lunedì 27 maggio 2013

TERZA PUNTATA DELLA TRILOGIA: IL FUTURO PROSSIMO CHE CI ATTENDE



Lunedì ho postato sulla situazione politica odierna, con particolare riferimento al governo in carica.Il giorno dopo, mi sono ritrovato a richiamare quegli aspetti politici che, malgrado siano stati rimossi dal dibattito politico sui media, io trovo determinanti per spiegare quella stessa situazione su cui avevo postato il giorno prima.

Così, senza un piano deliberato, mi sono trovato a dedicare due successivi post ai due differenti tempi, l’uno al presente, l’altro al passato: a questo punto, ne approfitto per completare una trilogia passato/presente/futuro, dedicando un post a quelli che immagino possano essere gli scenari futuri.

E’ evidente che il futuro dipende da troppe circostanze incontrollabili, e quindi nessuno può pensare di potere davvero prevedere ciò che accadrà, soprattutto quando si parla di prospettive collettive e ci si riferisce a tempi non vicinissimi. Tuttavia, discutere di prospettive future, è importante comunque, magari anche soltanto dal punto di vista dell’attualità politica, nel senso di giudicare le politiche dell’oggi in una prospettiva più ampia...


Partiamo quindi dall’oggi, e consideriamo la situazione a livello dell’intero occidente, escludendo deliberatamente i cosiddetti paesi BRICS ed anche quelli sottosviluppati. Ciò in qualche misura deriva, oltre che dalla mia insufficiente conoscenza di quei paesi, dalla mia convinzione che ancora per un tempo non breve sarà l’occidente a guidare le sorti dell’intero pianeta.

L’occidente è entrato in una fase di crisi economica che, partita dal lontano 2007 a seguito della crisi immobiliare negli USA, non si può ritenere superata neanche oggi nel 2013, e davvero non ci sono segnali di sorta che possano farci credere che una prospettiva di reale superamento ci sia.

Intendiamoci, se valutassimo soltanto l’andamento del PIL delle varie nazioni, potremmo avere delle sorprese, con paesi come gli USA ed il Giappone in primis, che in questi ultimi mesi vanno raccogliendo una serie di parametri economici positivi ed dove si assiste in particolare a una ripresa di crescita del PIL. Saremmo cioè di fronte ad una svolta, cosa ben più importante del fatto, peraltro innegabile, della continuazione nella crescita del PIL nei paesi BRICS, in quanto rappresenterebbe una inversione di tendenza. Tuttavia, sarebbe miope ignorare a che costo questa ripresa economica sia stata ottenuta in quei paesi.

Il Giappone ha deciso col nuovo governo di inondare di liquidità la nazione, continuando nella formula che è stata lì adottata con pieno successo per quasi mezzo secolo, facendo svolgere allo stato la funzione di debitore verso i privati. Questa cessione di ricchezza dallo stato ai privati, ha messo questi nella disponibilità di risorse finanziarie tali da fare divenire il Giappone uno dei paesi più tecnologicamente sviluppati dell’intero pianeta. L’unico inconveniente potrebbe essere costituito dallo scatenarsi dell’inflazione, ma ciò con tutta evidenza non è avvenuto per motivi che non sono in grado di definire con esattezza. Osservo soltanto che un punto fondamentale della strategia del Giappone sta nel puntare fortemente sull’esportazione sia di merci che di denaro (il Giappone solo recentemente è stato superato dalla Cina quale primo creditore verso gli USA). Pertanto, potremmo concludere che il Giappone magari fa bene ad applicare una tale politica (almeno dal punto di vista dell’economia classica), ma non è una politica che possa essere adottata dall’intero pianeta perché presuppone che ci siano dei paesi che al contrario importano costantemente e quindi presuppone una divisione internazionale dei ruoli.

Nel caso degli USA invece, è evidente la precarietà della situazione. Anche qui, il mercato è continuamente fornito di liquidità a fiumi da parte della FED, con la fondamentale differenza rispetto al Giappone, che gli USA sono già oggi di gran lunga i maggiori debitori nei confronti del mondo, e perfino Bernanke recentemente ha dovuto ammettere che l’attuale politica della FED non potrà andare avanti all’infinito. La reazione isterica dei mercati alle sue misurate parole la dice lunga su quanto questa neoripresina sia legata alla marea di dollari stampati recentemente dalla FED (ma gli USA l’hanno sempre fatto, magari a livello più modesto, tanto che già all’inizio degli anni settanta Nixon fu costretto a dichiarare l’inconvertibilità del dollaro in oro).

La crisi non solo non è stata superata, ma non mi pare neanche lontanamente sulla via della guarigione, quell’enorme massa di titoli spazzatura che stanno all’origine della crisi continuano a viaggiare sui mercati finanziari dell’intero pianeta, solo che tra banche e speculatori si scambia questa spazzatura contando sulla disponibilità di liquidità concessa dagli stati. E’evidente che questa liquidità non fa danno alcuno finchè rimane nei circuiti finanziari come ricchezza virtuale, ma al momento che qualcuno volesse davvero godere delle merci che teoricamente potrebbe comprare sulla base di questi numeri su un computer, allora sì che si tramuterebbe in un danno perchè con tutta evidenza non ci sono merci sufficienti sull’intero pianeta per una quantità di denaro così alta. Se qualcuno cominciasse a farlo, allora per la legge della domanda e dell’offerta la merce costerebbe di più, si scatenerebbe l’inflazione che presto diventerebbe tempestosa per l’effetto di contagio, credendo in una tale forte inflazione, ognuno vorrebbe acquisire beni prima che non se li possa più permettere.

In verità, è solo in base a un patto di ferro, un patto che potremmo definire mafioso, che i ricchi del pianeta si astengono dall’andare in giro per shopping, anche se sarebbe razionale farlo prima che lo facciano gli altri.

La mia convinzione è quindi che il vero core del potere mondiale sia disperato, e che le politiche dettate ai governi di tutto il mondo per una ferrea applicazione che non ammette disobbedienze, puntino soltanto a prolungare questo stato senza peraltro costituire in alcun modo una soluzione reale del problema. E’ chiaramente un prolungamento fine a sé stesso, la possibilità per top manager e maggiori azionisti di raccattare ulteriori risorse per i tempi difficili che sanno bene che li attende, ma in effetti, malgrado i mercati finanziari servano proprio a questo, accumulare risorse tendenzialmente senza limite superiore, la cosa è tutt’altro che scontata, perché basata su convenzioni sempre in pericolo in caso di eventi rivoluzionari (ci si sta un attimo per un governo rivoluzionario appena insediato per cancellare una cifra enorme con un semplice colpo di penna).

La vera soluzione sarebbe soltanto quello di dire ai grandi ricchi del mondo che essi non lo sono, che la loro ricchezza è fittizia, e procedere all’ufficializzazione di questa affermazione tramite la distruzione dei titoli spazzatura, ma non si vede come governi così succubi come quelli che osserviamo un po’ ovunque in giro per il mondo, possano farlo quando piuttosto hanno vigliaccamente adottato la formula del “too big to fail”.

Il prolungarsi di questa agonia viene pagata dalla gente comune a cui viene caricata la spesa di interessi crescenti sul debito pubblico tramite un aumento inarrestabile della tassazione. Le grandi banche continuano così a rifornirsi della liquidità di cui necessitano come un vampiro del sangue delle sue vittime. E’ evidente che prima o poi non vi sarà granchè da succhiare, ma è proprio la mancanza di una strategia che non sia la pura e semplice posticipazione del momento del fallimento globale, che sta all’origine di questa situazione.

La gente quindi vive sulla propria pelle l’ingiustizia di questa situazione, cominciando anche a percepire l’inutilità delle modalità con cui i governi affrontano la crisi in atto. Certi comportamenti elettorali come il successo di Grillo alle passate elezioni mostrano chiaramente quanto sia il discredito di cui gode la classe politica, quella che sta nei partiti tradizionali, e, seppure all’inizio il fattore prevalente sia legato a comportamenti al limite del criminale di tali politicanti, questo discredito va aumentando e divenendo più radicale anche man mano che viene fuori l’incapacità e l’asservimento ai potenti del mondo di coloro che invece sarebbero preposti alla nostra difesa.

Potrei riassumere questa situazione, dicendo che gli elettori disponibili ad abbracciare nuove formazioni politiche ci sono, tanto che essi non esitano a dare un sostanzioso quarto del totale di voti a una formazione che si presentava per il parlamento nazionale per la prima volta. La tradizionale inerzia dell’elettorato italiano è ormai un lontano ricordo, la gente si è proprio stufata dei partiti tradizionali.

Il problema nasce da qui in poi, la domanda di nuova politica c’è ed è ampia, manca però l’offerta.

Dal punto di vista teorico, per molti versi siamo ancora al secolo precedente, soltanto che il discrimine fondamentale si è spostato dalla contrapposizione sinistra-destra all’interno della stessa sinistra (i lettori del blog sanno che io sono contrario all’utilizzo di questa dicotomia, e qui uso questi termini nel senso in cui vengono percepiti dalla maggior parte dei parlanti di lingua italiana).

Oggi, c’è una sedicente sinistra che ha del tutto sotterrato ogni prospettiva di cambiamento sociale di ispirazione anche vagamente marxista, tutta interna al pensiero dominante di stampo liberale. Poco importa se ancora circola l’uso del vocabolo socialdemocratico, neanche un fine filologo potrebbe percepirne la differenza dal liberalismo (contemporaneamente, si fa un grande uso del termine liberista, usato in senso dispregiativo, si pretende di distinguersi da altri in quanto liberali non liberisti!!!).

C’è un’altra sedicente sinistra che invece vuole cambiare la società in modo radicale, e lo fa partendo dal pensiero marxista (magari marxiano, cioè tornando a Marx senza le evoluzioni dovute alla coppia Engels-Lenin).

In questo modo, seppure traslato tutto sul territorio politico che soggettivamente si considera di sinistra, si riproduce la distinzione tra i sostenitori dello status quo e il passaggio a un sistema politico che in qualche misura si richiami a Marx. Ecco la ragione per cui dicevo che siamo ancora completamente all’interno del novecento, il capitalismo viene considerato da superare sulla base degli insegnamenti di Marx. Poco importa che non ci si raccapezzi più su quali infine sarebbero questi insegnamenti di Marx, poco importa che si stenta a trovare due pensatori entrambi ispirati dal filosofo di Treviri che la pensino in maniera non dico uguale ma anche solo compatibile, ciò che conta dal mio punto di vista è l’esigenza per i più fieri oppositori dello status quo del cartellino con su scritto “Marx”. Dallo loro cittadella ultracontestatrice, misurano il tasso di rivoluzionarietà dei vari soggetti in gioco sulla base della loro vicinanza a Marx. Ciò quindi che è avvenuto è che il pensiero di Marx non è una delle possibili alternative al pensiero dominante, ma rappresenta invece, come in effetti storicamente è stato almeno per tutto il secondo dopoguerra, l’alternativa unica proponibile al pensiero dominante, senza curarsi che così si rischia di farne il pensiero alternativo dominante, e tutto questo avviene mentre esiste tutto un settore di elettorato che è schierato molto più a destra, che manifesta un’aperta estraneità a questo genere di dibattiti, pur nella sostanza non volendo difendere in alcun modo lo status quo, che oggi è principalmente difeso da quella varietà di sinistra non marxista.

Il dibattito politico quindi, malgrado le novità soprattutto rappresentate dalla nascita di un pensiero ambientalista, seppure agli inizi, incerto, ed alquanto “dilettantesco”, rimane ingessato in questa contrapposizione che ormai appartiene ad un altro tempo storico. Qualuque novità teorica in politica viene nei fatti contrastata dal monopolio del potere dominante e dal monopolio del pensiero alternativo che si ispira a Marx, che in questo aspetto diventano complici.

Tuttavia, questo non è ancora il problema principale. Consideriamo il fatto che qualsiasi teoria politica aspira, pena smettere di far parte della politica, ad uscire dalla teoria per divenire motore di una trasformazione politico-sociale. Perché ciò avvenga, bisogna che essa diventi patrimonio condiviso di una comunità abbastanza estesa ma soprattutto abbastanza coesa e determinata, tendendo ad incontrarsi con il consenso popolare, che inevitabilmente sarà legato a uno stato di insoddisfazione. Nessuno meglio di Lenin ha approfondito questo aspetto dell’importanza del momento organizzativo tramite un’avanguardia che voglia esercitare un’egemonia sulla società. Ed è proprio questo l’elemento che più manca oggi, prevalentemente io credo per motivi che si correlano strettamente alla psicologia individuale.

In sostanza, il libertarismo, erroneamente considerato a sinistra come un’alternativa al liberalismo, ma nei fatti invece un suo aspetto precipuo, spinge alla valorizzazione della scelta individuale, al fatto che ciascun individuo ha diritto a manifestarsi in maniera autonoma. Poco importa che l’individuo a rigore non esiste, che siamo tutti membri di una collettività, che noi stessi siamo il prodotto di più fattori convergenti, tra cui quelli sociali hanno un ruolo determinante. Si tratta di un discorso che non viene accettato soprattutto dai giovani, anche chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza dell’omologazione sociale che procede proprio parallelamente all’esaltazione dell’individualità: guardare in faccia la realtà, significherebbe dovere abbandonare il pensiero dominante che naturalmente permea così profondamente le nostre menti da resistere pervicacemente anche all’evidenza dei fatti.

Il risultato è che perfino in movimenti chiaramente orientati come alternativi al sistema dominante, si tende a connotare il concetto di spontaneo come positivo, proprio ciò che sostiene il liberalismo. Basti citare il caso di ALBA, in cui si va verso la demonizzazione di ogni aspetto organizzativo esaltando lo spontaneismo e una forma di egualitarismo che sconfina con l’uniformità. Il risultato è quello di avere un gruppo dirigente che viene a livello mediatico identificato con il movimento, e che pertanto non ha bisogno di legittimazione all’interno dello stesso movimento, anzi si potrebbe dire che è il movimento a trarre legittimazione dal gruppo dirigente fondatore.

Il punto è che se ciò a cui perveniamo spontaneamente è positivo, non si capisce perché dovrebbe esserci bisogno di agire politicamente, ed infatti i veri liberali vogliono uno stato minimo che coincide con una minimizzazione dello spazio della politica, tutto affidato ai mercati, il mercato come paradigma del funzionamento sociale. La politica, in quanto si pone il problema dell’intera collettività e dell’intera umanità, non può non confrontarsi con il momento organizzativo.

Il risultato di questa confusione che pretende di lottare contro il liberismo a partire da un punto di vista libertario è che non esiste una struttura organizzativa in grado di fare giungere al complesso della società dei contenuti coerentemente alternativi, lasciando di fatto inerme la gran parte della gente a subire i danni del potere che a parole in tanti pure credono di lottare.

Mentre negli anni cinquanta il PCI costituiva una struttura che accoglieva le spinte antisistema trovando sbocchi in successi parziali ma innegabili e fornendo invece spazi di mediazione dove l’obiettivo si giudicava troppo ambizioso ed irrealistico, ai nostri giorni il massimo carattere alternativo si manifesta in microcomunità che propongono al loro interno modi di vita in qualche modo differenti da quelli dominanti, ma che non hanno alcuna finalità di generalizzazione del loro modo di pensare.

Recenti avvenimenti vanno confermando questa situazione. Pensiamo ad esempio alla lotta NOTAV che rischia sempre più di radicalizzarsi, assumendo caratteristiche in qualche misura simili a quelle militari proprio a causa del combinarsi di interessi opposti enormi che non vogliono cedere, e della carenza di altri obiettivi.

Allo stesso modo, una politica inaugurata da Napolitano nel novembre del 2011 con l’insediamento del governo Monti che pretende di ignorare i risultati elettorali rinviando ad istanze extra-nazionali (siano esse l’europa oppure i mercati) e quindi non democraticamente controllabili il momento decisionale, ha condotto a una sempre più marcata stensione dalle elezioni. Sembra in effetti una risposta molto razionale, se le decisioni non dipendono in maniera sperimentabile dai miei comportamenti elettorali, perché mai dovrei andare a votare?

Si va quindi delineando almeno nel periodo breve, a una parallela tendenza autoritaria di un potere il cui autoritarismo cresce al crescere della sua disperazione, e dall’altra parte ad un ribellismo che sostituisce gli strumenti democratici di espressione previsti dalla nostra costituzione, significativamente sempre sottoposta a tentativi di revisione più o meno incisiva, talvolta portati avanti con successo nel silenzio consentito da una stampa compiacente fino ad essere complice.

Così, la costruzione della nostra repubblica democratica è sottoposta a un attacco da due fronti a cui c’è un timore fondato che non resista con esiti ad oggi incontrollabili. Forse, il potere troverà un metodo per mantenere una parvenza di democraticità, ma dovremo convivere comunque con un  ribellismo che potrebbe diventare molto cruento, due opposte disperazioni che non possono che confliggere senza riconoscersi e quindi senza santuari e senza tregue.

2 commenti:

  1. Il rischio più grave, che è covato dall'astensione sempre più massiccia nelle tornate elettorali, è che una minoranza "organizzata" possa prendere il potere attraverso la via democratica dei premi di maggioranza. Se a Roma, oggi, si confermerà lìalta astensione, avremo che una minoranza del 20% (ad essere ottimisti) degli aventi diritto di voto decide le sorti dell'80% degli altri.
    E' un fatto gravissimo e pericolosissimo.
    Forse chi oggi detiene il potere conta di concentrare così ulteriormente lo stesso, pensando di riuscire comunque a governare le eventuali derive. Ma il fenomeno Grillo sta lì a dimostrare che sarebbe bastato solo un altro pochetto, se non fosse stato per la forza ancora di Berlusconi, per arrivare al potere da parte di una forza estranea alla politica classica. Grillo non è Mussolini o Hitler, ma è l'indicatore dello sfaldamento democratico delle istituzioni.

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    1. Scusa, ma la cosa è già andata ben oltre rispetto alla prospettiva che tu consideri pericolosa.
      Abbiamo forse dimenticato ch per quasi un anno e mezzo abbiamo avuto un governo guidato da un signore, Monti, che non aveva beccato neanche un suffragio (anzi, uno sì che l'aveva beccato, quello di napolitano)?
      Il consenso è un lusso che oggi chi ha il potere crede di non potersi più permettere. Oggi basta che "ce lo dica l'Europa" o "ce lo dicano i mercati".

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