Oggi, vorrei occuparmi di questioni inerenti il mio luogo di lavoro, l’Università.
Eventi recenti, riguardanti l’area dove svolgo la mia attività, hanno stimolato la mia attenzione per l’evidente manifestarsi di elementi di arbitrio nelle valutazione svolte dalle commissioni esaminatrici. Vorrei qui indagare quali elementi normativi abbiano favorito questo nuovo e più intenso proliferare di episodi di palese iniquità nelle valutazioni adottate.
Senza allargare troppo la discussione, mi riferirò al DPR 19 ottobre 1998, n. 390, e in particolare a due specifici punti.
Innanzitutto, vorrei citare il DPR per quanto riguarda l’elencazione di quegli elementi di valutazione che vengono ritenuti obbligatori, salvo la possibilità della commissione di individuarne di aggiuntivi. Recita il testo all’articolo 2, a partire dal comma 7:
“7 Per valutare il curriculum complessivo del candidato e le pubblicazioni scientifiche la
commissione tiene in considerazione i seguenti criteri:
a) originalità e innovatività della produzione scientifica e rigore metodologico;
b) apporto individuale del candidato, analiticamente determinato nei lavori in
collaborazione;
c) congruenza dell'attività del candidato con le discipline ricomprese nel settore
scientificodisciplinare per il quale è bandita la procedura ovvero con tematiche
interdisciplinari che le comprendano;
d) rilevanza scientifica della collocazione editoriale delle pubblicazioni e loro diffusione
all'interno della comunità scientifica;
e) continuità temporale della produzione scientifica, anche in relazione alla evoluzione
delle conoscenze nello specifico settore scientifico-disciplinare.
8. Per i fini di cui al comma 7 si fa anche ricorso, ove possibile, a parametri riconosciuti
in ambito scientifico internazionale.
9. Costituiscono, in ogni caso, titoli da valutare specificamente nelle valutazioni
comparative:
a) l'attività didattica svolta;
b) i servizi prestati negli atenei e negli enti di ricerca, italiani e stranieri;
c) l'attività di ricerca, comunque svolta, presso soggetti pubblici e privati, italiani e
stranieri;
d) i titoli di dottore di ricerca e la fruizione di borse di studio finalizzate ad attività di
ricerca;
e) l'attività in campo clinico relativamente ai settori scientifico-disciplinari in cui sia
richiesta tale specifica competenza;
f) l'organizzazione, direzione e coordinamento di gruppi di ricerca;
g) il coordinamento di iniziative in campo didattico e scientifico svolte in ambito
nazionale ed internazionale…”.
Tale elencazione così puntuale di tutta una serie di elementi giudicati rilevanti alla fini della valutazione, potrebbe apparire come una misura di salvaguardia di equità e correttezza nel procedimento di individuazione dei vincitori dei concorsi.
Io mi permetto di contestare questa interpretazione. Nei fatti, questa specificazione così dettagliata dei criteri, rientra nel costume leguleio italiano, quello che fa dire che “fatte le leggi, trovato l’inganno”. Senza per il momento entrare nel merito dei singoli criteri, la questione è che proporne esplicitamente un gran numero in realtà abilita chi vuole ad utilizzarli strumentalmente. In parole povere, se il mio candidato preferito ha un solo specifico criterio in cui prevale sugli altri candidati, è un gioco da ragazzi assumere questo criterio come quello decisivo. Difatti, le norme devono decidere se demandare alla commissione una grande discrezionalità, o se invece assumere un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’operato delle commissioni. Esemplificando, se il DPR si fidasse dei commissari, allora potrebbe semplicemente recitare “tenere conto dell’attività didattica svolta nel settore considerato”. Invece, il DPR appare diffidente, ed allora cosa fa? Cita in più punti tutto ciò che non è attività di ricerca scientifica. Se rileggete il pezzo citato, di questi tipi di attività, parla nei commi 9a, 9b e 9g. In misura ancora maggiore, l’attività di ricerca compare nei commi 9c, 9d, 9f e 9g, dopo che gli interi commi 7 e 8 sono dedicati alla valutazione dell’attività scientifica.
Qual è il risultato effettivo e perverso di tutto ciò (cosa facilmente prevedibile)? Che si fornisce al commissario corrotto appigli per sostenere l’insostenibile, per fare risultare vincitore un candidato che in effetti non ne sarebbe meritevole.
Tutto ciò può impunemente avvenire perché un metodo, se vuole essere davvero garantista, deve allora essere blindato. Il DPR, adottando cioè un criterio di diffidenza sull’operato delle commissioni, avrebbe dovuto includere una tabella in cui, criterio per criterio, se ne stabilisse i limiti di peso ai fini della valutazione. Da questo, ne sarebbe dovuta conseguire una valutazione quantificata in un numero, cosa non prevista.
Non vorrei che sorgesse un equivoco: con le considerazioni che ho fatto, non intendo schierarmi perchè le commissioni lavorino su tabelle, anche perché ampi margini di discrezionalità sono inevitabilmente a disposizione delle commissioni. Il punto che io sostengo è piuttosto che il DPR fornisce un’arma carica nelle mani dei commissari più scorretti attraverso la citazione specifica di criteri che nessun decreto può promuovere da marginali a fondamentali. Che il criterio fondamentale stia nella qualità e nella quantità della produzione scientifica è per tanti di noi un’ovvietà. Ebbene, fatti recenti mostrano che questo criterio, che in tutta evidenza dovrebbe costituire il primo fondamento di valutazione, è stato clamorosamente violato a favore di altri criteri che, per il fatto stesso di essere citati esplicitamente dal decreto, consentono al farabutto di turno di servirsene per capovolgere l’esito stesso del concorso. Metaforicamente, si potrebbe dire che se una legge edilizia elencasse minuziosamente i criteri per distinguere una casa di civile abitazione da un fabbricato rurale, ciò favorirebbe paradossalmente le false catastazioni, in quanto sarebbe facile, sulla base di dettagli costruttivi classificare in maniera fraudolenta gli edifici, violando così ogni criterio di buon senso e proprio facendo leva su formalismi truffaldini.
Andiamo adesso al secondo punto del citato DPR su cui vorrei soffermarmi. Devo premettere che inevitabilmente mi riferirò al settore di mia competenza, quello delle scienze sperimentali, perché l’incompetenza sulle altre aree disciplinari mi impone di così delimitare l’oggetto delle mie considerazioni.
Riprendiamo quindi il testo che ho citato in corsivo, e andiamo a soffermarci sul comma 7b, che per maggiore chiarezza ripeto qui:
“apporto individuale del candidato, analiticamente determinato nei lavori in collaborazione”
Questo è un punto fondamentale proprio nel campo delle scienze sperimentali dove la natura stessa dell’attività nella quasi totalità dei casi impone la collaborazione. Tale collaborazione viene certificata nel testo stesso dei lavori, in cui, proprio sotto il titolo, vengono elencati gli autori.
Ora io mi chiedo perché, visto che nel produrre la pubblicazione come titolo per il concorso, ne documento il mio ruolo di coautore, il legislatore abbia sentito il bisogno di aggiungere il predetto comma. Mettiamola così: a seguito di una certa attività di ricerca, si perviene a dei risultati che si ritiene possano risultare utili alla comunità scientifica. Si scrive pertanto l’articolo e, come è ovvio, lo si firma. Quella firma costituisce la certificazione della partecipazione di quello specifico soggetto a quella attività ed allo stesso articolo. Se le cose stanno così, l’unica cosa che si può dedurre è che il legislatore non si fidi di questa certificazione, e che pertanto richieda alla commissione un’ulteriore e più autorevole certificazione.
Le domande, tra loro collegate, che sorgono a questo punto sono due:
1) Perché non fidarsi degli stessi autori, e fidarsi invece del ruolo di certificazione dei commissari? Se il mondo della ricerca è in mano a dei farabutti che certificano il falso, perché mai dovremmo fidarci dei commissari, pensare cioè che i commissari siano più virtuosi del rimanente mondo della ricerca di cui tra l’altro sono parte integrante?
2) Come fa la commissione a certificare l’effettivo contributo individuale di un determinato autore? Se, tentando di rispondere a questa seconda domanda, pervenissimo alla conclusione che non c’è modo alcuno di certificarlo, non dovremmo allora convenire che questo specifico punto è un’arma carica in mano ai commissari per fraudolentemente capovolgere l’esito di un determinato concorso?
Partiamo quindi esaminando che risposta si possa dare alla seconda domanda, visto che solo se ne esiste una che possa rivestire certe caratteristiche di obiettività, allora potremmo rispondere anche alla prima.
Vorrei quindi ripartire dalle considerazioni che ho svolto sopra: la legge, nella sostanza, chiede ai commissari di compiere una specie di indagine poliziesca per valutare cosa ci sia dietro l’elenco degli autori esposti negli articoli. Ebbene, dovrebbe risultare evidente a chiunque che solo una conoscenza diretta delle persone coinvolte, dell’attività svolta in quello specifico laboratorio, possono fornire elementi utili a tale indagine. Coerentemente allora, se questo aspetto investigativo fosse quello da privilegiare, il DPR dovrebbe suggerire di formare commissioni locali, di demandare a chi ha più elementi di giudizio di fonte diretta la valutazione dei candidati. Il DPR non fa questo, e secondo me è una fortuna. Ciò è dovuto al fatto che localmente nello stesso settore disciplinare gli interessi in gioco sono così corposi che l’obiettività necessariamente latita. Naturalmente, ciò discende dalle scarse risorse disponibili che inevitabilmente tendono a creare un clima di competitività interna. Bene fa il DPR a definire una composizione maggioritaria esterna a quell’Ateneo.
Se però togliamo l’elemento di conoscenza diretta e direi quotidiana dei fatti, cosa rimane a questi poveri commissari per potere definire i contributi personali? E’ questo il mistero insondabile, e devo confessare che le varie commissioni che si sono dovute confrontare con un simile meccanismo concorsuale hanno dovuto lavorare tanto di immaginazione.
A mio modesto parere, un commissario che voglia essere considerato onesto, dovrebbe, in assenza di altri elementi di giudizio, credere a ciò che i diretti interessati certificano col fatto stesso di essere inclusi nell’elenco degli autori. Se io non ho elementi di prova che un autore non ha contribuito per niente, o non ha contribuito abbastanza all’articolo prodotto ed all’attività di ricerca implicata, devo arrendermi e prender per buono ciò che mi viene affermato dai diretti interessati, il che in definitiva corrisponde a rifiutare il ruolo del tutto improprio di poliziotto, ed a dire al legislatore “sei un incompetente e quindi uso il mio buon senso e non le tue norme impossibili da applicare”. E’ curioso dicevo, vedere come invece altre commissioni si siano letteralmente arrampicate sugli specchi per attuare delle discriminazioni del tutto improbabili e in definitiva del tutto arbitrarie. Citerò solo un caso che tra l’altro mi pare non rivestire caratteristiche di strumentalità, e che quindi può rappresentare emblematicamente lo scompiglio in cui questa norma ha gettato la comunità scientifica. A verbale dunque di questa commissione, su cui evito di fornire dettagli ulteriori, sta l’assumere a criterio del contributo fornito dai singoli autori l’ordine dei nomi, ed in particolare chi risulti come primo nome. Ora la domanda che si impone è: chi ha scelto di porre un determinato autore come primo nome? Non saranno gli stessi soggetti che hanno definito la lista degli autori? Dunque, evidentemente la scelta di definire un criterio del primo nome poggia totalmente sulla buona fede dei soggetti che hanno concorso a realizzare l’articolo scientifico, c’è implicito il riporre fiducia nei propri colleghi. Dirò di più: perfino nel caso in cui ci fosse un unico autore, chi mi potrebbe assicurare che non ci sia dietro un “benefattore” che cede l’opera del proprio ingegno alla scopo di favorire fraudolentemente un altro soggetto? Ciò che voglio dire è che in un clima di diffidenza generale, non se ne esce più, una comunità scientifica corrotta non può che generare commissari anch’essi corrotti, ed in ogni caso impossibilitati ad accertare dove si siano compiuti soprusi ed imbrogli clienterali, e che la definizione di norme sempre più minuziose, lungi dal contrastarli, ne costituisce l’arma più efficace.