giovedì 31 marzo 2011

IL VITALE BISOGNO DI POLITICA NEL MONDO

L’amico di blog Alberto, in un suo commento, mi rimproverava bonariamente di aver messo troppa carne al fuoco nel precedente post. Naturalmente, ha perfettamente ragione, e del resto me n’ero reso conto da me che si trattava di un post denso, in cui finivo per tirare dentro eventi così distanti sia spazialmente che apparentemente dal punto di vista politico da limitare i possibili criteri di accostamento tra loro alla coincidenza temporale.

Eppure, per me era assolutamente necessario trattare argomenti così differenti contemporaneamente perché è proprio dall’addensarsi da tanti segnali apparentemente eterogenei che ricavo l’impressione che l’umanità sta per affrontare una svolta, questa sì epocale, nella sua lunga storia.

La prima svolta riguarda la scelta del profitto come criterio primo ed indubitabile della politica. Si potrebbe argomentare, ma non nella maniera succinta che la forma post mi impone, che, una volta che questo criterio viene assunto come dogma inviolabile, si decreta immediatamente la fine della politica, ed è davvero uno di quei paradossi della storia che sia proprio il capitalismo a determinare, o a provare a determinare, la fine della politica che Marx sognava per l’auspicata società comunista. Su questa questione del profitto, e su la questione a queste strettamente correlata dell’aumento della ricchezza prodotta (il famoso PIL), io credo si giochi la partita decisiva dell’umanità, e così su una tale questione non ci possono essere né se né ma: o ammettiamo che questi potentissimi capitalisti che governano il mondo, mettendo ormai in crisi lo stesso concetto di sovranità nazionale, sono in fondo dei bambinoni che trattano il mondo come se fosse un gigantesco Risiko o Monopoli, che si occupano di questioni ben più grandi di loro, e pensano che le scelte possano essere dettate dai loro meschini interessi di bottega, oppure, se accettiamo di subire i loro ricatti, con cui ci minacciano di farci diventare più poveri, ed allora una rivoluzione mondiale si impone. Essi e gli innumerevoli servi che utilizzano per perpetuare le loro manovre fondamentalmente criminali non hanno alcuna autorità morale, e neanche politica per imporre scelte che, come si vede nei disastri ambientali che ormai periodicamente avvengono in tutto il mondo, ben presto porteranno l’umanità in scenari di pura sopravvivenza, nel mondo devastato che c’hanno, credo con sufficiente realismo, disegnato scrittori e registi di fantascienza.

Marx sbagliava a desiderare la fine della politica, perché questo è appunto il sogno dei capitalisti, e un altro aspetto paradossale è che il mezzo ottimale per ottenere ciò è la democrazia, che pure significa partecipazione di tutti alle scelte collettive. Se però si accetta il criterio della massima ricchezza complessiva, allora la politica si degrada a scelta tra l’essere parte di una tifoseria o ad un’altra, esattamente come avviene per le squadre calcistiche.

La democrazia allora può forse rivivere se nuovi popoli si affacciano ad essa, se con occhio nuovo altre persone guardano alle potenzialità di drastico cambiamento che il quadro istituzionale democratico può indurre se depurato da quel grande fratello che attraverso i mass media hanno installato nel nostro stesso cervello, indirizzandoci verso il pensiero unico, quello che vede il mercato come misura di tutte le cose, e così sottraendoci un reale potere di scelta appunto di natura politica.

martedì 29 marzo 2011

FUKUSHIMA E ISLAM: LE NOSTRE FRAGILI CERTEZZE

Non v’è dubbio che gli eventi che occupano le prime pagine dei giornali di tutto il mondo attirino le nostre attenzioni. A nessuno sfugge l’importanza del disastro nucleare di Fukushima da una parte, e i grandi cambiamenti politici che osserviamo in una gran parte del mondo islamico.

Ciò che invece temo, è che le lenti con cui leggiamo questi eventi non siano adeguate. Temo, in altre parole, una sorta di pigrizia mentale, di inerzia nella capacità di intendere come questi fatti mettano in crisi le nostre concezioni filosofiche, quella visione del mondo che precede le opinioni che manifestiamo anche a noi stessi.

In particolare, e qui torno su aspetti che chi mi segue già conosce, dovremmo infine chiederci se la scommessa illuminista, il concetto stesso di modernità, i nostri modelli di riferimento di istituzioni politiche siano adeguati ad affrontare la realtà che ci consegnano secoli di sviluppo tecnologico.

Partiamo dai recenti fatti del Giappone. Credo che siamo tutti concordi nell’apprezzare il senso di responsabilità di questo popolo, la capacità di affrontare con dignità eventi così catastrofici. Potremmo credo concludere che in nessun altro luogo al mondo esiste un substrato culturale adatto a gestire con adeguata efficienza e rigore processi tecnologici ad alto rischio. Ebbene, le notizie che ci giungono sono molto preoccupanti, sembra ormai inevitabile la diffusione ambientale non soltanto dei prodotti della fissione radioattiva, ma dello stesso combustibile nucleare.

Come è stato detto, il rischio nucleare ha una qualità differente dagli altri. Ciò che in particolare terrorizza, o dovrebbe terrorizzarci, è che gli effetti di un incidente nucleare possono protrarsi anche per decine di migliaia di anni, un periodo cioè ben più lungo della stessa storia dell’umanità, da quando i nostri progenitori ci hanno lasciato testimonianze della loro vita. Sembra una approssimazione accettabile dire che questi disastri hanno una durata illimitata, in quanto nessuno di noi può spingere il suo sguardo così lontano nel tempo. Chi provoca un disastro nucleare, non ha modo di risolverlo, le reazioni nucleari non richiedono un’attivazione esterna, hanno un loro decorso indipendente dalle condizioni esterne, e quindi non influenzabile. L’unica contromisura è la loro diluizione e il loro distanziamento, non v’è altro rimedio, è come un fuoco inesauribile, insensibile a qualunque idrante.

In Giappone le polemiche infuriano sulla gestione delle centrali da parte della Tepco, sia prima che dopo il terremoto. A me tuttavia pare che il bersaglio delle polemiche sia sbagliato, che sia miope limitare la sostanza dei problemi alle responsabilità tutte da accertare da parte di alcuni managers. Il problema a me pare molto più di fondo, se cioè sia possibile attribuire a qualcuno, chiunque egli sia, una responsabilità così grande, ed in particolare se a una ditta privata, il cui fine intrinseco è fare profitti, sia possibile od auspicabile affidare responsabilità immani come quella di condizionare il futuro stesso dell’umanità. Se davvero consideriamo come un disastro nucleare abbia conseguenze ben più terribili di una stessa guerra, allora comprendiamo come ormai gli stati nazionali abbiano un ruolo ben più modesto rispetto al potere economico e finanziario in mano a multinazionali di ogni tipo. Non avverrà allora che le guerre in futuro saranno appaltate a una ditta privata? Mi chiedo se non venga meno lo stesso concetto di stato nazionale e di sovranità nazionale.

Da un differente punto di vista, potremmo dire che la guerra, tipicamente considerata come il male assoluto, ridimensioni il suo significato negativo quando confrontata con un disastro nucleare, che è un evento assolutamente più terribile della guerra, come dovrebbe ormai essere chiaro a tutti. Qui, l’emozionalità non c’entra nulla ovviamente, c’è piuttosto la ragionevolezza rispetto a un meccanismo perverso ed in definitiva folle che pensa che tutto vada commisurato a un fattore così futile come il profitto. Ecco, denotare come futile il profitto, credo che possa costituire un elemento di una nuova visione del mondo.

Altri avvenimenti stanno avvenendo che mettono in crisi le nostre certezze, il nostro considerarci comunque il centro del mondo, l’occidente delle nazioni più sviluppate come il motore della storia. Già la crisi finanziaria internazionale c’aveva mostrato la fragilità delle nostre economie, ben più colpite e danneggiate dalla crisi rispetto ai paesi cosiddetti emergenti, quali Cina, India e Brasile, per fare gli esempi più significativi. Allo stesso modo, le rivolte nel mondo islamico ci mostrano un protagonismo di quei popoli che in realtà c’ha stupito, c’ha colti impreparati. Trovo in quest’ambito estremamente interessante il contrasto che si è manifestato in quella che con qualche difficoltà viene ancora considerata la sinistra, soprattutto quando riesce a dare luogo ad un dibattito (vi segnalo a questo proposito il sito “nazione indiana” con questo post e quest’altro, un po’ la continuazione del primo), in cui ho letto, in mezzo a tante sciocchezze, tentativi di approfondimento veramente validi. Un elemento che trovo interessante è appunto quella della eccentricità di questi moti popolari, rispetto all’occidente. In fondo, guardare con fiducia o con sospetto a questi avvenimenti, è funzione della disponibilità mentale ad accettare che il centro del mondo tenda a spostarsi fuori dai nostri confini. Se crediamo che ciò non possa avvenire, allora la nostra attenzione è centrata sulle mire di Francia e Gran Bretagna, ma se siamo disposti a considerare questa possibilità, allora queste stesse mire possono essere considerate come un tentativo, forse perfino disperato, di paesi in declino di mettere il proprio cappello su eventi che sfuggono al loro controllo.

C’è ancora un elemento che emerge alla nostra attenzione, anche se le resistenze qui diventano fortissime, e cioè se la nostra concezione della democrazia come bene assoluto non possa entrare in crisi. Le democrazie occidentali oggi sono quelle che hanno consentito che il potere effettivo si concentrasse in pochissime mani, mettendo in crisi perfino il concetto di sovranità nazionale. Esse hanno consentito che un folle criterio di profitto determinasse le scelte più importanti e vitali per l’intera umanità, come detto a proposito dei disastri nucleari. Hanno infine consentito che tante guerre scoppiassero in nome dell’esportazione della democrazia. Non dovrebbe ogni persona ragionevole interrogarsi sulla stessa validità del concetto di democrazia, almeno nel modo disinvolto in cui è stata utilizzata per perpetuare politiche così cieche e distruttive?

Rispondere a questi interrogativi, richiede discussioni infinite, ed io per il momento preferisco fermarmi qui, alla semplice enunciazione di domande che trovo di importanza fondamentale.

sabato 26 marzo 2011

MA LAMPEDUSA PER MARONI FA ANCORA PARTE DELL'ITALIA?

Ormai la cosa è palese, il ministro dell'Interno Maroni ha consapevolmente e cinicamente utilizzato Lampedusa inun suo disegno politico nei confronti dei migranti.
Per chi l'avesse dimenticato, in occasione dei primissimi sbarchi, Maroni aveva ordinato di tenere chiusa la struttura di accoglienza nell'isola, senza alcuna spiegazione plausibile. Solo dopo che la dimensione quantitativa degli arrivi aveva assunto le proporzioni di una vera invasione, finalmente si decise a farla aprire, insomma già quando essa risultava sottodimensionata rispetto alle persone da ospitare.
All'inizio di questa settimana, si cominciò a parlare di una ripartizione di migranti in tutta Italia, tramite la richiesta a ciascuna regione di definir una loro quota di accoglienza. Era forse cambiata la linea del governo? Devo confessare che ci sono cascato anch'io, pensavo alla cosa più ovvia, che tale ripartizione fosse in funzione del problema più urgente. Niente di più sbagliato, Maroni pensava ai profughi libici, ben distinti dai tunisini, questi considerati automaticamente, e quindi saltando le procedure previste che sono necessariamente individuali, clandestini.
A questo punto le cose sono tristemente chiare, l'Italia affronta il problema dei profughi libici in maniera solidale, mentre alla sola Lampedusa viene attribuita la funzione di affrontare il problema dei migranti presumibilmente in maggioranza tunisini che sono già sbarcati in Italia.
Lampedusa, per la sua stessa dimensione superficiale modesta, evidentemente non può farsi carico di questo immane compito, ma la cosa vergognosa è proprio questa, come ha poi candidamente confessato La Russa giovedì scorso ad "Annozero": bisogna che questi migranti si trovino in condizioni inumane di soggiorno per potere scoraggiare altri arrivi, questa è la spiegazione reale di una gestione altrimenti assurda di una emergenza di queste proporzioni.
Ora, queste scelte governative hanno due aspetti entrambitanto inquietanti da rendere difficile stabilire quale lo sia di più.
Il primo è quello nei confronti dei migranti, trattati come animali, a cui si assicura soltanto acqua e cibo appena sufficiente, ma li si lascia srenza un tetto, senza un letto e senza servizi igienici, che mi pare rappresentino le dotazioni di base per qualsiasi essere umano.
Il secondo aspetto riguarda il modo di concepire l'isola di Lampedusa ed i suoi abitanti, che il ministro non ha esitato un istante a sacrificare sull'altare di una poltica cinica e spregiudicata. Al,lora, la domanda che sorge è: chi ha dato l'autorità a questo governo di stabilire che questo lembo di terra non è parte del suolo nazionale, che non gode della protezione dell'intera nazione, e che può essere impunemente abbandonato al suo destino cometassello in una strategia di contrasto alla migrazione? Un governo minimamente consapevole dei propri doveri verso la propria comunità nazionale dovrebbe al contrario valorizzare quelle terre di confine, quella parte del suolo nazionale che, proprio per la loro posizione sul confine, dovrebbero essere più fortemente rivendicate come parte del paese, ed espressamente difese e favorite.
Sì, se fossi abitante a Lampedusa, sarei terribilmente incazzato, e trovo il loro atteggiamento anche ospitale verso chi è sbarcato molto dignitoso e coraggioso.

giovedì 24 marzo 2011

ULTERIORI RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE LIBICA

Ritorno sulle questione dell’intervento in Libia, perché non mi piace la maniera in cui rischia di svolgersi il dibattito, una maniera che reputo poco chiara.

Non mi piacciono le motivazioni dei non-interventisti leghisti, che, con mentalità da bottegai, calcolano i danni da profughi e dalla minore accessibilità ai combustibili fossili libici. A questo proposito, non capisco perché il perdurare di Gheddafi al potere dovrebbe portare meno profughi in Italia. La stagione dell’infame accordo Italia-Libia è definitivamente tramontato, anche nel caso di permanenza al potere di Gheddafi, ci sarebbero degli sconfitti, che tenterebbero in ogni modo di scappare, magari verso i paesi confinanti, e poi provando a sbarcare in Europa. Se davvero, ed è tutt’altro che una certezza, dovesse esserci in nord Africa una svolta democratica, allora si potrebbe sperare in maggiore occupazione e prosperità in quei paesi, con conseguenti minori motivazioni all’emigrazione verso l’Occidente. In ogni caso, questa mentalità cinica, in quanto trascura gli aspetti più propriamente umani, è anche stupida perché fa conti semplici su una questione molto complessa e multiforme.

Devo però aggiungere che non mi piace neanche quella non-interventista che si sente a sinistra. Ciò che non mi piace non è ovviamente leggere opinioni differenti dalle mie, ma l’apparente incomprensione dei motivi delle due differenti posizioni sull’argomento, di tutte le inevitabili implicazioni di ciascuna delle due posizioni.

Una prima chiarificazione preliminare è necessaria, e cioè il ruolo con cui ognuno di noi interviene nella discussione. Non siamo capi di stato, non siamo opinion-makers, non siamo neanche responsabili di importanti associazioni internazionali umanitarie. Anche questo è un elemento fondamentale nel determinare non certo l’opinione ma il modo stesso di manifestare la propria opinione: come comune cittadino, io mi trovo libero di esprimermi con grande franchezza e sincerità, cose che non mi potrei permettere se rivestissi un ruolo deliberativo. Vedo che molti citano Gino Strada, ma vi assicuro che se fossi stato io nei suoi panni, avrei fatto le sue stesse identiche dichiarazioni. Pensate che una persona che ha fatto di “Emergency” il suo scopo vitale possa dichiarare che l’ingerenza in un paese è lecita? Emergency non se lo può permettere, chi la rappresenta deve essere in condizione di parlare con i più schifosi criminali di guerra del mondo per potere svolgere la propria missione. Sarebbe un vero suicidio se Strada si mettesse a sostenere una posizione di ingerenza: invece di essere rappresentante di un’organizzazione umanitaria, risulterebbe una specie di ambasciatore dell’occidente: chi allora gli darebbe credito ed ospitalità? La limpida scelta di Strada (c’è bisogno di precisare quanta ammirazione provo nei suoi confronti?) di mettere al centro l’uomo aldilà dei suoi atti (curare anche chi ha appena commesso un attentato mortale verso altri uomini), gli impone una radicalità pacifista che altri, ad esempio io stesso, possono considerare con maggiore flessibilità.

Un altro equivoco dobbiamo eliminare: nessuno crede davvero che la Francia e gli altri siano intervenuti per motivi umanitari, ciò è fuori discussione, e quindi ricordarlo diventa un elemento di confusione e di fraintendimento. Analoghe considerazioni potrebbero farsi per l’ambiguità della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU: quella risoluzione non cambia di un’acca la sostanza delle questioni in discussione. A corollario di questa argomentazione, si opera un raffronto tra i paesi occidentali e il regime di Gheddafi: ho già chiarito che dei paesi occidentali, e meno che mai del mio, non mi fido per niente, e che quindi questo raffronto non mi interessa. Mi interessa però che il giudizio fortemente negativo verso l’occidente sia esteso pienamente a Gheddafi. Non è quindi sulla base di una presunta superiorità morale dell’occidente che ha sposato la posizione interventista.

Un altro elemento rilevante è costituito dal raffronto con le vicende dell’Iraq e dell’Afghanistan. Questo raffronto non è valido, almeno quando si considerano le condizioni iniziali. Sull’Iraq e sulla presunta presenza di armi di distruzione di massa, era chiaro a tutti, almeno a quelli che volevano capire, che si trattava di una bufala pazzesca. Per l’Afghanistan, la motivazione era quella di catturare Bin Laden: anche lì, fummo facili profeti a prevedere che la cattura sarebbe stata impossibile e che una tale motivazione non teneva. In ogni caso, ognuna di queste tre situazioni è profondamente differente dalle altre, ed accostarle può nuovamente essere solo fonte di fraintendimento.

In Iraq, non c’era nessun buono che ci chiamava dall’interno, era un paese di cattivoni che presto ci avrebbero ucciso con armi micidiali. Si trattava di una storiella che non pretendeva neanche di essere creduta, tanto era stupida e manifestamente infondata. La motivazione economica e geostrategica era praticamente enunciata sin dall’inizio.

In Afghanistan, c’era almeno un conflitto già in corso anche se tra due cattivi, ma uno lo era di meno. Al governo talebano rimproveravano la custodia di Bin Laden, e parlavano di un’operazione lampo.

Qui, l’elemento che fa la differenza, e la fa, checchè se ne dica, è la sollevazione popolare in tanti paesi arabi, andata a buon fine, anche se l’esito definitivo è tutt’altro che certo, in due di questi.

Alla fine cosa fa la differenza? La natura di ciò che si è verificato in Cirenaica, o forse dovremmo meglio dire nella sua fascia costiera. Ciò che probabilmente più ci divide è il giudizio sugli insorti, e fondamentalmente se siano al soldo degli inglesi, o magari espressione di interessi tribali, o se siano un vero movimento popolare, portatore di esigenze condivisibili. I dati a disposizione sono insufficienti per esprimere una posizione certa, dubbi ne abbiamo tutti. Pare ad esempio provata la presenza di soldati inglesi al momento della rivolta. Vorrei però aggiungere che ciò non implica nulla, tante volte nella storia un’autentica volontà popolare ha potuto esprimersi solo in virtù dell’appoggio di potenze esterne. Anche per quanto riguarda la struttura tribale della Libia, ci sono opinioni contrastanti, ma io credo che Gheddafi, in quarant’anni di potere ininterrotto, si sia sforzato di confermare il proprio potere statale attraverso un sistematico indebolimento dei poteri tribali che, evidentemente, ne diminuivano il proprio, e Gheddafi si è dimostrato un governante abile.

Pur tra mille dubbi, io preferisco coltivare la speranza in queste persone, in una loro autentica voglia di riscatto dagli ultimi decenni di dispotismo. A supporto di tale ipotesi, ci sta la natura strutturale dei cambiamenti di modi di vita in questi paesi, le TV ed internet, la forte spinta demografica che vede una popolazione giovane che giustamente lotta per manifestare la propria presenza in società incartapecorite da lunghi periodi di assenza di libertà.

Qualcuno mi potrebbe obiettare che la mia speranza si basa su azioni che porteranno morti innocenti. Vorrei però dire che i morti ci sarebbero stati anche nella situazione alternativa. Bisogna capire che anche l’omissione è un’azione, e che lasciare che Gheddafi regolasse a suo modo i conti con i rivoltosi è anch’essa una scelta. Per l’uomo, in quanto essere morale, la scelta è un obbligo, un destino inevitabile , a cui non possiamo sottrarci. I morti ci saranno, le potenze occidentali tenteranno di addentare la ricca torta delle risorse di quel paese, ma il punto è se ci riusciranno. Magari scommettere non è proprio il meglio quando i costi sono così alti, ma rinchiudersi in un atteggiamento scettico, che, a partire da una condivisa presa d’atto dell’ennesima azione di potere dell’occidente, non ne vede però l’obiettiva debolezza e contraddittorietà, l’incapacità della costruzione di un loro fronte comune, tutte condizioni che dovrebbero permettere una visione più positiva della situazione, di come qualche spiraglio di speranza si sia aperto, e di come tutto ciò ci riguardi. Ricordo ai più distratti che in ogni caso noi lì siamo coinvolti fino al collo, sia per l’infame patto Libia-Italia, sia perché l’ENI è da lì che ci manda i combustibili fossili fino alle nostre abitazioni. La politica dello struzzo, che fa finta di non vedere la situazione reale, non mi pare possa essere considerata un’alternativa accettabile.

martedì 22 marzo 2011

IL CAOS IN LIBIA E IN EUROPA

Credo che la giornata di ieri sia stata molto illuminante sullo stato effettivo dell’operazione Libia. Non sappiamo certo come andrà a finire, anzi da questo punto di vista le cose si stanno ulteriormente ingarbugliando, ma nello stesso tempo sembrano aprirsi varchi di verità sul passato, cioè sulle origini della situazione attuale.

Una cosa sembra ormai chiara, direi a questo punto scontata: non v’è alcun piano predefinito degli stati occidentali nei confronti della Libia, ed anche le altre grandi potenze (vedi Russia) brancolano goffamente, tanto da causare uno degli scontri più espliciti tra Presidente e premier. D’altra parte, il ruolo alquanto defilato tenuto dagli USA, i dissensi intra-europei tra una Germania non-interventista, una Francia ultra-interventista, e un’Italia, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, titubante, diciamo timidamente interventista, e sembrerebbe addirittura già pentita, è evidente che di programmato non c’è proprio nulla.

Per evitare equivoci, non dico che le motivazioni dell’intervento non siano chiare, anzi è evidente che si tratta di motivazioni economiche e geopolitiche, anche se inquinate da motivazioni di politica interna, soprattutto per quanto riguarda Italia, Francia e, per altro verso, la Russia. Altrettanto chiaro è che i dissensi siano anch’essi correlati alla contrapposizione di interessi economici tra loro conflittuali.

Dovremmo allora concludere che le cose in Libia si siano davvero sviluppate spontaneamente, a furor di popolo, e d’altra parte la natura popolare dei fatti di Tunisia ed Egitto sembrano fuori discussione. Le potenze occidentali hanno considerato l’occasione propizia per fare i propri interessi, magari a detrimento di interessi dei propri alleati, tendendo cioè a sfruttare un vuoto di potere apparente che si andava configurando in quel paese. Nello stesso tempo, dobbiamo ammettere che comunque esse stiano venendo al traino del popolo libico, così da non avere avuto il tempo di mettersi d’accordo tra loro sulla spartizione delle spoglie.

Io quindi sto dalla parte degli insorti libici, e non sto certo dalla parte di Sarkozy, ma preferisco un contesto evolutivo a un contesto immobile, come si sarebbe configurato nel caso che Gheddafi avesse pacificato il proprio paese. Capisco che le evoluzioni di cui parlo scontano una certa quantità di sangue versato, ma spero che non vorremo essere così ipocriti da misurare il sangue versato da parte delle potenze occidentali e di girarci da un’altra parte per evitare di misurare il sangue versato da parte di Gheddafi: sempre sangue umano è!

Alla fine, mi rimane il dubbio che le differenze di opinione che si osservano a sinistra siano per una parte consistente dovute a un differente giudizio su Gheddafi: chi come me lo vede come un despota crudele, che cinicamente porta avanti i propri personali interessi e i propri stessi familiari, preferisce vederlo destituito. C’è poi una certa opinione di sinistra che vede in Gheddafi un abile capo di stato che è riuscito a tenere testa al diavolo, cioè alle potenze occidentali, e quindi chiude gli occhi davanti alla sua politica interna, pronto quindi a lasciargli fare ciò che deve nel suo paese per riportare ordine.

In ogni caso, la situazione è assai incerta, e ciò è in sé un fatto positivo: se nessuna prospettiva specifica è già stata decisa da chi comanda nel mondo, allora ci possono essere speranze di una soluzione a questi sgradita, ed è ciò su cui, pur con tutte le difficoltà che ho detto, risento di puntare.

lunedì 21 marzo 2011

LA SENTENZA SUL CROCEFISSO

Il giudizio d’appello sul crocefisso della Corte di Giustizia europea e stato aspramente criticato. Colpisce soprattutto il testo della sentenza che in sostanza derubrica il crocefisso a semplice simbolo identitario. Come è stato detto, ciò significa che il crocefisso viene assimilato alla pizza o agli spaghetti al pomodoro, simboli di una certa cultura nostrana.

Condivido totalmente questo giudizio, ma mi chiedo se la Corte non ha poi detto la verità. Mi chiedo insomma se il significato religioso, di mistero religioso che il crocefisso dovrebbe avere, non sia già cessato da tempo, e che quindi solo un atteggiamento ipocrita consente ancora di accostargli un contenuto di fede religiosa.

La mia opinione è che, certo, i credenti dovrebbero essere contrariati da questa sentenza, ma in fondo anch’essi sono “uomini di mondo”, e queste cose le sanno. La Chiesa cattolica si è tanto battuta su questa questione, per motivi di potere, gli stessi motivi che la costringono a fare patti con Berlusconi, che, anch’egli “uomo di mondo”, della religione se ne frega allegramente, ma dei provvedimenti che stanno a cuore alla Chiesa per motivi finanziari e per motivi di egemonia culturale invece se ne occupa, eccome!

Il crocefisso negli edifici pubblici è il simbolo, non tanto delle nostre radici culturali, quanto del potere della Chiesa Cattolica, a cui si conferma in Italia il trattamento speciale, quello che neanche i padri costituenti ebbero il coraggio di toglierle, accogliendo integralmente i Patti Lateralensi.

sabato 19 marzo 2011

LIBIA, UNA SCELTA SOFFERTA

Come avrei desiderato che i libici ce l'avessero fatta da soli a liberarsi di Gheddafi! Pensate se in Libia fosse andata come in Tunisia e in Egitto, processi in fieri e la cui dinamica è tutt'altro che scontata, ma che mostrano certo aspetti positivi.
E invece, obtorto collo, devo convenire che di un intervento esterno non se ne può più fare a meno. Non che io mi fidi dei governi occidentali più che di Gheddafi, ma il coinvolgimento della nostra nazione è già nei fatti a causa della nostra vicinanza, dei nostri pregressi coloniali e dei nostri attuali rapporti economici. Le nazioni islamiche continuano a bruciare, oltre che in Libia, anche nello Yemen, in Siria e nel Bahrein, e non servirebbe a nulla girarci da un'altra parte.
Non è certo una situazione che mi piace, ma essa va comunque governata. L'impegno, che oggi inizia e non si esaurisce certo nella scelta interventista, consiste nel far rispettare i limiti della missione e complessivamente l'esito delle vicende a cui stiamo assistendo, imponendosi quindi un'attenzione continua ed accurata, senza lasciare tutto nelle mani di governi ed eserciti.

giovedì 17 marzo 2011

VIVA L'ITALIA, VIVA LA SUA COSTITUZIONE REPUBBLICANA!

Ho voluto espressamente postare oggi questo breve scritto come una testimonianza, una specie di risposta ad un appello.

Se ammettiamo che la costituzione, pur con inevitabili limiti ed errori, sia condivisa e condivisibile, allora potremmo essere italiani in quanto ci riconosciamo in essa. La destra al governo si divide tra sedicenti secessionisti e mercanti in attesa del migliore offerente, ed entrambe queste parti sono impegnate ad attaccare la costituzione. In questa situazione, gridare "Viva l'Italia" significa essere contro costoro, essere di parte, ma nello stesso tempo essere per tutti.

E proprio perchè ritengo che i distinguo che vedo a sinistra su questa festa siano anche inconsapevolmente dovuti ad individualismo piuttosto che a cosmopolitismo, dirò:

"Viva l'Italia, viva l'Europa, viva tutto il mondo!". In questa versione di patriottismo, di patriottismo allargato e di cosmopolitismo, saremo certo tutti d'accordo, o no?

mercoledì 16 marzo 2011

LA POLITICA COME SPETTACOLO

Oggi vorrei accostare due temi dell’attualità politica apparentemente senza alcun legame tra loro, mostrando come tutto ciò che ci viene comunicato da talk-shows televisivi e grande stampa costituisca puro spettacolo, nascondendo ben altre finalità che non vanno rivelate.

Cominciamo dalla vicenda del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia che si festeggerà domani, e del vergognoso atteggiamento tenuto dai consiglieri della Lega ieri al Consiglio Regionale della Lombardia. Come saprete, i leghisti sono usciti dall’aula quando si è intonato l’inno di Mameli. Ebbene, questo rientra in una politica-spettacolo. Nello stesso momento in cui la Lega è diventato un partito nazionale, mostrando di avere ben assimilato i costumi romani, nello stesso momento in cui ha trasformato la propria scommessa federalista in una farsa, attraverso provvedimenti legislativi che affossano ogni prospettiva federalista e servono soltanto ad aumentare le tasse senza farsene accorgere, nello stesso momento in cui al familismo di Bossi si aggiungono episodi acclarati di collusione con organizzazioni criminali, l’unico modo per mantenere i consensi è questo agitare scompostamente atteggiamenti secessionisti, a cui essi sono i primi a non credere, costituendo proprio per loro una prospettiva molto declamata ma per niente desiderata e perseguita. In sostanza, Bossi tiene famiglia e deve sistemare amici e parenti, tutta una classe di dirigenti intermedi va ad occupare posti di potere non disdegnando rapporti anche col diavolo pur di pensare ai propri personali inconfessabili interessi, e alla base leghista, come noto di bocca buona, si fa credere che si stia lavorando per la secessione, in un partito che più centralista e romano di quant’è, non potrebbe essere. Gesti come quello di ieri sono tutti ad appannaggio di questi creduloni leghisti di base incapaci di esercitare analisi minimamente critica di quanto dice il loro fuhrer Bossi.

Passiamo ora alla vicenda delle centrali nucleari. Non è carino autocitarsi, ma parecchio tempo fa sostenevo l’ipotesi che la vicenda delle centrali nucleari, similmente del resto a quella del ponte sullo stretto, non sarebbero mai arrivate a completamento, e che la loro realizzazione non era il reale obiettivo del governo. Il vero obiettivo è, secondo un costume nazionale tristemente noto, quello del saccheggio, aprire canali di finanziamento formalmente finalizzati alla realizzazione di una certa opera, in realtà destinati ad amici e parenti attraverso consulenze e comitati destinati alla gestione della fase di preparazione. Tutto ciò avviene sapendo sin dall’inizio che non si verrà mai a capo ai progetti tanto annunciati e declamati, ma un effetto si ottiene lo stesso, trovare una giustificazione per distribuire prebende a destra e manca, salvo poi tagliare i fondi per la cultura e l’istruzione.

Oggi, di fronte al disastro in Giappone, all'incombente catastrofe ambientale a seguito dei danni ai reattori nucleari, e con un referendum che incombe tra pochi mesi, nessuno privo di senno potrebbe davvero credere di riuscire a fare digerire agli italiani l'installazione di centrali termonucleari.Se però il fine è quello di potere continuare a foraggiare come dicevo i propri amici e parenti, allora la fase di definizione dei siti e delle caratteristiche delle centrali deve andare avanti. In un certo senso, il disastro in Giappone ha fatto un favore al governo, dandogli una ottima scusa per non costruire le centrali che comunque non ha mai realmente pensato di realizzare.

In una società quindi in cui si è smarrito il significato di interesse generale, lo stato è diventato preda di interessi particolari e strutturati in gruppi di potere che operano in maniera per tanti aspetti simile alla mafia. Il successo di uno specifico gruppo di potere dipende in definitiva dall’efficacia dell’immagine che si propone di sé a un pubblico inebetito che crede alle storielle che gli si raccontano. In questo senso, si potrebbe dire che l’insuccesso del PD stia nella sua incapacità di proporre la sua favola, che abbisogna di una certa minima coerenza, irrintracciabile in un partito diviso tra microfazioni e probabilmente anche a corto di immaginazione.

Vorrei aggiungere un’ultima notazione, un po’ fuori tema in questo post, e che riguarda la tematica del termonucleare. Mi chiedo perché gli esperti che girano per salotti televisivi vari non chiariscano agli ascoltatori come la sorte dei reattori convenzionali (a neutroni termici) sia strettamente legata ai reattori autofertilizzanti, molto più pericolosi perché operano a circa 700 gradi centigradi (invece che inferiore ai 200 delle centrali convenzionali), visto che la disponibilità di uranio 235 sarà sempre minore e che quindi si usa crescentemente plutonio 239, prodotto proprio nei reattori autofertilizzanti, un silenzio preoccupante!

lunedì 14 marzo 2011

PER UNA STORIA DEI DISASTRI AMBIENTALI

Forse, bisognerebbe iniziare a scrivere, almeno a partire del terzo millennio, la storia dell’umanità come storia dei disastri ambientali. Quantomeno, alla lunga e triste sequenza di eventi catastrofici che si succedono nel nostro globo terracqueo, dovrebbe essere dato il giusto rilievo. Ciò che invece succede è che anche gli eventi più drammatici, il cui effetto si prolunga ben oltre il momento in cui avvengono, entra nel solito tritacarne dei mass media, dove un’informazione spinge via quella precedente. Mi chiedo chi oggi parla più del disastro del golfo del Messico, tranne forse quelle popolazioni più direttamente coinvolte. Così però, non si crea una memoria collettiva, i danni ambientali si accumulano, le vittime si dimenticano, la sporcizia finisce insomma sotto il tappeto in attesa del successivo disastro, fino a che il bozzo sotto il tappeto non si potrà più nascondere, diverrà palese.

L’anno passato avevo postato sulla preoccupante escalation di disastri ambientali che siamo costretti ad osservare. L’augurio che facevo era che il 2011 potesse interrompere questo preoccupante andamento crescente nel numero e nella gravità dei disastri.

Questo scorcio d’anno c’ha, invece, già consegnato altri disastri, tra cui alcuni riguardanti il nostro stesso paese. L’evento però che sovrasta tutti gli altri è il gravissimo terremoto e susseguente tsunami che ha colpito il nord-est del Giappone. Si tratta della cronaca di questi ultimissimi giorni, ed ancora non è possibile tracciare un bilancio affidale dei danni alle persone, dei danni materiali immediati, e tanto meno arrischiare una previsione sui danni futuri, quelli di lungo periodo. La minaccia che pende è quella collegata ai danni che hanno subito i reattori nucleari collocati in quell’area. Si sa per certo che almeno due reattori hanno subito danni seri, che già quantità ingenti di vapore contaminato radioattivamente sono stati rilasciati nell’atmosfera. Si tratta di una contaminazione controllata, cioè deliberatamente attuata per prevenire una ben più grave evenienza, se l’accumularsi di pressione gassosa crescente si fosse risolta in una catastrofica deflagrazione di materiale fortemente radioattivo. Tuttora invece nulla si conosce su possibili ben più gravi danni che potrebbero presto verificarsi nel caso che fallisse il tentativo di raffreddare i reattori utilizzando acqua del mare, una soluzione d’emergenza che renderà inservibili i reattori.

Al contrario di eventi direttamente ascrivibili all’attività antropica, come tipicamente il disastro nel golfo del Messico, stavolta l’evento scatenante ha una causa integralmente naturale. E’ evidente che il movimento delle zolle terrestri non dipende neanche indirettamente dalle attività antropiche. Sarebbe però affrettata la conclusione che i danni conseguenti non coinvolgano le scelte che l’uomo ha operato in quel territorio. Già per i danni accertati, la responsabilità dell’uomo è certa almeno per quanto riguarda il crollo di una diga, per inquinamenti chimici a seguito del danneggiamento di strutture industriali, e naturalmente per la questione che fa tenere il fiato sospeso a tutti riguardante gli impianti termonucleari.

E’ perfino banale prevedere la consueta autoassoluzione da parte dei responsabili delle scelte degli insediamenti coinvolti, come sempre la categoria della fatalità verrà utilizzata per fare in modo che le scelte procedano sempre nella stessa direzione e che si eviti di mettere sotto processo una certa politica economica, che appare sempre più un’economia resasi autonoma dalla politica. Tralascio di parlare della consueta spazzatura, come quella che c’ha offerto il solito Chicco Testa, divenuto ormai un vero pasdaran del nucleare, incapace di dialogare minimamente malgrado la pacatezza del suo interlocutore che argomentava sensatamente e senza mai assumere un atteggiamento ciecamente intransigente. Io credo che, malgrado la pronta dichiarazione del solito Cicchitto (ma a che titolo, non spettava semmai a un ministro?), le scelta di insediamento di impianti termonucleari nel nostro paese subirà inevitabilmente un ripensamento. Mi chiedo però se ciò sia sufficiente, se non sia necessario anche che in tutta Europa ci sia un collettivo ripensamento anche riguardo gli insediamenti già esistenti, molti pericolosamente ai nostri confini. L’Europa c’ha sequestrato ogni autonomia nel campo della politica economica, non dovrebbe adesso costruire una politica energetica comune, che obbedisca a scelte collettive?

venerdì 11 marzo 2011

LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

La tanto annunciata riforma della giustizia sembra prendere corpo, dopo la sua approvazione in Consiglio dei Ministri, una tappa decisiva del suo cammino.

Non si tratta di una questione di ordinaria amministrazione, questa riforma tende a stravolgere l’equilibrio dei poteri della nostra repubblica così come è stato tracciato dai padri costituenti, tant’è che richiederà la modifica di ampie parti della nostra costituzione.

Fortunatamente, le procedure di modifica costituzionale sono complesse, com’è giusto che sia, e le speranze che non si riesca nello scopo esistono e sono anche ampie.

Purtroppo, questa vicenda ha tali e tante implicazioni di ordine giuridico, che un comune cittadino come me è privo delle competenze necessarie ad affrontarla adeguatamente. D’altra parte, al solito, la grande stampa affronta le questioni giornalisticamente, riportando le indiscrezioni e sviluppando le tematiche in modo generico: spero che presto apparirà qualche analisi puntuale ed approfondita di qualche costituzionalista che, fornendoci un supporto tecnico-giuridico, metta noi, comuni cittadini, in condizioni di esprimere un giudizio politico appropriato e non raffazzonato come rischiamo oggi.

Ciononostante, l’importanza dell’argomento è tale che già oggi avanzerò qualche considerazione, in attesa di tornare successivamente sull’argomento in maniera più approfondita.

Innanzitutto, conoscendo i nostri polli (leggi i nostri governanti), si può avanzare il sospetto che tutte queste riforme così radicali possano svolgere la sola funzione di cortina fumogena che mascheri concomitanti provvedimenti ad personam che il parlamento dovrebbe approvare a tappe forzate, in tempo perché possano esercitare la loro influenza sui processi in corso. Erano stati annunciati, ed adesso lo stesso governo non ne parla, ma mi pare che nessuno li ha esclusi. Cito un interessante articolo apparso oggi su “La Stampa” che mi pare in gran parte condivisibile, e che si concentra sul valore mediatico del lancio della riforma epocale, come l’ha astutamente indicata il premier. Per capire il vero disegno portato avanti con questa iniziativa, non bisogna ascoltare Alfano, che giustamente fa il politico, e tenta quindi di edulcorare la pillola, ma Berlusconi che nella sua rozzezza finisce col fare trasparire la verità. Dichiarare che questa riforma l’aspettava da diciassette anni, che non ci sarebbe stata tangentopoli a riforma vigente, è confessare candidamente che si vuole ricostruire una situazione di impunità per i politici, e nello stsso tempo vendicarsi dei magistrati.

Nel merito delle modifiche, a parte la questione della responsabilità diretta dei giudici, i cui confini andrebbero puntualmente delimitati, anche per evitare che si intasino i tribunali anche per le richieste di indennizzo, il filo rosso della riforma sembra consistere essenzialmente nel favorire la subordinazione del potere giudiziario agli poteri dello stato. Il disegno governativo appare abbastanza coerente nel perseguire questo obiettivo. I procuratori si staccano dai magistrati giudicanti, sia come carriera che come organo di autogoverno, si allentano anche i legami con la polizia giudiziaria che acquista così una sua autonomia. Infine, l’aspetto forse più importante è costituito dal fatto che il parlamento si riserva il diritto di dettare periodicamente agli stessi procuratori un ordine di precedenza per l’esercizio dell’azione penale, che in sostanza imponga alle autorità inquirenti di indagare in prima battuta, tanto per fare un esempio, sui borseggiatori piuttosto che sui casi di corruzione. Sono, credo, evidenti le implicazioni di queste norme: staccandoli dai giudici, riducendo la loro autorità sulla polizia giudiziaria, i procuratori uscirebbero fortemente indeboliti dall’applicazione di tale riforma.

Mi soffermerò un po’ di più sulla questione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale. Si dice che la sua obbligatorietà, prevista dalla nostra costituzione, viene così salvaguardata, e che la finalità della norma è quella di togliere la scelta delle priorità agli uffici delle procure per affidarle al parlamento.

Vorrei allora in conclusione fare notare che il parlamento questo potere ce l’ha già, attraverso la definizione di quali siano i reati perseguibili. E’ attraverso la depenalizzazione definita legislativamente che si può ripristinare una vera obbligatorietà dell’azione penale: non dovrebbe essere questo un criterio che i parlamentari dovrebbero avere in mente quando legiferano, anche quello dell’effettiva possibilità dell’attuazione delle norme approvate? Se poi scelgono di considerare i clandestini come criminali, intasando ulteriormente le procure di mezza Italia, con che coraggio possono fare ricadere le responsabilità su altri soggetti? La verità è che la moltiplicazione delle fattispecie di reati è la vera fonte del mancato esercizio dell’azione penale. Se quindi i politici vogliono assumere su di sé la scelta delle priorità, non occorrono asservimenti dei magistrati ai politici, lo facciano riducendo le fattispecie di comportamenti che la legge configura come reati: sarebbe questo il loro mestiere.

lunedì 7 marzo 2011

LA POLVERIERA LIBICA ED AFRICANA

La situazione in Libia si sta proponendo come un rebus difficile da interpretare: soprattutto diventa difficile individuare soluzioni adeguate. Nell’osservare come gli USA balbettino nell’affrontare tali questioni, mi pare che si confermi una sorgente endogena della rivolta. Alternativamente, dovremmo concludere che gli USA abbiano sottovalutato la possibile resistenza di Gheddafi, ma si tratterebbe di un errore troppo grossolano perché sia credibile: davvero pensavano a uno sfaldamento immediato di un regime che ha più di quarant’anni di vita, si può davvero credere a un livello così alto di dilettantismo?

Fatto sta che non si sa come agire. Ci si chiede se si può lasciare che il conflitto in corso si svolga con le forze interne in Libia, o se invece si debba intervenire, ed in questo caso con che modalità. Le misure assunte dal Consiglio di sicurezza dell’ONU sembrano inappropriate. Nel breve periodo, l’embargo risulterà del tutto inefficace, e aver prospettato un processo della corte internazionale a carico di Gheddafi è stato sicuramente una mossa affrettata, che rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderabile, spingendo tale personaggio a una maggiore intransigenza. Una misura adottata anche in assenza di dichiarazioni è quasi sicuramente quella di fare pervenire armi all’autoproclamatosi governo in Cirenaica, tramite paesi terzi (si parla dell’Arabia Saudita). Ciò tuttavia appare insufficiente a una rapida caduta del despota, evitando un cruento prolungarsi del conflitto armato. Si è parlato dell’instaurazione di una “nofly zone”. Data la modestia dell’aviazione libica, sembrerebbe una misura facilmente realizzabile, ma le cose sono sicuramente più complicate, perché implica la disponibilità a intraprendere azioni di guerra, e quindi sarebbe difficile differenziarla rispetto a una vera e propria dichiarazione di guerra a Gheddafi. Ad esempio, potrei citare l’esigenza di difendere i propri velivoli in volo per attuare il divieto di volo, e così di procedere al bombardamento delle postazioni antiaeree in mano a Gheddafi: dove si fermerebbe l’escalation?

La situazione in atto, d’altra parte, risulta intollerabile. Non solo bisognerebbe fermare il fiume di sangue in corso (ma lo si può fare versandone dell’altro?), ma si rischia la somaliarizzazione della Libia, con una frammentazione dei poteri che darebbe luogo a una interminabile guerra per bande. Eppoi, i nostri governanti sono molto sensibili a ciò che ha detto Gheddafi ieri, che senza di lui, ci sarebbe un immane ed inarrestabile flusso di migranti verso l’Europa. Come ho detto altrove, la questione delle migrazioni non ha soluzioni, ma deve poter essere gestita: fino a quante decine di migliaia di persone l’anno l’Europa, ed in particolare l’Italia è in grado effettivamente di accogliere?

La verità è che la comunità internazionale ha fatto di gran parte dell’Africa un’enorme Somalia, tutti impegnati a sfruttarne le risorse naturali, abbiamo affidato a despoti locali il mantenimento di quell’ordine del terrore che ci serviva per lucrare a nostro piacimento a loro detrimento. Questo equilibrio è impossibile da mantenere perché non è un vero equilibrio. Basta infatti qualunque fattore di perturbazione per rivelare la precarietà di queste situazioni, e subito si aprono scenari catastrofici che nessuno è poi in grado di gestire adeguatamente. La Libia di Gheddafi, così invisa a parole ai governi occidentali, così ostentatamente antioccidentale, ha di fatto svolto un essenziale ruolo a favore dello stesso occidente, fornendo greggio e gas, ma facendo anche da scudo tra la fascia sub-sahariana, la più povera in assoluto di tutta l’Africa, e il Mediterraneo, di cui il recente accordo italo-libico è stato solo l’ultimo tassello.

Gli scenari che quindi si propongono sono difficilmente prevedibili, e di fatto l’occidente non ha reali soluzioni pronte, proprio perché il problema Libia conduce immediatamente al problema dell’intera Africa.

In questa situazione, l’unico suggerimento che mi sento di dare è quello di usare la massima cautela nell’affrontare questa problematica, senza prendere per oro colato l’informazione che riceviamo e senza pensare che siano disponibili soluzioni facili e rapide.

sabato 5 marzo 2011

LE BARRICATE DEL PARLAMENTO

Alla fine di questa ultima settimana, unocosa si può concludere, che cioè la situazione politica è ormai di una chiarezza cristallina. Malgrado si tratti di una situazione estremamente grave, dobbiamo purtuttavia convenire che il quadro politico che ci si presenta non mostra segni di complicazione.
In poche parole, abbiamo una maggioranza del parlamento che probabilmente non è lo è più nel paese, sicuramente soggettivamente teme fortemente di perdere le elezioni in caso si tenessero a breve termine.
Malgrado quindi la sirena Berlusconi non incanti più abbastanza, malgrado perfino tra l'elettorato leghista cresca lo sconcerto, come anche testimoniato dai casi di censura da parte dei suoi dirgenti nei confronti del proprio popolo padano, l'interesse personale di tanti parlamentari tiene in respirazione artificiale il governo, impedendo proprio a quel popolo evocato ad arte tante volte dallo stesso premier per legittimare il proprio potere, di potersi esprimere.
Si tratta certamente di una situazione estremamente grave, al limite del paradosso, con un poarlamento usato da Berlusconi a proprio capriccio, l'usbergo dietro cui un leader ormai giunto al capolinea resiste tenendo così in ostaggio tutto il paese.
Qui credo, più che su un piano teorico, si misura come una legge elettorale che è un'autentica porcata, mostra le conseguenze inevitabili derivanti dalle stesse modalità di definizione della propria composizioine. Un manipolo di parlamentari, indegni della funzione a cui sarebbero chiamati, si barrica nelle aule parlamentari, nei fatti sfidando il paese intero che evidentemente non rappresenta più, se anche lo avesse mai rappresentato. Nella propria dequalificazione, costoro non si rendono conto delle implicazioni gravissime del proprio comportamento, e ignorando così i pericoli derivanti, crede impunemente di potere continuare ad ignorare la marea di sdegno che si solleva nel paese. Voglio aggiungere che in questa fase politica, risulta chiaro come l'alleanza della Lega col PDL, che ancora settimane fa si tentava di fare apparire come una tattica a difesa del popolo padano, appoggiare cioè il governo di Berlusconi per ottenere concessioni per i rpopri elettori, appare oggi invece senza possibilità di occultamento come un destino comune, un'alleanza che obbligas la Lega a seguire Berlusconi ovunque egli voglia andare.
La proposta che faccio a tutte le forze di opposizione è quella di organizzare la spallata finale, un'enorme mobilitazione di piazza che veda il coagularsi di forze politiche, sindacali, di opinione pubblica, che dia la misura delle dimensioni dell'opposizione non a Berlusconi, non al governo, ma oggi al parlamento, a un parlamento che ha totalmente dimenticato la sua missione di rappresentanza del proprio paese.

mercoledì 2 marzo 2011

IL SUCCESSO DI FASSINO

Il successo netto di Fassino alle primarie di Torino ha ricevuto scarsa attenzione sui mezzi di informazione. Stavolta anche sui blogs, anzi soprattutto sui blogs, almeno su quelli che più frequento, il silenzio è pressochè assoluto. In particolare, mi ha colpito il silenzio dei torinesi pur direttamente implicati nella vicenda.
Per me che vedo le cose dall'esterno, questo successo di una persona che considero membro della destra pur essendo dirigente di un partito che si proclama di centrosinistra, è molto significativo. Se lo accostiamo all'incapacità dei torinesi di opporsi adeguatamente a Marchionne ed al suo piano neoliberista, sembra segnare un processo di decadenza di questa nobile città operaia, un punto di riferimento da sempre di chi si schierava a sinistra.
Sarà interessante vedere su quali differenze programmatiche si potrà confrontare Fassino con il candidato di centrodestra, sarà piuttosto, temo, un dibattito tutto interno alla destra: dove starebbe l'aternativa, mi chiedo.

martedì 1 marzo 2011

POLITICA, LIBERTARISMO E '68

Questo post prende spunto dalla risposta ad un mio intervento su uno dei blogs che frequento abitualmente, suscitato a sua volta dalla manifestazione ormai famosa del 13 febbraio.Due punti venivano sollevati. L’uno cosa sia il libertarismo, l’altro il suo legame col ’68. Per quanto riguarda il primo punto, mi limito ad autocitare un mio vecchio post sull’argomento, mentre mi occuperò del secondo punto, anche se ciò mi porterà a riprendere anche il primo tema.

Il '68 è stato tante cose. Ci stava perfino "Servire il popolo" (organizzazione maoista per chi non lo sapesse, perchè troppo giovane), in cui addirittura l'organizzazione ti dettava con chi sposarti (guardate che non scherzo...), ma l'ala uscita "vincente" fu quella libertaria, rappresentata in primis da Lotta Continua, e ispiratrice del femminismo, ma anche direi dei grandi appuntamenti referendari degli anni settanta. La mia opinione è che presto l'aspetto politico-economico fu sconfitto, certamente a partire dagli anni ottanta, mentre l'aspetto sociale e di costume sopravvisse, e in qualche misura c'è ancora oggi.

La coincidenza di politico e privato fu certo uno slogan molto forte nel '68, ma era uno slogan in definitiva ambiguo. Finchè insomma la politica era egemonica, i comportamenti militanti dovevano coinvolgere anche i nostri atteggiamenti più intimi, ed era quindi la politica a dover dettare il nostro privato. Man mano che le tematiche operaiste e marxiste defluivano per motivi troppo complessi da affrontare qui, restò l’idea di fare politica col nostro privato, cioè avvenne un capovolgimento nel rapporto tra politico e privato.

E’ a questo punto che, a partire da un altro slogan del ’68, quello che recitava “noi siamo giusti”, che la soggettività prese il sopravvento: se noi siamo giusti, allora qualunque atteggiamento spontaneo individuale deve esprimersi. Siamo insomma in pieno clima illuminista, il credere cioè che l’uomo sia un animale razionale e libero, e che ciò che bisogna fare è soltanto liberarlo da lacci e lacciuoli che ne inibiscono la piena espressione. Il risultato quindi non è quello di includere il privato tra quanto dev’essere d’interesse pubblico, ma al contrario costruire un pubblico come libero dispiegamento delle individualità.

La domanda che si pone quindi è cosa siano queste individualità. E’ qui che entra il campo la questione antropologica, con il liberalismo che si basa su un modello per cui la libertà è una dotazione innata dell’uomo, ed essa è messa a rischio dalla società in cui vive. Da questo sorge la teoria dello stato minimo, della necessità quindi di inibire l’invadenza del potere costituito. Il libertarismo è in fondo parte di questa teoria, in quanto ne condivide questi presupposti, anche se se ne allontana in campo economico.

Questa teoria è profondamente radicata nelle nostre menti, costituisce una vera e propria ideologia, tanto da non essere smentita neanche dalle evidenze quotidiane che mostrano una situazione opposta, che cioè ciascuno di noi è inserito dialetticamente nella cultura in cui viviamo e che necessariamente condividiamo. Così, ciò che gli individui esprimono non è un punto di vista veramente individuale, ma riecheggiano con una certa dose di autonomia ciò che intromettiamo dall’esterno. Per fare un esempio evidente, nessuno spenderebbe cifre da capogiro per investimenti pubblicitari, se non fosse certo di ricavarne un utile in termini di condizionamento dei comportamenti, in questo caso nel campo dei consumi, da parte dei destinatari di tale pubblicità.

Ciò vale anche in campo etico. Negare l’esistenza di una dimensione collettiva della morale, significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà, pensare che l’unica influenza sui comportamenti individuali debba riguardare i reati, cioè ciò che le leggi condannano, è privo di senso. In un post precedente, dicevo scherzosamente “libero peto in libero stato” proprio per significare come ciò che viene considerato socialmente riprovevole è ben più ampio di ciò che viene penalmente sanzionato.

Per questo, ritengo che il libertarismo sia sbagliato, perché credo che un’indiscriminata esaltazione delle individualità finisca col coincidere con il conformismo più bieco, perché il messaggio dominante non viene automaticamente ostacolato dai singoli individui, ma anzi più frequentemente viene riecheggiato e confermato da questi, proprio perché in una società gli individui a rigore neanche esistono più, in quanto inevitabilmente compartecipi di un’ideologia dominante.

Detto con altre parole, la libertà non può essere assunta come un dato di partenza, qualcosa di innato in noi che la società deve preservare, ma deve piuttosto costituire un fine: gli uomini non nascono liberi, la libertà devono conquistarsela, e tale conquista non è un fatto che possiamo dare per scontato. Ne consegue che la libertà non può costituire un principio normativo, e il fine della politica non è quindi quello di declamarla, ma piuttosto quello di porre le condizioni perché i singoli individui possano più agevolmente conquistarla.