sabato 16 maggio 2009

LE MIGRAZIONI (PRIMA PARTE)

Vorrei ritornare sull’argomento migrazione,e stavolta partirò da lontano.
La prima domanda che vorrei pormi è: quali sono le condizioni che stanno alla base delle migrazioni a cui assistiamo?
Che popolazioni umane si siano spostate nel corso dell’umanità da una zona ad un’altra, è cosa nota, come è anche noto che esistono popoli che posseggono una cultura nomade, e per cui quindi la migrazione non costituisce un evento puntiforme, ma una consuetudine di vita. In ogni caso, l’uomo ha potuto popolare l’intero globo proprio migrando: in base ai reperti di preominidi, sembra certo che l’evoluzione verso l’uomo sia avvenuta in uno specifico luogo soltanto, e da lì, probabilmente alla ricerca di condizioni di vita più favorevoli, si è diffuso colonizzando ogni più remoto angolo del pianeta.
Abbastanza presto nella storia dell’umanità, la destinazione della migrazione non fu più verso un luogo disabitato, ma anche verso zone già popolate da altri popoli. Tralasciando i grandi imperi dell’antichità, quali quello persiano, macedone e poi romano, che in realtà riguardavano conquiste militari mediante eserciti, le notizie che vanno più indietro nel tempo riguardano i cosiddetti “barbari”. L’impero romano, che per secoli costituì praticamente l’universo del mondo civilizzato, quanto meno di quello occidentale, e comunque così si autoconcepiva, subì una serie di incursioni da parte di popoli che provenivano dal Nord Est: non me lo chiedete, non capisco neanch’io perché in quelle lontane terre si facessero a quel tempo tanti e tanti figli, da riuscire a popolare mezza Europa! Queste incursioni erano certamente armate, ma si qualificavano soprattutto perché, o erano accompagnate, o erano seguite a breve termine dalla loro intera popolazione, donne e piccoli compresi. Le migrazioni erano fenomeni ostili, erano la conseguenza principalmente di pressioni di carattere demografico, e avvenivano tra popolazioni del tutto estranee l’una all’altra.
Facciamo ora un bel salto ed arriviamo ai nostri tempi. Anche oggi, naturalmente mi verrebbe da dire, le migrazioni continuano. Ciò conferma la loro natura di fenomeno permanente. Cosa è cambiato da allora? E cosa è cambiato rispetto a un recente passato, la mia giovinezza senza andare tanto lontano, quando questi fenomeni non avvenivano o quanto meno erano più ridotti?
Se si guarda in modo tendenzialmente obiettivo al fenomeno, alle sue modalità e dimensioni, alle sue articolazioni temporali, ci si accorge che la pressione verso l’immigrazione nei paesi ricchi, ha alcuni presupposti essenziali, che ovviamente ne condizionano il modo in cui si manifesta.
Il primo elemento direi che sia l’informazione: tu fai un progetto di vita perché sai che esiste un mondo in cui abbondano quei beni che dove sei nato mancano. Quest’informazione, necessariamente sommaria e in definitiva deformata fino a divenire sostanzialmente falsa, proviene da noi stessi: la prima cosa che il mondo sviluppato diffonde è la stessa propria immagine. Essa viaggia soprattutto tramite le TV satellitari, anche se certamente internet da’ anche il suo contributo.
Il secondo elemento è il disagio della situazione in cui si vive nel proprio paese. Tale disagio può avere più cause. Fondamentalmente, si potrebbero dividere in due tipologie: cause politico-ideologiche, e cause di scarsità di risorse vitali, in primis quelle alimentari.
La situazione politica dell’Africa appare in verità caratterizzata dalla presenza di numerose dittature, spesso di tipo golpista-militare, a volte apertamente sanguinarie. La qualità dei governi africani è mediamente pessima, se evitiamo di usare inutili eufemismi.
Dal punto di vista agro-alimentare, la situazione è forse perfino peggiore. Malgrado in Africa la mancanza di attrezzi agricoli rendesse sempre faticosa la cura dei campi e bassa la produzione unitaria, c’era cibo sufficiente per sfamare le popolazioni locali, tranne in casi specifici di carestia da siccità o da cavallette, o altre calamità. Ciò che ha reso drammatica la situazione alimentare è stata la diffusione della monocoltura. Si tratta di questo: una multinazionale alimentare va da questi poveri produttori, e chiede loro di riconvertire le loro colture da sopravvivenza in colture specializzate. Naturalmente, la multinazionale mette a disposizione i mezzi tecnologici e garantisce l’acquisto integrale del prodotto: chiede solo ai produttori di mettere a disposizione il loro terreno e la loro opera.
E’ così che sorgono enormi zone coltivate tutte per lo stesso prodotto. Si può trattare di banane, caffè, cacao, o altri prodotti che possono usufruire delle alte temperature locali. Questa è la monocoltura, il cui scopo finale, mediato dal profitto a beneficio della multinazionale, è l’approvvigionamento dei nostri mercati con tali prodotti, acquistati a prezzi più alti o non ottenibili affatto nelle nostre condizioni meteorologiche. Come si comprende, il produttore locale che, in assenza dell’intervento delle multinazionali, operava in una situazione di equilibrio, magari precario, ma comunque in grado di autoregolarsi, diventa ostaggio “nostro”. Deve solo sperare che il suo terreno venga ancora utilizzato dalla multinazionale. Se per qualunque ragione, sia essa di mercato finale, sia di individuazione di situazioni più favorevoli per l’azienda alimentare che funge da committente, il suo terreno non serve, egli ha perso ogni possibilità di sopravvivenza. Non è così facile riconvertire un terreno in breve tempo, e nel corso dei decenni certi procedimenti di cura e risparmio potrebbero essersi persi nel suo patrimonio culturale.
Infine, anche i regimi politici dominanti in Africa sono sostanzialmente determinati dal mercato delle armi. Questo è saldamente in mano al mondo sviluppato che ne trae margini di profitto difficilmente conseguibili in altri settori. C’è in verità un fattore culturale indigeno: l’Africa è organizzata territorialmente in etnie e non in Stati. Gli Stati esistenti sono il frutto del post-colionalismo, cioè ricalcano i confini delle colonie che, fino alla seconda guerra mondiale, coprivano quasi tutto il continente. Il fattore armamenti ha reso l’Africa un inferno. Persone senza scrupoli hanno armato specifiche etnie scatenandoli verso etnie vicine, magari sfruttando vecchie ruggini inevitabili tra popoli separati e contigui territorialmente. Dobbiamo essere consapevoli che esistono persone per cui la vita degli altri uomini, fossero anche bambini inermi, non conta nulla di fronte alla prospettiva concreta di arricchirsi. Guerre interetniche ci sono sempre state, ma ciò che le rende così spregevoli è la loro capacità di uccidere, e ciò a sua volta è appunto dovuto ai facili affari fatti da rappresentanti delle nostre società (continua).

3 commenti:

  1. La questione della monocultura da te posta, coglie perfettamente nel segno.
    Le agricolture del Terzo mondo (non della sola Africa, ma in particolare quella) si trovano sotto una sorta d'assedio economico e tecnologico da parte del cosiddetto Primo mondo.
    Spesso gli agricoltori di quella parte del mondo non possono fare altro che compare semi che sono "brevettati" da multinazionali.
    E tutto il resto, per loro, è fame nera e morte.
    Ciao.

    RispondiElimina
  2. @riccardo
    Non li vogliamo da noi questi poveri del mondo, ma non esitiamo a sfruttarne le poche risorse per le nostre sofisticate esigenze.

    RispondiElimina
  3. Il colonialismo non è finito, benchè si addobbi di nuovi alibi.
    Ma a ben vedere, i nuovi alibi non sono molto diversi dai vecchi e comunque portano ad antiche conseguenze: saccheggio delle risorse, razzismo, deportazione, guerre fomentate da noi o "importate" a casa loro a fini "umanitari" o "preventivi".
    Ciao.

    RispondiElimina