Il modello aziendale ha trionfato nel modo di pensare
globale.
Un’azienda come si sa ha come propria missione quella di
creare utile, e tramite i noti meccanismi della concorrenza, le differenti
aziende si confrontano ed ottimizzano le loro prestazioni riducendo i propri
costi e migliorando le procedure di produzione.
Seppure le mie personali riserve in proposito, visto che
sono convinto che l’azienda dovrebbe piuttosto avere come missione prioritaria
quella di creare occupazione, si potrebbe convenire sul fatto che entro certi
limiti, le due cose possano andare di pari passo.
Dove invece il mio dissenso diventa totale è quella della
generalizzazione, tendente all’universalizzazione, di tale modello. In omaggio
ad esso, già una prima vittima illustre è stata l’università, che a seguito
delle disposizioni legislative ispirate a questi principi ha smesso forse
irreversibilmente di rappresentare il mondo della conoscenza disinteressata.
Non si tratta di cosa di poco conto, da quando esiste l’università di Bologna,
la prima al mondo, il sapere umano è cresciuto tramite due differenti vie,
l’una legata al settore della produzione, e quindi strettamente finalizzata a
un criterio di massimizzazione del profitto, portando allo sviluppo
tecnologico, l’altra propria del mondo accademico, che fornendo il sostrato
culturale di base, era premessa anche, ma non esclusivamente, per lo sviluppo
tecnologico. Il fatto è che apparentemente in questo mondo iperideologizzato si
ignora come le vie dello sviluppo culturale siano misteriose, come la ricerca
disinteressata sia stata storicamente determinante per giungere all’enorme
patrimonio di conoscenze di oggi. Tutto ciò viene bruciato sull’altare di una
finalizzazione esasperata della ricerca universitaria, determinando così il processo
di azindalizzazione dell’università, che però non si ferma qui ma include anche
il settore didattico.
Non approfondisco queste questioni universitarie, perché in
realtà l’obiettivo centrale di questo post vuole riguardare i partiti politici.
Lo dico in riferimento alla questione del finanziamento
pubblico dei partiti. All’apposito referendum a suo tempo ho votato, a quanto
risulta inutilmente, contro il finanziamento: ebbene, non ho cambiato opinione...
Dicono i sostenitori del finanziamento che un partito costa,
che le campagne elettorali costano, che il loro stesso funzionamento costa. In
verità, costoro vogliono intendere ben più di ciò, essi pensano in verità che
più soldi si traducano in più voti, che perciò sarebbe esiziale per la
democrazia se ci fosse un partito di ricconi o finanziato da ricconi ed un
altro fatto da poveracci e senza sponsorizzazioni di sorta.
Io non voglio neanche escludere questa possibilità, ma ciò
che non mi va proprio è che si affrontino direttamente le questioni finanziarie
saltando a più pari le questioni generali che attengono ai partiti. In questo
modo, ancora una volta non si affronta il problema centrale delle garanzie di
democrazia all’interno dei partiti, visto che ancora oggi il modello di partito
che si segue è quello di una congrega di amici che non ha bisogno di essere
normato: ciò non va bene, al massimo potrebbe valere per un partito che non
intende essere coinvolto nei momenti elettorali, ma chi vuole entrare in
parlamento o in altri organi collegiali istituzionali, beh questo genere di
partiti dovrebbero seguire con grandissimo scrupolo delle regole precise che
siano definite anche legislativamente.
Inoltre, guardando con più attenzione a questa questione del
finanziamento pubblico, ci accorgiamo di un fatto banale, che cioè esso
corrisponde a un finanziamento da parte di ciascuno dei contribuenti. Lo stato
concede i finanziamenti prendendoli dalle tasse che tutti i produttori di
reddito sono tenuti a versare, non sarebbe allora più logico che il finanziamento
fosse lasciato a una libera scelta individuale? Quale sarebbe il senso di
obbligare tutti i contribuenti a finanziare i partiti, perché tutti significa
anche quelli che mai andrebbero a votare, che non si sentono minimamente rappresentati
da questi partiti.
Insomma, per certi versi sarebbe come iscrivere ai partiti i
cittadini per forza di legge, magari a sorteggio. Lo considereremmo assurdo, ma
nello stesso tempo contribuire finanziariamente a un partito che porta avanti
idee che aborrisco, che pratica un tipo di politica esattamente opposta a
quella in cui credo, questo non viene considerato egualmente assurdo.
Non v’è scelta, il partito a cui penso dovrebbe venire fuori
dal convergere di certe opinioni politiche, e non trovo nulla di male che siano
proprio coloro che condividono tali ideali a sentirsi poi impegnati a
garantirne la sopravvivenza.
No, questi politicanti non intendono che i partiti che
dirigono debbano risultare graditi per essere sostenuti.
Qui torniamo alla prima parte del post, quando parlavo di
questo dominio incontrastato del modello aziendale. Ciò vale anche per i
partiti, molti sono convinti che questi consistano in macchine elettorali, che
quindi poco importa in che modo, ma che il consenso comunque ottenuto debba
tradursi in soldi e potere. Considerate che oggi i cosiddetti rimborsi
elettorali sono proporzionali ai voti ottenuti, e vedete che il criterio è
proprio quello aziendalistico, l’importante è che un partito attiri, non
importa per quale ragione.
Così però, si arriva anche a un evidente paradosso.
Come dicevo, l’elemento che viene agitato per giustificare
il finanziamento pubblico è che in caso contrario consegniamo i partiti al
primo capitalista di turno che passa da lì. Però, pensateci, per avere i
finanziamenti dovete prendere molti voti e questi voti voi dite dipendono in
maniera critica dai soldi disponibili per le campagne elettorali. Poiché
tuttavia i soldi vengono dati soltanto una volta ottenuti i seggi parlamentari,
mi pare evidente che questo meccanismo non garantisce la loro indipendenza,
perché esisterà un periodo, fosse anche transitorio, in cui sarà necessario
anticipare questi soldi, e in questo passaggio fondamentale il partito può ben
finire nelle mani del riccone di turno.
Come sapete, questo è effettivamente successo, non sto
parlando di un caso ipotetico: mi riferisco come immaginate al sorgere di
“Forza Italia”, cosa resa possibile dalle grandi capacità finanziarie di
Berlusconi. L’alternativa al disporre di un grande sponsor, è oggi quella di avercelo
già un partito ben avviato, e quindi non ci meraviglieremo certo nel vedere che
essi in fondo vogliono proprio valorizzare questo capitale di cui sono
diventati azionisti di maggioranza per ottenere i soldi che gli garantiscano la
loro durata per l’eternità, capitale fresco o capitale immobilizzato nella
struttura partitica stessa, ma sempre capitale è.
Infine, ed è forse l’aspetto più importante, se il partito è
una sede di ricchezza, chi verrà attirato, chi si occuperà di politica se non
le persone che più concepiscono la loro vita come ricerca di una situazione di
benessere economico, come faremo ad avere una classe politica che opera sulla
base di idee e non sulla base di interessi?
Riassumendo, due distinti modelli di partito si confrontano,
l’uno aziendalistico e l’altro di militanti. I partiti non esitano a sposare
senza tentennamenti il primo modello al fine di giustificare il finanziamento
pubblico, ma nello stesso tempo rifutano di fissare per legge le regole dle
loro funzionamento appunto come se i9nvece si trattasse di partiti di
militanti. Il risultato di tutto ciò è che i partiti hanno finito per disporre
di cifre ingenti senza alcun controllo effettivo sul loro uso, e i recenti
episodi venuti al centro della cronaca non rappresentano un caso di deviazione
patologica, ma sono lo sviluppo fisiologico di una situazione che patologica lo
era sin dall’inizio. Preda ormai della parte più spregevole della nostra
società, i partiti non riescono più a venirne fuori: che rimangano a digiuno
per un bel po’ di tempo, vuoi vedere che smaltiscono l’indigesto e si liberano
degli stronzi che non riescono ad evacuare dal loro interno?
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