domenica 15 aprile 2012

I PARTITI ED IL LORO FINANZIAMENTO


Il modello aziendale ha trionfato nel modo di pensare globale.
Un’azienda come si sa ha come propria missione quella di creare utile, e tramite i noti meccanismi della concorrenza, le differenti aziende si confrontano ed ottimizzano le loro prestazioni riducendo i propri costi e migliorando le procedure di produzione.
Seppure le mie personali riserve in proposito, visto che sono convinto che l’azienda dovrebbe piuttosto avere come missione prioritaria quella di creare occupazione, si potrebbe convenire sul fatto che entro certi limiti, le due cose possano andare di pari passo.
Dove invece il mio dissenso diventa totale è quella della generalizzazione, tendente all’universalizzazione, di tale modello. In omaggio ad esso, già una prima vittima illustre è stata l’università, che a seguito delle disposizioni legislative ispirate a questi principi ha smesso forse irreversibilmente di rappresentare il mondo della conoscenza disinteressata. Non si tratta di cosa di poco conto, da quando esiste l’università di Bologna, la prima al mondo, il sapere umano è cresciuto tramite due differenti vie, l’una legata al settore della produzione, e quindi strettamente finalizzata a un criterio di massimizzazione del profitto, portando allo sviluppo tecnologico, l’altra propria del mondo accademico, che fornendo il sostrato culturale di base, era premessa anche, ma non esclusivamente, per lo sviluppo tecnologico. Il fatto è che apparentemente in questo mondo iperideologizzato si ignora come le vie dello sviluppo culturale siano misteriose, come la ricerca disinteressata sia stata storicamente determinante per giungere all’enorme patrimonio di conoscenze di oggi. Tutto ciò viene bruciato sull’altare di una finalizzazione esasperata della ricerca universitaria, determinando così il processo di azindalizzazione dell’università, che però non si ferma qui ma include anche il settore didattico.
Non approfondisco queste questioni universitarie, perché in realtà l’obiettivo centrale di questo post vuole riguardare i partiti politici.
Lo dico in riferimento alla questione del finanziamento pubblico dei partiti. All’apposito referendum a suo tempo ho votato, a quanto risulta inutilmente, contro il finanziamento: ebbene, non ho cambiato opinione...

Dicono i sostenitori del finanziamento che un partito costa, che le campagne elettorali costano, che il loro stesso funzionamento costa. In verità, costoro vogliono intendere ben più di ciò, essi pensano in verità che più soldi si traducano in più voti, che perciò sarebbe esiziale per la democrazia se ci fosse un partito di ricconi o finanziato da ricconi ed un altro fatto da poveracci e senza sponsorizzazioni di sorta.
Io non voglio neanche escludere questa possibilità, ma ciò che non mi va proprio è che si affrontino direttamente le questioni finanziarie saltando a più pari le questioni generali che attengono ai partiti. In questo modo, ancora una volta non si affronta il problema centrale delle garanzie di democrazia all’interno dei partiti, visto che ancora oggi il modello di partito che si segue è quello di una congrega di amici che non ha bisogno di essere normato: ciò non va bene, al massimo potrebbe valere per un partito che non intende essere coinvolto nei momenti elettorali, ma chi vuole entrare in parlamento o in altri organi collegiali istituzionali, beh questo genere di partiti dovrebbero seguire con grandissimo scrupolo delle regole precise che siano definite anche legislativamente.
Inoltre, guardando con più attenzione a questa questione del finanziamento pubblico, ci accorgiamo di un fatto banale, che cioè esso corrisponde a un finanziamento da parte di ciascuno dei contribuenti. Lo stato concede i finanziamenti prendendoli dalle tasse che tutti i produttori di reddito sono tenuti a versare, non sarebbe allora più logico che il finanziamento fosse lasciato a una libera scelta individuale? Quale sarebbe il senso di obbligare tutti i contribuenti a finanziare i partiti, perché tutti significa anche quelli che mai andrebbero a votare, che non si sentono minimamente rappresentati da questi partiti.
Insomma, per certi versi sarebbe come iscrivere ai partiti i cittadini per forza di legge, magari a sorteggio. Lo considereremmo assurdo, ma nello stesso tempo contribuire finanziariamente a un partito che porta avanti idee che aborrisco, che pratica un tipo di politica esattamente opposta a quella in cui credo, questo non viene considerato egualmente assurdo.
Non v’è scelta, il partito a cui penso dovrebbe venire fuori dal convergere di certe opinioni politiche, e non trovo nulla di male che siano proprio coloro che condividono tali ideali a sentirsi poi impegnati a garantirne la sopravvivenza.
No, questi politicanti non intendono che i partiti che dirigono debbano risultare graditi per essere sostenuti.
Qui torniamo alla prima parte del post, quando parlavo di questo dominio incontrastato del modello aziendale. Ciò vale anche per i partiti, molti sono convinti che questi consistano in macchine elettorali, che quindi poco importa in che modo, ma che il consenso comunque ottenuto debba tradursi in soldi e potere. Considerate che oggi i cosiddetti rimborsi elettorali sono proporzionali ai voti ottenuti, e vedete che il criterio è proprio quello aziendalistico, l’importante è che un partito attiri, non importa per quale ragione.
Così però, si arriva anche a un evidente paradosso.
Come dicevo, l’elemento che viene agitato per giustificare il finanziamento pubblico è che in caso contrario consegniamo i partiti al primo capitalista di turno che passa da lì. Però, pensateci, per avere i finanziamenti dovete prendere molti voti e questi voti voi dite dipendono in maniera critica dai soldi disponibili per le campagne elettorali. Poiché tuttavia i soldi vengono dati soltanto una volta ottenuti i seggi parlamentari, mi pare evidente che questo meccanismo non garantisce la loro indipendenza, perché esisterà un periodo, fosse anche transitorio, in cui sarà necessario anticipare questi soldi, e in questo passaggio fondamentale il partito può ben finire nelle mani del riccone di turno.
Come sapete, questo è effettivamente successo, non sto parlando di un caso ipotetico: mi riferisco come immaginate al sorgere di “Forza Italia”, cosa resa possibile dalle grandi capacità finanziarie di Berlusconi. L’alternativa al disporre di un grande sponsor, è oggi quella di avercelo già un partito ben avviato, e quindi non ci meraviglieremo certo nel vedere che essi in fondo vogliono proprio valorizzare questo capitale di cui sono diventati azionisti di maggioranza per ottenere i soldi che gli garantiscano la loro durata per l’eternità, capitale fresco o capitale immobilizzato nella struttura partitica stessa, ma sempre capitale è.
Infine, ed è forse l’aspetto più importante, se il partito è una sede di ricchezza, chi verrà attirato, chi si occuperà di politica se non le persone che più concepiscono la loro vita come ricerca di una situazione di benessere economico, come faremo ad avere una classe politica che opera sulla base di idee e non sulla base di interessi?
Riassumendo, due distinti modelli di partito si confrontano, l’uno aziendalistico e l’altro di militanti. I partiti non esitano a sposare senza tentennamenti il primo modello al fine di giustificare il finanziamento pubblico, ma nello stesso tempo rifutano di fissare per legge le regole dle loro funzionamento appunto come se i9nvece si trattasse di partiti di militanti. Il risultato di tutto ciò è che i partiti hanno finito per disporre di cifre ingenti senza alcun controllo effettivo sul loro uso, e i recenti episodi venuti al centro della cronaca non rappresentano un caso di deviazione patologica, ma sono lo sviluppo fisiologico di una situazione che patologica lo era sin dall’inizio. Preda ormai della parte più spregevole della nostra società, i partiti non riescono più a venirne fuori: che rimangano a digiuno per un bel po’ di tempo, vuoi vedere che smaltiscono l’indigesto e si liberano degli stronzi che non riescono ad evacuare dal loro interno?

Nessun commento:

Posta un commento