non costituisce una mia lettura abituale: diciamo che in questi giorni ne ho riscoperto la grande lucidità di analisi e mi riprometto d’ora in poi di farne tesoro come fonte di ispirazione e di confronto. Ella prende spunto dall’anniversario della caduta del muro di Berlino che indubitabilmente, soprattutto per il suo contenuto simbolico, ha costituito un punto di svolta per la politica mondiale e particolarmente europea.

Occhetto, segretario del PCI a quel tempo, sollecitò un cambiamento nella politica con quella che pomposamente chiamò “la svolta della Bolognina”. La svolta della Bolognina era in parole povere il rinnegare la tradizione comunista per fondare “la Cosa”. Come argomenta la Spinelli, l’uso stesso di questo termine denunciava il vuoto mentale dei dirigenti del PCI, uniti soltanto sul voler cambiare, ma incapaci di formulare qualsiasi ipotesi alternativa. A questo proposito, scrivo nel mio libro che l’unica cosa conseguente che si sarebbe dovuta fare, avendo abbandonato un credo precedente e senza idee sostitutive, era sciogliersi, come chi perde la fede non si sogna di sostituirla subito con un’altra, semplicemente smette di abbracciare la fede precedente. Insomma, il PDS nacque già con questo peccato originale, di costituire soltanto un gruppo dirigente che, disponendo di strutture logistiche, avendo un seguito di militanti invidiabile, decise di sfruttarlo per sopravvivere politicamente. Il vuoto ideale di quei dirigenti non si è più riempito, ed anzi il passato comunista divenne un fardello ulteriore da espiare, come chi, da migrante in terra straniera, volendo far dimenticare di essere italiano, evita accuratamente di parlare nella propria lingua natia, tentando di simulare una maestria nella lingua acquisita che mai potrà davvero avere. Occhetto pensava che questo vuoto ideale dovesse essere transitorio, e che quindi andasse colmato al più presto. Ma fu sconfitto e il vincitore D’Alema assunse questo vuoto ideale come tratto permanente della propria formazione politica: sua è l’espressione di aspirare ad una paese normale, modo per trasformare la Cosa di Occhetto da transitoria in permanente. La normalità, come è ovvio, è un concetto inesistente, e quindi i DS non hanno più smesso di navigare a vista senza porsi più alcun obiettivo finale.

Soffriamo quindi nel nostro paese, ma io credo che si tratti di un problema mondiale, seppure in forma meno grave, di una carenza di quella che io mi ostino a chiamare ideologia, pur scontando la pluralità di significati che essa ha finito con l’assumere nel corso della storia. Ideologia è per me un sistema coerente di valori, che non necessariamente deve finire col cristallizzare il complesso delle opinioni, in quanto queste possono certo cambiare in funzione del vissuto, del confronto. L’ideologia costruisce piuttosto il substrato su cui costruire la politica, l’etica, la comunicazione stessa. Spesso accosto l’ideologia al linguaggio: se non condividessimo il senso delle parole, come potremmo anche soltanto comunicarci delle semplici informazioni? La menzogna, consapevole o no che essa sia, del rifiuto dell’ideologia, sta quindi nello sposare l’ideologia dominante che per operare non ha certo bisogno di un’accettazione esplicita. Nel momento in cui si vuole invece cambiare radicalmente i comportamenti sociali, è necessario invocare una nuova ideologia, e tutto si gioca quindi in questa asimmetria: chi deve mantenere l’esistente, fa finta di essere un libero pensatore, e tutto l’onere ricade su chi vuole cambiare. E’ la tesi appunto sostenuta da Sartori, che dice dell’ideologia: un pensiero che non-è-più-pensato, un ex pensiero dogmatico e fanatizzato che appunto ammazza il pensiero e le idee.

Sartori apparentemente sembra non rendersi conto che la stessa esistenza di una società, di una condivisione tra individui diversi, implica una cultura comune. Pensare si può e si deve, ma i pensieri traggono origine da altri pensieri, e questo processo è spontaneo. Rintracciare le fonti remote delle proprie convinzioni è un processo molto complesso, e lo stadio fondamentale per proporre una nuova ideologia consiste per l’appunto nel disvelare l’ideologia dominante che ben si dissimula nella nostra vita di ogni giorno.

Più interessante appare la parte dove Sartori richiama una cosa poco nota al grande pubblico, e cioè cosa pensassero i filosofi greci della democrazia. Per Aristotele, al contrario che per tanti nostri contemporanei, era ben chiara la differenza tra interessi realmente generali e interessi numericamente prevalenti. Proprio perché la democrazia era il governo dei molti, non avrebbe potuto portare avanti interessi generali, ma solo quelli particolari, e quindi la democrazia non poteva, per Aristotele, essere un buon governo.

Solo la spinta ideale proveniente dall’Illuminismo prima, dal Romanticismo poi, hanno fatto della democrazia ciò che appare nella maggior parte dell’Occidente, proprio nel contemperare il principio del consenso, cioè del mercato del voto, con principi ideali ad esso superiori.

Sartori quindi giunge alla conclusione che il gruppo dirigente del PCI, una volta abbandonato il credo marxista, resta un gruppo di potere— con nobili eccezioni, si intende — altrettanto cinico e baro dei gruppi di potere al potere.

In modo non dissimile, la Spinelli parla di un’espiazione, di un passato che per essere dimenticato, richiede la negazione di un’identità propria, la stessa negazione del concetto di opposizione come atteggiamento coerente e sistematico.