lunedì 29 novembre 2010

DDL GELMINI: UNIVERSITA' ADDIO

Così, sembrerebbe che infine, dopo essere diventato luogo ed oggetto di una contrattazione vergognosa tra PDL e FLI, il DDL Gelmini sull’Università verrà approvato. Non credo più che sia possibile evitare questo esito legislativo, e semmai la lotta si sposta nel momento della sua attuazione nei singoli Atenei.

Queste mie riflessioni sono così soltanto un atto di accusa verso soprattutto lo stesso mondo universitario, ormai degradatosi a terreno di scontro partitico e di interessi particolari. Per rimanere nel mio Ateneo, dopo mesi dalla diffusione del testo del DDL, nessuna voce si era elevata a discuterne il merito, e perfino quando il mio rettore ha aderito alla mia richiesta di aprire un forum apposito a partire da un mio documento, che ritrovate riprodotto anche su questo blog, solo un altro collega ha ritenuto di dovere intervenire.

Questo clima di silenzio, questa incapacità di fare della proposizione di questo DDL un’occasione formidabile di confronto all’interno del mondo accademico, non si è più dissolto. Perfino quando i giovani ricercatori precari e poi i ricercatori strutturati sono riusciti a mettere su delle forme coordinate di intervento un dibattito davvero a tutto tondo non è stato messo su. Questo movimento anti-Gelmini ha sempre proceduto a singhiozzo, incapace di esercitare un’egemonia a partire da una propria concezione dell’Università che affrontasse senza tentennamenti e zone oscure la storia recente, senza un reale e spregiudicato confronto con i problemi e i danni che l’Università ha subito sia dall’esterno che dal proprio interno, senza quindi definire come parte fondamentale della battaglia quella che andava esercitata nel corpo stesso dell’Università e quindi anche contro i propri stessi colleghi. Assemblee ne sono state tenute, ma sempre in un clima di emergenza, sempre ad inseguire l’ultima voce sul DDL, come l’ultimo provvedimento governativo. Sempre, si è tenuto a mistificare la realtà universitaria, tacendo colpevolmente sulle responsabilità che hanno operato al nostro stesso interno, sempre pronti a scagliarci contro il governo, senza così cogliere il nesso fondamentale tra nemici interni ed esterni.

Nel mondo dell’informazione, nella democrazia così tanto sbandierata da tanti del web, nessuno ha ritenuto di confrontarsi con quanto andavo scrivendo, non sono bastati undici mesi, un blog, e un forum d’Ateneo, per suscitare una risposta, fosse anche stata negativa, alla mia invocazione di un centralismo dell’Università, dopo gli scempi compiuti da una goffa attuazione della cosiddetta autonomia universitaria. Oggi, quindi, non viene a compimento soltanto una sporca operazione di privatizzazione strisciante dell’Università da parte del governo e del Parlamento, viene anche a compimento la dimostrazione palese che le lobbies accademico-parlamentari hanno non solo prevalso su una indipendenza critica dei docenti universitari, l’hanno addirittura annientato, resa inesistente. La cosa più triste è che tutto ciò è avvenuto senza che neanche le forze più sane abbiano minimamente intrapreso questa battaglia, la battaglia semplicemente non è stata neanche combattuta, ogni componente tutta protesa a curare esclusivamente gli aspetti che più direttamente la coinvolgevano. Persa una visione d’assieme dell’Università e delle sue problematiche, il risultato non poteva che essere proprio quello di una delega a quei colleghi, nuovi baroni (altro che DDL contro i baroni, che buffonate si devono ascoltare!) che avevano l’aggancio giusto a livello partitico-parlamentare per fare sentire la loro voce. Voglio qui anche denunciare il ruolo vergognoso svolto da parte della CRUI, la conferenza nazionale dei rettori, che pretende di giocare il ruolo di interlocutore verso il Ministro, senza che questi stessi rettori abbiano ritenuto di suscitare un dibattito adeguato nei singoli Atenei, rappresentanti insomma di rappresentati del tutto inconsapevoli.

domenica 28 novembre 2010

LA SINISTRA LIBERTARIA

Chi mi segue con maggiore attenzione, sa che io non mi accodo al coro entusiasta per il principio illuministico dell’uguale libertà, come definito nel primo articolo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che letteralmente recita: “Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti”.

Il liberalismo trova proprio in questo principio la sua enunciazione fondamentale, che però si basa su un presupposto antropologico del tutto errato, che cioè l’uomo alla nascita sia libero, e nello stesso tempo l’ambiguità dell’espressione “uguale nei diritti” ha essa stessa determinato conseguenze tragicamente negative per l’umanità.

Proprio nella rivoluzione francese, un evento ormai vecchio di più di due secoli, dobbiamo rintracciare le coordinate politiche fondamentali dell’oggi. La stessa ripartizione degli schieramenti politici in destra e sinistra si è andata costituendo in quegli anni, in cui il nascente liberalismo si autodefiniva in maniera polemica come la sinistra, rispetto alla pretesa dell’ordine costituito di rappresentare il giusto, e quindi la destra: basti riflettere alla parola inglese “right” che significa appunto sia destro che corretto, giusto.

Man mano che questo vecchio ordine basato sulla discriminazione sistematica tra uomo e uomo veniva sconfitto, si sviluppavano all’interno della stessa condivisione del concetto di uguale libertà contraddizioni sull’aspetto egualitario, portando infine nel secolo passato a nuovi concetti di destra e sinistra. Ancora fino alla metà del secolo passato era ovvio che la destra sottolineasse principalmente l’aspetto della libertà, di fronte a una sinistra sempre più impegnata sul fronte dell’uguaglianza.

E’ roba di questi ultimi decenni, soprattutto da dopo il ’68, l’ulteriore rimescolamento nei concetti di destra e sinistra, dove ormai la destra risulta arroccata sui principi del liberismo, mentre si va radicando una sinistra che si proclama libertaria. A questo punto, il cerchio si chiude, in quanto il dibattito politico non solo è tutto interno al liberalismo, ma addirittura avviene solo sul conflitto tra libertà differenti, dove il liberismo sottolinea la libertà di impresa e il libertarismo sottolinea invece la libertà nel settore dei costumi sociali. Entrambi però condividono un ridimensionamento dello stato, che deve ritrarsi dall’economia per gli uni, e da i comportamenti privati per gli altri. Apparentemente, questa sinistra libertaria che viene tanto evocata e osannata in certe fasce d’opinione non è in grado di riconoscere le contraddizioni palesi tra la vocazione egualitaria tradizionale della sinistra, e questa invocazione del ritrarsi dello stato dagli aspetti più privati della nostra esistenza.

Secondo me, chi si autodefinisce di sinistra sembra sottovalutare il problema del potere in una società che abbraccia i principi liberali. Ogni volta che si chiede un ritrarsi dello stato, e quindi un potere istituzionale più leggero, si finisce per rafforzare il potere del mercato e quindi di coloro che hanno maggiori poteri finanziari.

Un esempio potrà chiarire questo concetto. Immaginiamo che lo stato voglia affrontare di petto il problema dell’obesità crescente che osserviamo nel nostro paese. La proposta di una legislazione fiscale che colpisca tipi di alimenti che la favoriscono solleva però l’opposizione generale di tutto il fronte politico, in quanto tende a intervenire su aspetti squisitamente privati della nostra vita. La avverseranno i liberisti, come anche i libertari. Contemporaneamente, le grandi multinazionali del settore alimentare, tramite campagne pubblicitarie immani tenderanno a condizionare esse stesse le nostre abitudini alimentari. Ciò che voglio dire è che solo la dogmatica pretesa che la società sia fatta da individui liberi e razionali può far ignorare che un vuoto di potere non si da’ mai in una società. Se noi facciamo ritrarre lo stato, questo vuoto sarà riempito dal mercato e quindi dai ricchi e potenti. Il potere istituzionale viene avversato, quello di fatto di privati no, e ciò sulla base dogmatica e per me tragicamente errata che l’individuo sia in grado di compiere scelte libere, ignorando così tutte le sue caratteristiche di socialità che tendono a condizionarlo. Il libertarismo, anche quando si ammanta di contenuti di sinistra, sposa inevitabilmente la tesi di una società di mercato, dove il mercato non è un meccanismo limitato all’economia, ma riguarda tramite le elezioni gli organi rappresentativi e qualsiasi aspetto della nostra esistenza che, col definirlo privato, pretendiamo di potere gestire in completa autonomia.

Il principio della libertà che finisce dove comincia quella altrui deve essere completamente sradicato, un terreno privato al 100% semplicemente non esiste, perché l’uomo, come essere sociale, viene condizionato dai comportamenti dei propri simili in ogni caso.

Ciò ovviamente non implica immaginare uno stato che penetra negli aspetti più intimi della nostra vita, un novello grande fratello, ma che la delimitazione dell’ambito delle scelte strettamente personali va fatto entrando nel merito specifico, senza pensare ad un principio generale valido in tutte le situazioni. I confini tra le libertà individuali vanno insomma tracciati sul campo, analizzando le situazioni specifiche.

Allo stesso modo, questa sinistra libertaria entra in contraddizione con una certa rivalutazione della natura, di una nuova sensibilità ecologica. Mi chiedo come si possa far convivere l’avversione alle manipolazioni genetiche che portano agli ogm, e contemporaneamente battersi in prima linea per la difesa del diritto delle vecchiette di sessantanni e più a diventare mamme.

Il libertarismo di sinistra entra secondo me in contraddizioni insanabili, che non vanno ignorate e con cui invece dovremmo fare i conti sino in fondo.

Alla fine, dovremmo forse convenire sul fatto che la confusione sui concetti di destra e sinistra è troppo grande, e dovremmo forse concludere che siano termini senza più alcun senso reale, e pertanto da abbandonare.


Vorrei in conclusione scusarmi per la sintesi estrema a cui mi sono costretto, col rischio di cui sono consapevole di una insufficiente chiarezza: forse nei commenti sarà possibile chiarire meglio alcuni aspetti.

giovedì 25 novembre 2010

SENATO VIOLATO

E quindi Schifani insorge contro la violazione del Senato, questo santuario istituzionale che mai prima d’ora era stato violato da presenze estranee non invitate. Lo sdegno si solleva da tanta parte della stampa, che tende a interpretare questo episodio come una violazione stessa del quadro costituzionale.

Ora, dirò subito che in sé lo spettacolo di organi legislativi in mano a manifestanti non è entusiasmante. Credo che tutti coloro che come me credono nella costituzione, anche non condividendone tanta parte, perché la considerano un compromesso prezioso, vorrebbero poter rispettare il Parlamento ed il significato anche simbolico che essi rivestono in una democrazia. Di fronte a questo episodio, sorgono subito due distinte questioni.

La prima è se non debbano essere gli stessi parlamentari a difendere la dignità delle Camere. Dopo l’osceno rifiuto all’utilizzo delle intercettazioni nel caso Cosentino, diventa pressoché impossibile avere rispetto verso cotanti rappresentanti.

La seconda riguarda la definizione delle responsabilità di quanto accaduto, se davvero essa vada ascritta ai manifestanti. In una democrazia rappresentativa, il ruolo del cittadino non si può esaurire nell’atto di infilare periodicamente una scheda in un’urna, deve esistere una dinamica di scambio tra i rappresentati ed i rappresentanti. Lo stesso osceno meccanismo elettorale e l’evidente atteggiamento di distacco dalle opinioni che si manifestano nella società tende oggi a rendere questo rapporto sempre più conflittuale. Si può davvero in questo clima interpretare il gesto degli studenti come un attacco all’ordinamento costituzionale, o non si dovrebbe piuttosto considerarlo come un tentativo per quanto non ortodosso di stimolare una maggiore democrazia? Il tentativo degli studenti aveva cioè una sua legittimità, e forse sarebbe necessario richiamare piuttosto le responsabilità delle forze dell’ordine e quindi dello stesso governo nel non riuscire a garantire questa così tanto invocata inviolabilità dei luoghi simbolici dell’ordinamento costituzionale. Gli studenti, in definitiva, hanno soltanto sottolineato una delle carenze del “governo del fare“ del fare, sia chiaro, propaganda menzognera, come si determinano e si verificano giorno per giorno.

Infine, l’episodio di ieri, assieme a tanti altri che si verificano sempre più spesso, richiama in primo piano il significato del conflitto che nel “politically correct” non trova spazio. Il conflitto politico secondo questa pseudosinistra, tipicamente alla Veltroni, non deve esistere perché secondo questa tesi la politica dovrebbe essere soltanto un luogo di confronto di idee. Così, anche fischiare alle parole del Bonanni di turno non è più una legittima forma di manifestazione di dissenso, di disvelamento della miseria di chi vende la propria organizzazione sindacale al padrone, ma addirittura la spia di un atteggiamento di intolleranza per opinioni differenti dalla tua.

Non sono passati troppi decenni da quando era ovvio che la politica è anche, se non soprattutto, luogo di conflitto tra interessi contrapposti e tra loro incompatibili. Riprendere questo aspetto essenziale nella pratica politica è a mio parere un passo importante per riportare la politica al suo giusto posto.

mercoledì 24 novembre 2010

CONCORSI UNIVERSITARI: OSSERVAZIONI SULLA NORMATIVA IN VIGORE

Oggi, vorrei occuparmi di questioni inerenti il mio luogo di lavoro, l’Università.

Eventi recenti, riguardanti l’area dove svolgo la mia attività, hanno stimolato la mia attenzione per l’evidente manifestarsi di elementi di arbitrio nelle valutazione svolte dalle commissioni esaminatrici. Vorrei qui indagare quali elementi normativi abbiano favorito questo nuovo e più intenso proliferare di episodi di palese iniquità nelle valutazioni adottate.

Senza allargare troppo la discussione, mi riferirò al DPR 19 ottobre 1998, n. 390, e in particolare a due specifici punti.

Innanzitutto, vorrei citare il DPR per quanto riguarda l’elencazione di quegli elementi di valutazione che vengono ritenuti obbligatori, salvo la possibilità della commissione di individuarne di aggiuntivi. Recita il testo all’articolo 2, a partire dal comma 7:

“7 Per valutare il curriculum complessivo del candidato e le pubblicazioni scientifiche la

commissione tiene in considerazione i seguenti criteri:

a) originalità e innovatività della produzione scientifica e rigore metodologico;

b) apporto individuale del candidato, analiticamente determinato nei lavori in

collaborazione;

c) congruenza dell'attività del candidato con le discipline ricomprese nel settore

scientificodisciplinare per il quale è bandita la procedura ovvero con tematiche

interdisciplinari che le comprendano;

d) rilevanza scientifica della collocazione editoriale delle pubblicazioni e loro diffusione

all'interno della comunità scientifica;

e) continuità temporale della produzione scientifica, anche in relazione alla evoluzione

delle conoscenze nello specifico settore scientifico-disciplinare.

8. Per i fini di cui al comma 7 si fa anche ricorso, ove possibile, a parametri riconosciuti

in ambito scientifico internazionale.

9. Costituiscono, in ogni caso, titoli da valutare specificamente nelle valutazioni

comparative:

a) l'attività didattica svolta;

b) i servizi prestati negli atenei e negli enti di ricerca, italiani e stranieri;

c) l'attività di ricerca, comunque svolta, presso soggetti pubblici e privati, italiani e

stranieri;

d) i titoli di dottore di ricerca e la fruizione di borse di studio finalizzate ad attività di

ricerca;

e) l'attività in campo clinico relativamente ai settori scientifico-disciplinari in cui sia

richiesta tale specifica competenza;

f) l'organizzazione, direzione e coordinamento di gruppi di ricerca;

g) il coordinamento di iniziative in campo didattico e scientifico svolte in ambito

nazionale ed internazionale…”.

Tale elencazione così puntuale di tutta una serie di elementi giudicati rilevanti alla fini della valutazione, potrebbe apparire come una misura di salvaguardia di equità e correttezza nel procedimento di individuazione dei vincitori dei concorsi.

Io mi permetto di contestare questa interpretazione. Nei fatti, questa specificazione così dettagliata dei criteri, rientra nel costume leguleio italiano, quello che fa dire che “fatte le leggi, trovato l’inganno”. Senza per il momento entrare nel merito dei singoli criteri, la questione è che proporne esplicitamente un gran numero in realtà abilita chi vuole ad utilizzarli strumentalmente. In parole povere, se il mio candidato preferito ha un solo specifico criterio in cui prevale sugli altri candidati, è un gioco da ragazzi assumere questo criterio come quello decisivo. Difatti, le norme devono decidere se demandare alla commissione una grande discrezionalità, o se invece assumere un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’operato delle commissioni. Esemplificando, se il DPR si fidasse dei commissari, allora potrebbe semplicemente recitare “tenere conto dell’attività didattica svolta nel settore considerato”. Invece, il DPR appare diffidente, ed allora cosa fa? Cita in più punti tutto ciò che non è attività di ricerca scientifica. Se rileggete il pezzo citato, di questi tipi di attività, parla nei commi 9a, 9b e 9g. In misura ancora maggiore, l’attività di ricerca compare nei commi 9c, 9d, 9f e 9g, dopo che gli interi commi 7 e 8 sono dedicati alla valutazione dell’attività scientifica.

Qual è il risultato effettivo e perverso di tutto ciò (cosa facilmente prevedibile)? Che si fornisce al commissario corrotto appigli per sostenere l’insostenibile, per fare risultare vincitore un candidato che in effetti non ne sarebbe meritevole.

Tutto ciò può impunemente avvenire perché un metodo, se vuole essere davvero garantista, deve allora essere blindato. Il DPR, adottando cioè un criterio di diffidenza sull’operato delle commissioni, avrebbe dovuto includere una tabella in cui, criterio per criterio, se ne stabilisse i limiti di peso ai fini della valutazione. Da questo, ne sarebbe dovuta conseguire una valutazione quantificata in un numero, cosa non prevista.

Non vorrei che sorgesse un equivoco: con le considerazioni che ho fatto, non intendo schierarmi perchè le commissioni lavorino su tabelle, anche perché ampi margini di discrezionalità sono inevitabilmente a disposizione delle commissioni. Il punto che io sostengo è piuttosto che il DPR fornisce un’arma carica nelle mani dei commissari più scorretti attraverso la citazione specifica di criteri che nessun decreto può promuovere da marginali a fondamentali. Che il criterio fondamentale stia nella qualità e nella quantità della produzione scientifica è per tanti di noi un’ovvietà. Ebbene, fatti recenti mostrano che questo criterio, che in tutta evidenza dovrebbe costituire il primo fondamento di valutazione, è stato clamorosamente violato a favore di altri criteri che, per il fatto stesso di essere citati esplicitamente dal decreto, consentono al farabutto di turno di servirsene per capovolgere l’esito stesso del concorso. Metaforicamente, si potrebbe dire che se una legge edilizia elencasse minuziosamente i criteri per distinguere una casa di civile abitazione da un fabbricato rurale, ciò favorirebbe paradossalmente le false catastazioni, in quanto sarebbe facile, sulla base di dettagli costruttivi classificare in maniera fraudolenta gli edifici, violando così ogni criterio di buon senso e proprio facendo leva su formalismi truffaldini.

Andiamo adesso al secondo punto del citato DPR su cui vorrei soffermarmi. Devo premettere che inevitabilmente mi riferirò al settore di mia competenza, quello delle scienze sperimentali, perché l’incompetenza sulle altre aree disciplinari mi impone di così delimitare l’oggetto delle mie considerazioni.

Riprendiamo quindi il testo che ho citato in corsivo, e andiamo a soffermarci sul comma 7b, che per maggiore chiarezza ripeto qui:

apporto individuale del candidato, analiticamente determinato nei lavori in collaborazione”

Questo è un punto fondamentale proprio nel campo delle scienze sperimentali dove la natura stessa dell’attività nella quasi totalità dei casi impone la collaborazione. Tale collaborazione viene certificata nel testo stesso dei lavori, in cui, proprio sotto il titolo, vengono elencati gli autori.

Ora io mi chiedo perché, visto che nel produrre la pubblicazione come titolo per il concorso, ne documento il mio ruolo di coautore, il legislatore abbia sentito il bisogno di aggiungere il predetto comma. Mettiamola così: a seguito di una certa attività di ricerca, si perviene a dei risultati che si ritiene possano risultare utili alla comunità scientifica. Si scrive pertanto l’articolo e, come è ovvio, lo si firma. Quella firma costituisce la certificazione della partecipazione di quello specifico soggetto a quella attività ed allo stesso articolo. Se le cose stanno così, l’unica cosa che si può dedurre è che il legislatore non si fidi di questa certificazione, e che pertanto richieda alla commissione un’ulteriore e più autorevole certificazione.

Le domande, tra loro collegate, che sorgono a questo punto sono due:

1) Perché non fidarsi degli stessi autori, e fidarsi invece del ruolo di certificazione dei commissari? Se il mondo della ricerca è in mano a dei farabutti che certificano il falso, perché mai dovremmo fidarci dei commissari, pensare cioè che i commissari siano più virtuosi del rimanente mondo della ricerca di cui tra l’altro sono parte integrante?

2) Come fa la commissione a certificare l’effettivo contributo individuale di un determinato autore? Se, tentando di rispondere a questa seconda domanda, pervenissimo alla conclusione che non c’è modo alcuno di certificarlo, non dovremmo allora convenire che questo specifico punto è un’arma carica in mano ai commissari per fraudolentemente capovolgere l’esito di un determinato concorso?

Partiamo quindi esaminando che risposta si possa dare alla seconda domanda, visto che solo se ne esiste una che possa rivestire certe caratteristiche di obiettività, allora potremmo rispondere anche alla prima.

Vorrei quindi ripartire dalle considerazioni che ho svolto sopra: la legge, nella sostanza, chiede ai commissari di compiere una specie di indagine poliziesca per valutare cosa ci sia dietro l’elenco degli autori esposti negli articoli. Ebbene, dovrebbe risultare evidente a chiunque che solo una conoscenza diretta delle persone coinvolte, dell’attività svolta in quello specifico laboratorio, possono fornire elementi utili a tale indagine. Coerentemente allora, se questo aspetto investigativo fosse quello da privilegiare, il DPR dovrebbe suggerire di formare commissioni locali, di demandare a chi ha più elementi di giudizio di fonte diretta la valutazione dei candidati. Il DPR non fa questo, e secondo me è una fortuna. Ciò è dovuto al fatto che localmente nello stesso settore disciplinare gli interessi in gioco sono così corposi che l’obiettività necessariamente latita. Naturalmente, ciò discende dalle scarse risorse disponibili che inevitabilmente tendono a creare un clima di competitività interna. Bene fa il DPR a definire una composizione maggioritaria esterna a quell’Ateneo.

Se però togliamo l’elemento di conoscenza diretta e direi quotidiana dei fatti, cosa rimane a questi poveri commissari per potere definire i contributi personali? E’ questo il mistero insondabile, e devo confessare che le varie commissioni che si sono dovute confrontare con un simile meccanismo concorsuale hanno dovuto lavorare tanto di immaginazione.

A mio modesto parere, un commissario che voglia essere considerato onesto, dovrebbe, in assenza di altri elementi di giudizio, credere a ciò che i diretti interessati certificano col fatto stesso di essere inclusi nell’elenco degli autori. Se io non ho elementi di prova che un autore non ha contribuito per niente, o non ha contribuito abbastanza all’articolo prodotto ed all’attività di ricerca implicata, devo arrendermi e prender per buono ciò che mi viene affermato dai diretti interessati, il che in definitiva corrisponde a rifiutare il ruolo del tutto improprio di poliziotto, ed a dire al legislatore “sei un incompetente e quindi uso il mio buon senso e non le tue norme impossibili da applicare”. E’ curioso dicevo, vedere come invece altre commissioni si siano letteralmente arrampicate sugli specchi per attuare delle discriminazioni del tutto improbabili e in definitiva del tutto arbitrarie. Citerò solo un caso che tra l’altro mi pare non rivestire caratteristiche di strumentalità, e che quindi può rappresentare emblematicamente lo scompiglio in cui questa norma ha gettato la comunità scientifica. A verbale dunque di questa commissione, su cui evito di fornire dettagli ulteriori, sta l’assumere a criterio del contributo fornito dai singoli autori l’ordine dei nomi, ed in particolare chi risulti come primo nome. Ora la domanda che si impone è: chi ha scelto di porre un determinato autore come primo nome? Non saranno gli stessi soggetti che hanno definito la lista degli autori? Dunque, evidentemente la scelta di definire un criterio del primo nome poggia totalmente sulla buona fede dei soggetti che hanno concorso a realizzare l’articolo scientifico, c’è implicito il riporre fiducia nei propri colleghi. Dirò di più: perfino nel caso in cui ci fosse un unico autore, chi mi potrebbe assicurare che non ci sia dietro un “benefattore” che cede l’opera del proprio ingegno alla scopo di favorire fraudolentemente un altro soggetto? Ciò che voglio dire è che in un clima di diffidenza generale, non se ne esce più, una comunità scientifica corrotta non può che generare commissari anch’essi corrotti, ed in ogni caso impossibilitati ad accertare dove si siano compiuti soprusi ed imbrogli clienterali, e che la definizione di norme sempre più minuziose, lungi dal contrastarli, ne costituisce l’arma più efficace.

lunedì 22 novembre 2010

MA FINI E CASINI SONO DAVVERO MEGLIO DI BERLUSCONI?

Devo ammetterlo, questi politici sono proprio stupidi, non c’è altro modo di definirli. Essi hanno una visione statica dell’elettorato, pensano che i consensi si distribuiscano indipendentemente dalle loro dinamiche politiche. D’Alema non capisce che non può contare su un solo voto, affidandosi al fideismo degli elettori, che se pensa di sommare i proprio voti a quelli di Casini, fa un errore madornale, e a quanto pare non ha imparato niente dalla batosta subita alle regionali in Puglia da parte di Vendola. L’elettore vota per chi crede, mica D’Alema ha comprato il suo voto a vita. Se Vendola risulta più convincente di Boccia, egli vota Vendola, qualunque cosa il PD gli suggerisca di fare.

Allo stesso modo, due stupidi come Fini e Casini sono davvero difficili da trovare. Se vuoi sfiduciare il governo Berlusconi, devi rischiare, ed andare all’appuntamento del 14 dicembre con passo fermo. L’atteggiamento sicuro, al limite dello spavaldo, fa credere ai parlamentari che hai già la certezza della vittoria e si aggregheranno al carro dei vincitori. Se però frenano, precisano, fanno un passo avanti e due dietro, allora perderanno i loro stessi parlamentari. In genere, credo che un certo successo debba essere giustificato da una certa dote: niente di tutto questo, neanche come politicanti valgono qualcosa.

Allora, farò la domanda che non si può fare: ma questi non sono peggio di Berlusconi? In cosa sono migliori di lui? Almeno, Berlusconi accetta la dimensione del rischio, a suo modo, e con i suoi traffici discutibili, ma comunque rischia. Questi tramano allo stesso modo, ma non hanno neanche il coraggio delle loro azioni, e mi pare che il PD somigli molto a loro.

sabato 20 novembre 2010

BLOGSFERA COME LUOGO DI STRUSCIO

Sapete, oggi devo fare una considerazione non lusinghiera sulla blogsfera. Più tempo la frequento, più mi rendo conto di come sia di fatto impossibile stabilire un confronto reale, tranne in pochissime lodevoli eccezioni. Ho aperto questo blog per farne un veicolo delle mie idee, e continuerò a farlo almeno ancora per il prossimo futuro, ma non posso non vedere che senza filmati, senza immagini più o meno gradevoli, la capacità di attrazione scema fortemente. E soprattutto, senza il reciproco, cioè senza che si restituiscano le visite, presto gli occasionali visitatori si allontanano rapidamente. Ciò è davvero sorprendente, perché quando io passo da un blog lo faccio esclusivamente per leggere qualcosa di interessante, meglio se trovo idee non coincidenti con le mie (sennò, se trovo conferme, a cosa mi serve leggere, leggo me stesso piuttosto). Perché mai dovrei rinunciare a questo piacere perché non vengo visitato a mia volta?

Mi è venuto allora in mente un paragone facile facile: andare per blog è come fare “lo struscio”. Il sabato pomeriggio, si va nel viale principale del paese non certo per fare una passeggiata, ma per incontrare la gente che si conosce e si frequenta, andando avanti e indietro per lo stesso tragitto. Così, si va per blog non per confrontarsi con idee diverse dalle proprie, ma solo per confortarsi nelle proprie attraverso il rito del commento acriticamente confirmatorio, un “ciao, come stai?” da cui non ci aspettiamo alcuna risposta significativa.

giovedì 18 novembre 2010

I RIFIUTI COME NEMESI DEL CAPITALISMO

I rifiuti a tonnellate nelle strade di Napoli non si possono più considerare soltanto il risultato nefasto di governanti incapaci e trafficoni. Non si può più valutarli come un ritardo dovuto ad inefficienza. Non si può più considerarli come l’emblema di una classe politica inetta, tutta impegnata da una parte a gestire gli equilibrismi della piccola tattica quotidiana, dall’altra ad obbedire supinamente alla grande finanza internazionale. Neanche questo è possibile, non è solo questione di un governo che non risolve i problemi collettivi, neanche quelli vitali dello smaltimento dei rifiuti, non è neanche la dabbenaggine degli amministratori locali, anche appartenenti al centrosinistra. Qui, abbiamo la dimostrazione dimostrata di come nulla funzioni più. L’inceneritore di Acerra che, sotto il velo del mistero più fitto, funziona al più a ritmo ridotto e a singhiozzo, le discariche percolano inquinando con metalli pesanti le falde acquifere, e non se ne riesce ad individuare di alternative. Ma soprattutto queste popolazioni vocianti ed inconcludenti non si possono più sopportare neanche loro. So bene che le responsabilità vanno ben distinte, ma non si può dopo anni che il problema è lì sempre sul punto di scoppiare non riuscire ad elaborare anche autonomamente uno straccio di ipotesi alternativa.

Il sacchetto di spazzatura quotidiana lo producono tutti, ognuno pretende di allontanare da sé i propri rifiuti aspettando l’intervento provvidenziale dall’esterno, ma nessuno, dico proprio nessuno, che prenda minimamente in considerazione l’ipotesi di ridurre drasticamente la stessa produzione dei rifiuti. Eppure, a me sembrerebbe un ovvio modo di facilitare il problema del successivo smaltimento, sarò un pazzo? Io dico, come è possibile convivere con la spazzatura che ti ritrovi sotto gli occhi e tra i piedi ogni volta che esci in strada?

Abbiamo messo in atto un meccanismo socio-economico che mi da’ i mezzi per produrre i rifiuti, ma non quelli per smaltirli, che genere di folle meccanismo è questo?

Nel frattempo, Fini vuole sfiduciare Berlusconi, ma non Bondi perché Bocchino dice che puntando al bersaglio grosso, non possono farsi distrarre da quello piccolo. Onorevole Bocchino, ma non si vergogna di dire queste cose? Non si dovrebbe sfiduciare o non sfiduciare Bondi sulla base di un giudizio ponderato sul merito dei suoi atti ministeriali? Che forma di perversione politica è quella che trascura la sostanza dei problemi, trasformando tutto in un meccanismo puramente tattico? Ma soprattutto, può la politica concentrarsi sui propri equilibri interni, ignorando ormai del tutto (non ci sono neanche più dichiarazioni dei ministri interessati) i problemi reali e drammatici con cui la nazione tutta ormai si viene a confrontare?

Per me, questa dei rifiuti è la vera nemesi di un sistema politico ormai del tutto deresponsabilizzante, tutti vittima dei problemi da appioppare ad altri. Il governo non viene sfiduciato perché non è in grado di smaltire i rifiuti, non lo è il governatore campano, e giù nessuno dei sindaci dei luoghi coinvolti. E infine, la popolazione non fa eccezione, in attesa messianica di una soluzione indolore, che riguardi altri, e che permetta loro di continuare nel modo irresponsabile con cui si è sempre comportata.

E’ la nemesi dello stesso capitalismo, che per la crescita ininterrotta di cui ha vitale bisogno, produce sempre più merci, e queste si vendicano rendendoci la vita impossibile. Moriremo tutti sommersi dai nostri stessi rifiuti, e lo faremo in stile Titanic, fino algiorno prima producendo i nostri propri rifiuti e pretendendo una soluzione che nessuno vuole o sa dare.

lunedì 15 novembre 2010

IL LEADERISMO E IL PD

Oggi affronto un argomento particolarmente controverso, soprattutto a sinistra. Si tratta di ciò che viene designato col termine “leaderismo”. Vediamo innanzitutto di definirlo nella maniera migliore, cosa che nessuno apparentemente si cura di fare. E’ d’altra parte un destino comune a neologismi, in questo caso chiaramente derivato dall’inglese, che divengono in breve tempo di uso molto comune, potremmo dire termini di moda. Leaderismo sembrerebbe essere inteso come la tendenza a costituire le formazioni politiche attorno ad una figura politica. In effetti, questa tendenza è davvero forte. Basti pensare al caso più eclatante, quella del PDL costruito attorno a Berlusconi, alla Lega Nord ed al suo padre-padrone Bossi, all’UDC ed a Casini, al FLI ed a Fini, ed all’IDV di Di Pietro. In sostanza, quasi tutto l’arco parlamentare vede formazioni politiche costruite attorno ad un leader con la maggiore eccezione costituita dal PD.

Ebbene, non si può certo non convenire su un giudizio senz’altro negativo sul fatto che le formazioni politiche vengano costituite attorno ad una specifica persona. Anche dopo questa ammissione, si dovrebbe però argomentare meglio questo giudizio così perentorio. A me sembrerebbe che il difetto stia nella moltiplicazione senza fine delle formazioni politiche, e nella loro, in qualche misura conseguente, labilità. Il problema insomma non starebbe nel fatto che esista un leader riconosciuto, ma piuttosto sul fondarsi dei partiti su motivazioni contingenti ed inconsistenti. Se immaginiamo una personalità come Gandhi o anche come Mandela, siamo certi che i movimenti politici che hanno suscitato avessero una valenza negativa?

Scavando scavando, credo che dovremmo alla fine convenire che non ha senso prendersela col leaderismo. Pensare che la polarizzazione personale sia il problema della politica italiana è chiudere gli occhi alla realtà. Qui, abbiamo non so quanti leaders che passano allegramente da una formazione all’altra, pronti a riciclarsi a seconda della direzione del vento. Berlusconi, quello che ha costituito il partito-azienda, pur’egli ha dovuto rifondare il partito, passando da FI a PDL, tanti dirigenti del PCI si sono allegramente riciclati prima nel PDS, poi nel DS, e infine nel PD. Per non parlare dei vari mastella, dei tanti socialisti pervenuti al PDL, di ex-radicali ormai disseminati sull’intero arco politico. E dove mettiamo gli ex-democristiani? Sarebbe, dico io, questo il leaderismo? Ma mi faccia il piacere avrebbe argutamente detto il grande Totò.

Il problema del mondo politico italiano è la nomenclatura, sempre uguale a sé stessa, che passa attraverso le sconfitte più cocenti senza mai pagare dazio, senza mai assumersi minimamente la responsabilità dei propri atti. Il pizzino di Latorre in diretta TV è la dimostrazione dimostrata che la nomenclatura non conosce neanche confini di partito, tutti assieme a tramare, a farsi sgambetti, a mantenersi in un equilibrio precario sostenendosi alle spalle dei propri pari e pronti a scalciare via nuove entries. Figurarsi se questa nomenclatura così simile al politburo gerontocratico dell’ultimo Breznev può sopportare il sorgere di nuovi protagonisti e, quel che più conta, delle idee che essi portano con sé.

La gente però si riconosce nel volto di questi nuovi protagonisti, è stufo dei vari baffini, dei vari amerikani che con i loro accordi e i loro dissidi sempre un filino al di sotto del livello pubblico, hanno bloccato la politica italiana.

Non è più solo il solito volto di Vendola, le primarie milanesi di ieri hanno il volto per molti aspetti nuovo di Pisapia. Alla nomenclatura PD non rimane che mettersi da parte, ammettere che non rappresentano più nessuno. Temo piuttosto che seguiteranno lungo la loro linea politica sempre più spostata a destra. Ma cosa li distinguerà allora dal neo-terzo polo di Casini e Fini? Perché mai allora questo tipico elettore moderato dovrebbe scegliere il rimboccarsi le maniche del povero Bersani al lapalissismo (scusate l’ardito neologismo) del Casini di turno?

Vendola, lo dissi già, credo su questo stesso blog, non mi entusiasma, troppi silenzi sulle proposte politiche. Ma come faremo mai fuori questi mammut della politica italiana? Questi, in questo assolutamente simmetrici a Berlusconi, sono disposti a trascinare l’intero paese nella loro rovinosa caduta. In fondo, più che Bersani, Veltroni o D’Alema, le vere vittime delle primarie di ieri sono i Rienzi, i Civati e perfino Di Pietro, tutti fatti fuori di fatto da una crisi della dirigenza PD ormai galoppante e che trascinerà anche loro ai margini.

sabato 13 novembre 2010

POLITICANTI ALLO SBARAGLIO

Ad Annozero giovedì scorso, l’aspetto più interessante non era costituito dalle parole pronunciate dagli ospiti, quanto dall’espressione dei loro volti. Da una parte, Belpietro non riusciva ad esercitare la sua solita arroganza, dall’altra negli sguardi di Casini e Bocchino v’era un misto di felicità e di derisione.

Quegli sguardi, quelle espressioni ci dicono quale siano le aspettative degli interessati, e le aspettative di questo terzo polo sono le più rosee. Insomma in quella trasmissione si respirava l’aria della disfatta tanto attesa di Berlusconi.

A mio modesto parere, stanno vendendo la pelle dell’orso prima ancora di averlo catturato. In tatticismi sono certo maestri questi politicanti, e il fuoco in cui cucinarselo piano piano è stato preparato con cura. Credo tuttavia che essi abbiano perso il polso dell’elettorato. Il tragitto che hanno tracciato con cura sarà percorso con successo, ma rimane da vedere cosa accadrà nel momento in cui l’elettorato sarà chiamato a compiere le sue scelte.

Credo cioè che il governo Berlusconi sarà sfiduciato in tempi brevi, e che ci sarà un altro governo, quello che essi invocano per approvare una nuova legge elettorale ed adesso si comincia anche a parlare di provvedimenti economici e di una legge sul conflitto d’interesse. Tanta carne al fuoco come vedete, a me pare troppa, visto che questa fase finale della legislatura è tuttora avvolta nel mistero. Non sappiamo questo governo da quale maggioranza sarà sostenuto, da chi sarà composto, chi lo guiderà. Soprattutto, si ignora il contenuto di questi provvedimenti programmati. Mi chiedo se occorra una particolare intelligenza per capire che si tratta di un percorso tutto in salita. Il disarcionamento di Berlusconi è cioè a mio parere il tratto più agevole, ma il seguito è molto più complesso. E’ quindi prevedibile che lo stesso insediamento di questo nuovo governo sarà un processo laborioso e che quindi richiederà un lasso di tempo eccessivo in un clima di emergenza in cui il paese si trova. Siamo poi certi che si troverà un accordo sulla nuova legge elettorale, e su quello altrettanto complesso e controverso del conflitto d’interessi? Oggi come oggi, a me pare che solo sui provvedimenti economici si troverà agevolmente un accordo visto che su queste questioni la pensano tutti allo stesso modo (il famoso pensiero unico).

Se questo scenario che ho tracciato dovesse rivelarsi conforme alla realtà, si andrà alle elezioni in un clima in cui Berlusconi dirà che la volontà popolare è stata violata, in cui sarà evidente come questa maggioranza raccogliticcia si sarà mostrata litigiosa e inconcludente al suo interno, ed in fine a cui saranno addebitate tutte le difficoltà economiche legate alla crisi internazionale. Il rischio di un nuovo successo di Berlusconi dovrebbe apparire evidente, ed in questa eventualità davvero avremo chiuso l’esperienza della democrazia in Italia.

Mi chiedo allora se non sarebbe meglio, io direi necessario, preparare i provvedimenti che si vogliono approvare sin da adesso, visto che le leggi possono essere di iniziativa parlamentare, e che quindi, se una maggioranza alternativa c'è, vanno presentati al più presto, anche se al governo ci sta ancora Berlusconi. Non basta mettere in minoranza Berlusconi, bisogna poi accordarsi, e su questo accordo non si può scommettere, bisogna esserne certi: perchè allora non accordarsi da subito? Per tatticismi interni a questa stessa area evidentemente, e cioè per gli stessi motivi che mi fanno temere una successiva disfatta elettorale.

venerdì 12 novembre 2010

IL G20: SARA' ORMAI UN G1 MASCHERATO?

In questi giorni, si tiene a Seul il consueto appuntamento del G20, cioè formato dai venti paesi più sviluppati. Questi incontri “G” seguiti da un numero che ne specifica il numero complessivo dei partecipanti, scandisce ormai periodicamente la politica internazionale, ricordandoci, se l’avessimo dimenticato, il processo di globalizzazione finanziaria, del tutto realizzatosi, economica, in stato avanzato di realizzazione, di cultura, quasi completata, di condizioni di vita, ben lungi dall’essersi attuata, ed anzi neanche iniziata.

Guardando in rete su siti che si richiamano in modo più o meno ortodosso al marxismo, vedo che prevale tuttoggi una visione che predica il conflitto, cioè l’esistenza di interessi intrinsecamente inconciliabili. Su questo aspetto, si dovrebbe discutere a lungo, e quindi qui sono costretto a tralasciarlo. Più interessante è il fatto che prevalga ancora una visione che vede l’imperialismo americano come il nemico da battere. Lasciando perdere che ciò comporta il rivalutare regimi osceni di tutto il mondo purchè conflittuali con gli USA, credo che qui il punto fondamentale sia un altro, e cioè se sia oggi ancora possibile fare coincidere un fronte capitalista egemone con un singolo paese.

Per brevità, sono costretto ad ipersemplificare. Vorrei semplicemente considerare il ruolo che ormai riveste lo stato di Israele sul piano internazionale. Credo che solo i ciechi conclamati possano non essersi accorti che ormai gli USA non esercitano alcuna influenza determinante su Israele. Il loro leader conservatore Netanyahu ormai non finge neanche più di assecondare Obama, tira dritto con la sua politica ed in particolare con gli odiosi nuovi insediamenti, chiaramente indigesti all’amministrazione USA.

Se ritorniamo indietro, e neanche tanto in verità, le cose apparivano molto differenti, Israele non si sarebbe mai opposta in maniera palese a un diktat USA. A questo punto, ci si può chiedere a quando risalga questo cambio netto di atteggiamento tra questi due paesi. Io non avrei alcun dubbio, lo collocherei al momento dell’attentato a Sharon, allora premier israeliano. Fu un gravissimo atto che andava contro entrambe le nazioni sia gli USA che Israele, se ricostruiamo il clima di politica internazionale di allora. Chi poteva colpire così platealmente senza colpa di subirne le conseguenze il gigante USA e la potenza nucleare israeliana, che detiene pur sempre uno degli eserciti più potenti del pianeta? Quale potenza poteva affrontarli senza timori? In realtà nessuna altra nazione poteva ardire tanto. Ed è qui che si può collocare l’emergere di un potere sopranazionale di straordinaria forza. Da allora, secondo me, i potenti decidono di mettere da parte le sovranità nazionali, e di agire in conto proprio, senza ovviamente disdegnare di utilizzare i poteri nazionali. Il punto di discontinuità sta nel fatto che ormai non si limitano ad influenzare i governi nazionali, ma passano direttamente ad ordinare le loro volontà.

In fondo, il dramma di Obama è proprio questo, di avere verificato come la sua azione possa muoversi soltanto nello stretto solco tracciato da altri più potenti di lui, si rende cioè conto di essere sotto ricatto. Per questo l’atteggiamento di Netanyahu durante i negoziati appare perfino derisorio rispetto ai mediatori USA, egli sa bene chi ha davvero il coltello dalla parte del manico.

In questo vorrei essere esplicito: credo che l’egemonia USA nel mondo stia calando, che tutti i valori tipici del capitalismo e che potremmo riassumere nel simbolo emblematico della “Coca Cola”, procedano separatamente dalle scelte di un singolo paese. Solo l’Europa ormai, per propria dabbenaggine e limite, considera gli USA una nazione a cui obbedire. Così, questi incontri tipo G20 diventano incontri tra replicanti che scrivono le risoluzioni sotto dettatura di un comune potere a cui sono ormai sottomessi.

mercoledì 10 novembre 2010

BOSSI, UN ITALIANO VERACE CHE SI PRETENDE PADANO

Ma davvero Bossi può pretendere di criticare i comportamenti dei terroni da un punto di vista altro da loro? Davvero i leghisti, e in particolare egli stesso si considerano così differenti dagli altri Italiani? Vediamo di analizzare atti di Bossi nei tempi più recenti.

Bene, egli rivendica di esercitare un ruolo nella gestione delle banche: è quello che i democristiani, e non solo loro naturalmente, hanno fatto per decenni, dove starebbe la differenza?

Egli pretende di imporre i suoi parenti in ruoli pubblici ed istituzionali, e non nasconde il fatto che ciò gli sia dovuto in quanto capo della Lega: rispetto alle classiche raccomandazioni tipiche dei democristiani di qualsiasi regione d’Italia, dove starebbe la differenza?

La Lega ha cambiato rapidamente opinione sulla questione dell'abolizione delle province. Come mai l'avrà fatto? Perchè si risparmia davvero così poco? Mi colpisce come pretendano di smerciarci dei numeri senza uno straccio di concreta ipotesi sulla loro dismissione, dalle cui modalità dipenderebbe con ogni evidenza l'importo del risarmio, in ogni caso certo. Perchè accettare questo spreco di denaro pubblico da un partito che vuole caratterizzarsi per l'antistatalismo? Ma perchè la Lega ha bisogno di crescersi il suo sottobosco politico di politicanti subalterni e fedeli: ma non è quello che la DC ha fatto durante il periodo dei suoi governi, caricando sulle finanze statali il costo del suo concsenso? D0ove starebbe la differenza?

Egli utilizza un tatticismo politico di grande efficacia, il cui ultimo capiotolo consiste nella dichiarata disponibilità a condurre una trattativa molto complessa con Fini per salvare il governo, almeno per qualche mese ancora: ma non era un costume da Roma ladrona e da prima repubblica governare utilizzando bizantinismi ed equilibrismi invece di andare al sodo secondo la teoria, probabilmente obsoleta per l’età, del celodurismo?

Egli fino a ieri si è rivolto al popolo veneto (come usa chiamarlo lui) facendosi mallevadore dell’azione governativa: ma non è il tipico linguaggio mafioso quello di farne una questione di parola d’onore, del fatto che il valore di un’iniziativa si basi su un rapporto fiduciario personale, in cosa differirebbe dai comportamenti dei terroni?

La verità è che dietro il rito del Moncenisio, dei simboli celtici e di simili fregnacce, il leghismo rappresenta il profondo spirito dell’italiano medio, ed anzi nella sua versione più deprecabile. Se mai ci dovesse essere una secessione, da una parte avremmo la Terronia, naturalmente al sud, e dall’altra la super-Terronia, quella appunto del nord.

lunedì 8 novembre 2010

LA SAGRA INFINITA DEI POLITICANTI

Vorrei qui collegare le considerazioni che ho fatto nel post precedente con la politica italiana, anche in conseguenza degli ultimi sviluppi di ieri.

Dunque, per taluni, non esiste alcuna cupola di comando dell’economia nel mondo, non esiste una finanza internazionale in cui persone fisicamente individuabili, tramite un loro accordo preliminare, determinano aspetti fondamentali verso cui vada a svilupparsi la situazione economica. Bene, ma poiché la direzione, intendo dire sempre a livello internazionale, è ben tracciata, se non c’è una volontà di un gruppo organizzato, allora è determinato dal mercato. Sarebbe qui impossibile condensare le considerazioni che mi spingono a considerare impossibile che i mercati possano funzionare come gli economisti vorrebbero farci credere. Anzi, diamo pure per scontato che l’economia sia determinata esclusivamente da un mercato finanziario globale. Ammesso e però non concesso questo, rimane il fatto su cui dovremmo convenire tutti che tutti gli stati sovrani, escludendo forse la Cina che costituisce un caso a sé stante, e quindi includendo anche il governo USA di Obama, non hanno alcun reale potere economico. E’ forse un destino questo, una sorte inevitabile? Certamente no, tutto questo è piuttosto dovuto alla scelta di mettere in cima alla priorità l’economia, e stabilire quindi che la politica è solo un’ancella dell’economia.

Ora, quando si parla di economia, uno pensa che si tratti di una scienza. Tutto ciò è falso, perché l’economia è solo una disciplina finalizzata alla sviluppo, definito come la crescita del PIL. So che questa affermazione è contestabile, e difatti esistono anche economisti eterodossi. Il più eterodosso e famoso di tutti è Karl Marx, tanto eterodosso che taluni sostengono che Marx non ha sviluppato una sua economia politica, ma piuttosto una sua critica dell’economia politica, potremmo dire più filosofia che economia (nel considerare la forza-lavoro come valore d’uso e non come valore di scambio). Ancora una volta, mettiamo pure da parte la questione se possano davvero esistere economisti che non vogliano massimizzare il PIL, ammettendo che forse ne possono anche esistere. Rimane tuttavia l’evidenza che le teorie economiche in quella direzione vanno: se pure i dissidenti avessero diritto ad essere chiamati economisti, rimane il fatto che costoro sarebbero in ogni caso minoritari.

Bene, i grandi filosofi liberali, incluso Rawls, danno per scontato che l’assetto politico dovrebbe ottimizzare il benessere, misurato ancora una volta come disponibilità di merci. Poiché un po’ tutta la teoria politica liberale è costruita in maniera assiomatica, cioè pretendendo che i propri principi siano autoevidenti, non solo la direzione dell’economia, come detto va necessariamente verso lo sviluppo, ma anche la politica, almeno quella liberale, rimane sin dall’inizio, cioè nei suoi stessi principi, vincolata alle esigenze edella crescita continua. Si è decretata così la fine della politica, e ciò riguarda tutto il mondo.

Tornando ora alla scena nazionale, ciò che vediamo quotidaniamente è appunto questa commedia, i politicanti che inscenano continuamente la medesima trama, che si potrebbe riassumere dicendo che vogliono fare tutti la stessa cosa, ma vogliono essere loro a gestire questo potere puramente formale, politicanti appunto perché sono replicanti di un medesimo copione.

E’ la loro natura di politicanti, e non di politici, di gestori di decisioni altrove adottate che li portano ai comportamenti che abbiamo osservato anche ieri. Ciò che viene bandita è quindi l’assunzione di vere scelte politiche: essi sono membri di uno stesso cast, rivendicano soltanto il posto di prima donna. In queste condizioni, gli attributi non solo non sono richiesti, ma addirittura risultano dannosi. Rimane soltanto il tatticismo quotidiano, che oggi in particolare richiede la regola del cerino. Così, da una parte Fini gioca con Berlusconi a chi spegne per ultimo il cerino, dall’altra Bersani si rifiuta di elaborare una sua proposta specifica e concreta di legge elettorale “in assenza di segnali”, come ha tristemente affermato dall’Annunziata. A proposito di questa conduttrice, non si può evitare di considerare com’ella pervicacemente ritenga sempre di fare osservazioni geniali quando invece o dice banalità o altre volte assurdità. Ella comunque non demorde, si vede da miglia lontano che ritiene di essere una giornalista geniale.

Non v’è nulla da commentare, come pure Ornella mi invita a fare nell’ultimo commento al precedente post. Come andrà a finire è nello stesso tempo arcinoto e ignoto nei dettagli. Per capire dove va la situazione politica, cosa ben diversa dagli equilibrismi partitici, basta ascoltare Marchionne e leggere i provvedimenti di Tremonti, il resto come si dice adesso, è fuffa, anzi un superdistillato di fuffa.

sabato 6 novembre 2010

UMBERTO ECO ED IL COMPLOTTISMO

L’atteggiamento di Umberto Eco e di altri ospiti a “L’infedele” di lunedì passato mi ha prima di tutto sbalordito, e poi davvero indignato. Mi chiedo come sia possibile che un uomo che sicuramente ha dato dei contributi decisivi in semiologia, uno tra i più famosi intellettuali di sinistra possa venire in TV a dire le più enormi sciocchezze senza neanche vergognarsene. In sostanza, questo emerito intellettuale è venuto da Lerner per pubblicizzare il suo ultimo libro, manifestando senza pudore alcuno sin dall’inizio il suo unico ed esclusivo fine, come si osservava dal fastidio da lui esibito per il fatto che il conduttore avesse iniziato la sua trasmissione occupandosi di altro argomento. Questo libro ha per protagonista un certo Simonini, definito dall’autore un complottista, anzi un complottista imbecille. Badate bene, non è che questo personaggio sia casualmente complottista ed imbecille, ma imbecille perché complottista. Dal che si deduce che per Eco tutti i complottisti sono degli imbecilli. Naturalmente, sarebbe utile a questo punto definire cosa sia un complottista. Per me, un complottista è qualcuno che vede attorno a sé sempre complotti. Se questo fosse il modo con cui anche Eco intendesse questo termine, potremmo perfino convenirne. Non è però così, l’ineffabile intellettuale sostiene, udite udite, che complottista è colui che, anche fosse per un singolo complotto, ne sostiene la sussistenza anche quando questo non venga scoperto. Con stile apodittico, egli dice che qualsiasi complotto viene presto scoperto, che i complotti se non vengono scoperti ed in poco tempo, allora essi non esistono.

All’emerito intellettuale, vorrei consigliare una maggiore cautela. Vorrei aggiungere che io, forse perché troppo tradizionalista, credo ancora nel principio di causalità: ad ogni effetto, la sua causa. Così, se un politico mi motiva un provvedimento in maniera chiaramente inadeguata, io, guarda un po’, cerco la vera motivazione, e devo necessariamente sospettare che ci sia qualcosa che non può essere reso pubblico, che cioè ci sia un accordo occulto tra potenti. Il fatto che questa mia ricostruzione dei fatti non abbia dei riscontri evidenti, che questo accordo più o meno segreto tale rimanga, non capisco come possa essere assunto a dimostrazione dell’inesistenza stessa del complotto. Al contrario, chi complotta, lo sa fare con grande cura, e certo farà di tutto per non farlo conoscere. Né c’è ragione alcuna per credere che la segretezza sia a scadenza, e che dunque alla fine si sappia tutto. Come si può con inaudita leggerezza affermare delle tesi così perentorie senza uno straccio di argomentazione?

La cosa che più disturba è che i suddetti Eco & Co. abbiano anche esemplificato questo loro scetticismo sui complotti citando la questione della centrale del capitalismo, come una invenzione di complottisti. A questo proposito, Eco, con atteggiamento chiaramente derisorio, teneva a sottolineare che della Trilateral e del gruppo Bilderbeng se ne conoscono i membri. Ebbene? Perché mai dovrebbero nascondersi, sono tra gli uomini più potenti della terra, e certo non hanno ragione alcuna per nasconderlo, ed anzi essere membri di cotanti consessi conferisce loro prestigio e tutto ciò che ne segue.

Capovolgiamo ora la discussione. A cosa servono questi consessi? Perché si riuniscono con grande regolarità? Possibile che stiano lì solo per gustare qualche aragosta e qualche bottiglia di Kristal? Risulta ad Eco che i lavori di queste organizzazioni siano pubbliche o che lo siano sempre?

Io, e so di essere in minoranza, credo a questa cupola affaristico-mafiosa che ormai si è spinta al punto da imporre le proprie decisioni ai governi nazionali, perfino allo stesso governo USA.

La vicenda del vaccino antivirus A H1N1 è illuminante. Non solo come sappiamo l’OMS, temo all’unanimità, ha previsto una pandemia e raccomandato ai paesi di fare il vaccino, non solo quasi tutti i paesi, tranne la Polonia forse qualcun altro che non so, hanno ubbidito all’invito pressante dell’OMS, ma il tutto è avvenuto in un arco di tempo temporale abbastanza lungo, che ha consentito lo svolgersi di un dibattito pubblico che ha evidenziato l’assurdità della decisione assunta. Ricordo succintamente che l’OMS era consapevole del fatto che il virus non era per niente pericoloso, ma sollecitava egualmente la vaccinazione preventiva di massa nell’eventualità di una sua possibile mutazione verso forme molto più aggressive. Il punto dove casca l’asino è che nessuno può essere certo che il vaccino sviluppato per la forma nota del virus sarebbe stata efficace anche verso forme mutate. Che senso aveva allora dare un vaccino per il timore di una situazione effettivamente pericolosa, ma in cui l’efficacia del vaccino era tutta da dimostrare?

A meno di credere che tutti i governi siano costituiti da imbecilli, ma molto più imbecilli del Simonini del romanzo di Eco, è evidente che ci deve essere un piano mondiale per imporre l’acquisto di tali vaccini da parte dei governi nazionali. D’accordo, è una tesi che non si può provare, ma essa ha comunque il merito di dare una spiegazione a un fatto economicamente molto rilevante, che non può essere altrimenti spiegato.

Analogamente, non c’è nessuno che possa fornire uno straccio di argomentazione per giustificare nove anni di invasione dell’Afghanistan, di spiegare cosa ci stimo a fare in quel lontano paese oggi, quando è a tutti evidente che non v’è alcuna possibilità di catturare Bin Laden, che anzi altri dicono trovarsi tranquillamente in Pakistan. Qualcuno cerca di motivarlo come una misura necessaria per debellare il terrorismo lì dove esso nasce per tenerlo lontano da Europa ed America. In realtà, c’è ampio accordo sul fatto che un terrorismo esportato dall’Afghanistan non è mai esistito, che non ci sono riscontri obiettivi che la potenza terroristica afgana di cui pure non si può dubitare sia davvero organizzata in modo tale da essere esportata o esportabile. Titolavo provocatoriamente il precedente post sollecitando l’invasione dello Yemen, da dove è ormai certo che tentativi terroristici partono. Ormai, il senso comune si è talmente ottenebrato che i politici possono fare le affermazioni più assurde, come appunto quella che dobbiamo andare inseguendo il terrorismo nelle sue roccaforti (ma perché in Somalia no allora?), senza che essi vengono derisi e messi in silenzio. Non è allora ovvio ipotizzare che siano le industrie belliche che possono contare su commesse molto generose proprio a causa della guerra che lì è in corso, a costringere i paesi a stare in Afghanistan?

La realtà che vediamo attorno a noi è in sé assurda, e pensare che esita un centro di potere, articolato in modi che ovviamente ignoriamo, in grado di condizionare la politica mondiale, è davvero un passatempo per imbecilli, o piuttosto è lo stroncare ogni ipotesi di complotto ad essere un passatempo, forse anche molto remunerativo per vecchi tromboni?

giovedì 4 novembre 2010

A QUANDO L'INVASIONE DELLO YEMEN?

A quando, mi chiedo, l’invasione dello Yemen? Se davvero stiamo in Afghanistan per combattere il terrorismo lì dove potrebbe originarsi ed organizzarsi, allora, i recenti pacchi bomba, che si è accertato essere stati confezionati nello Yemen, dovrebbe portare alla logica conclusione che lo Yemen vada messo sotto controllo, e chi invita a non andare lì ad occuparlo è, similmente a chi invita a tornarcene dall’Afghanistan, un nemico dell’occidente, una specie di traditore della propria patria, un vero e proprio complice dei terroristi.

Aldilà del sarcasmo, spero evidente, del paragrafetto che precede, quando l’uomo si vorrà fare carico di ristabilire un nesso tra ciò che ha scelto di fare e le conseguenze di tali scelte? Quando sarà possibile giudicare una decisione assunta in base ai risultati ottenuti? Quando sarà possibile che i responsabili di decisioni errate siano chiamati a risponderne?

Le recenti vicende in Iraq sembrano mostrare il completo fallimento dell’invasione dell’Iraq, che tanti morti e distruzioni ha provocato. Oggi, a distanza di più di un anno dalle ultime elezioni, non è stato ancora possibile costituire un governo, il che è una metafora significativa dell’ingovernabilità in cui questo grande paese è piombato a seguito dell’intervento occidentale. Lo scontro tra le religioni, come si sostanzia negli attentati, oggi dei sunniti contro cristiani e sciiti, non mostra forse come il progetto di occidentalizzazione del più occidentale dei paesi del medio oriente (escluso ovviamente Israele, e forse il Libano), è fallito clamorosamente?

Forse però, aldilà certo della pena per le vittime di tali attentati, non dovremmo guardare così negativamente a questi avvenimenti. Forse in Iraq come nello Yemen, in Afghanistan come in Pakistan, il processo di globalizzazione sta incontrando ostacoli robusti, forse insuperabili. La globalizzazione non è un destino, è una scelta, non è un effetto inevitabile dei progressi tecnologici. Non dobbiamo erroneamente credere che dal fatto che essi costituiscono un supporto essenziale alla globalizzazione, ciò significhi automaticamente che ne siano la causa, o peggio l’unica causa. In fondo, i pacchi bomba costituiscono una forma di globalizzazione, la globalizzazione del terrorismo. Per il momento, i grandi capitalisti non sono ancora riusciti a globalizzare la loro ideologia, mi pare un buon passo per un progetto di resistenza alla globalizzazione.

mercoledì 3 novembre 2010

DAVVERO TUTTO CHIARITO SUL RUBYGATE?

La dichiarazione del Procuratore Capo di Milano Bruti Liberati, rilanciata sui giornali come un chiarimento della situazione, nella realtà non chiarisce nulla. Ciò che ci saremmo aspettati dal PM era una ricostruzione quanto più possibile fedele degli avvenimenti di quella lontana notte del 27 maggio. Nulla di tutto questo, Bruti Liberati sembra assolvere senza darsi la pena di argomentarlo, i comportamenti dei funzionari della Questura di Milano in quella ormai famosa notte, con l’aggiunta certo significativa delle parole “abbiamo chiuso questa fase dell’inchiesta”. Ciò significa evidentemente che l’inchiesta è tuttora aperta, se n’è solo chiusa una fase.

Voglio essere chiaro, senza possibili ambiguità: in assenza di chiarimenti sul ruolo svolto dal magistrato Fiorillo della Procura minorile, a cui spettava ogni decisione in materia, la Procura di Milano per me, non solo non chiarisce nulla su quegli avvenimenti, ma al contrario autorizza le illazioni più maliziose sulle motivazioni reali della dichiarazione data dallo stesso Procuratore Capo, in un settore così delicato come il rapporto tra potere giudiziario (Procura) e potere esecutivo (Questura) che, come noto, svolge anche le funzioni di Polizia Giudiziaria. Ai procuratori ricorderei come anch’essi devono comportarsi come si suole dire della moglie di Cesare.

In rete, si immagina con una certa verosimiglianza che sarà la Minetti a dovere subire i danni maggiori dalla vicenda. A me non basta, da cittadino voglio sapere in base a quale ricostruziione dei fatti, si possa affermare che non ci siano addebiti a carico della Questura di Milano.

Questa dichiarazione del PM così laconica, che dovrebbe chiarire ed invece tende ad opacizzare i fatti, che dovrebbe dire una parola finale, ed invece, suggerendo un‘ulteriore fase di indagine, tiene aperta la situazione verso sviluppi ignoti e forse ancora da definire, mi sembra una pessima pagina scritta dalla Procura di Milano.

lunedì 1 novembre 2010

LA SPALLATA FINALE CHE RITARDA

Giorni di grande movimento e speranza per l’antiberlusconismo, il patriarca di Arcore è riuscito nel miracolo di sperperare l’enorme potere che nel 2008 gli elettori, soprattutto quelli che si erano astenuti, con il concorso di una legge elettorale post-democratica, gli avevano consegnato. Lo attaccano da tutte le parti, solo quelli a libro paga resistono, un manipolo che lo utilizza come ultimo usbergo prima della resa e la fine delle loro improbabili carriere politiche.

Eppure, ancora oggi, egli resiste e nessuno può ragionevolmente prevedere i modi e i tempi della sua caduta. Ciò che manca, è il coagularsi del campo avverso. Bossi e Tremonti scalpitano per farlo fuori, così pure Fini, e tanti altri nel suo stesso partito. Naturalmente, l’opposizione spinge nelle sue varie componenti che, in ogni caso, continuano a procedere in ordine sparso. Né mancano i poteri extra-parlamentari, la CGIL come la Confidustria, la Chiesa come consistenti strati di opinione pubblica variamente organizzata.

La spiegazione di questo apparente paradosso sta nella logica del cerino. Il detto, come noto, prende origine dalle guerre di posizione, come tipicamente la prima guerra mondiale, e il pericolo nell’accendere e nel tenere in mano il cerino acceso utilizzato quando si voleva fumare, a causa dei cecchini che nell’oscurità potevano localizzare i soldati nemici proprio dall’esile fiammella del cerino. Da qui, la conseguenza a mostrarsi restii a tenere un cerino acceso in mano. Ebbene, è ciò che sta accadendo adesso, gli avversari di Berlusconi sono ben divisi tra loro, e sono restii a dare la spallata finale, esitano perché temono di essere a loro volta impallinati e diffidano degli altri, di come gli altri potrebbero sfruttare a loro vantaggio il loro tentativo una volta che divenisse esplicito. Ciò ovviamente origina dal fatto che gli interessi sono ben lungi dal coincidere, e non è escluso che alcuni tra loro possano ancora utilizzare Berlusconi per motivi tattici. Per questo, malgrado questo coro di critiche al premier, ce lo dobbiamo ancora sopportare e lo sbocco prossimo venturo è tuttora roba da astrologi.

Ciononostante, prende sempre più corpo l’ipotesi di un nuovo governo, aggettivato nelle maniere più diverse, una specie di entità imprecisata, come quando due amanti decidono di fare un figlio, ma ne ignorano tutto, fattezze, sesso, carattere, eventuali malformazioni, e così via. Il punto è se basti volere un nuovo governo perché questo nasca, in una situazione di sostanziale surplace, per cui non solo come ho detto si ritarda a dimissionare Berlusconi, ma non si elabora e propone alcuna specifica ipotesi di legge elettorale, si chiede qualche intervento di emergenza in economia, evitando accuratamente di specificarne i contenuti. Apparentemente, non si rendono conto che così sarà più difficile gestire un’eventuale fase post-Berlusconi prima delle elezioni. Ancora oggi Bottiglione è stato chiarissimo in proposito. Egli dice di voltare pagina dimissionando questo governo, e poi istituendo un tavolo per la ricostruzione. Peccato che non si sappia non solo quali debbano essere gli argomenti di questo fantomatico tavolo, ma addirittura se ne ignorino i partecipanti, tanto che qualche giornalista lo interpreta come la possibile riproposizione dello stesso premier al timone di un nuovo governo.

Non v’è dubbio che questo governo pre-elezioni stia comunque assumendo sempre più il significato di una specie di nuovo CLN, che in una parte dell’opinione pubblica lo si veda come un lavacro della politica italiana, di una nuova partenza. Anche il documento di “Fare futuro”, associazione culturale vicina a Fini, evoca questo spirito di rinascita.

La mia opinione è ben differente: io vedo proprio in questa polarizzazione pro e contro Berlusconi l’impossibilità di suscitare nel parlamento e nel paese un dibattito politico di carattere generale, in grado di confrontarsi innanzitutto con la crisi economica e le sue conseguenze su un piano politico più generale, tra cui domina il problema della sovranità nazionale in un mondo globalizzato, del rapporto tra paesi aderenti ed UE, del rapporto infine tra UE, USA, Cina ed altri grandi potenze nazionali e sopranazionali con la multinazionale della finanza che ormai ne sacrifica e ridimensiona i poteri effettivi.

Questo spirito da CLN sembra così avere come seconda vittima dopo Berlusconi, la stessa democrazia nel nostro paese. L’aspetto più antidemocratico in questo paese è impersonato da Tremonti e dalla sua determinazione ad applicare al nostro paese i diktat della grande finanza, da cui egli trae potere e legittimazione internazionale. Così, senza una discussione franca e resa il più possibile pubblica, rischiamo di togliere dal governo il patetico giullare messo a calpestare il palcoscenico, ed a tenerci i registi che sideranno ancora tranquillamente a determinare la vita delle persone.