La manifestazione della FIOM di sabato è di un’importanza straordinaria. E qui non mi riferisco alla grande partecipazione che certo aiuta, non mi riferisco neanche all’ampio schieramento politico che ha voluto farla propria con la propria presenza fisica. Ciò che davvero la rende straordinaria è il suo automatico richiamo a una concretezza che il mondo mediatico in cui siamo immersi tende sempre più ad occultare, ad allontanare da noi. Dopo una settimana in cui la vicenda Scazzi ha scazzato abbastanza, se mi passate il gioco di parole, e non perché questa vicenda non sia importante e non debba trovare l’esito giudiziario corretto, ma perché martellarci i genitali con notizie sul fatto serve solo a nutrire la curiosità alquanto morbosa della gente, che dovrebbe lasciare piuttosto fare agli inquirenti. Dopo un’altra altrettanto scazzante settimana passata rimandando infinite volte il filmato del pugno letale di quel ragazzo all’infermiera di origini rumene, che ha aspetti inquietanti su cui forse mi soffermerò in altro post. Dopo tutto questo fragore dietro cui c’è il vuoto assoluto, i metalmeccanici, sempre loro, protagonisti di ben altre stagioni politiche, ci danno la sveglia, rovesciano sul tavolo i loro problemi vitali, ci ricordano che le panzane del premier non riusciranno a far apparire il cibo sulle nostre tavole.
Perché credo in questa concretezza? Ciò che più mi porta a crederlo, è la risposta davvero furente di Bonanni, segretario della CISL, ormai un vero infiltrato nel suo stesso sindacato, e di svariati membri del governo. Gravissimo il tentativo, invero grossolano di Maroni, un ministro ormai alla frutta, sempre meno credibile, di scoraggiare la partecipazione al corteo e per questa via decretarne il fallimento. Sotto la decenza le dichiarazioni di Sacconi che ha scambiato il suo ruolo di ministro del lavoro per quello di ministro della confindustria.
Buon ultimo, anche Casini ha duramente attaccato la manifestazione, dicendo che un PD che sostenesse una simile iniziativa non potrebbe spartire alcun progetto politico con l’UDC.
Finalmente, i nodi vengono al pettine, vediamo se alla fine a qualche chiarimento si può pervenire.
Io vedo come giustamente si vadano separando due piani che colpevolmente sono rimasti mescolati. L’uno è la lotta mortale tra berlusconismo ed antiberlusconismo. Questa lotta vede sul fronte schierato contro il premier un amplissimo schieramento. Diciamolo, questo antiberlusconismo ha finito per divenire una vera e propria ossessione, almeno altrettanto di quanto lo sia il berlusconismo. La teoria che Berlusconi sia il male assoluto, un pericolo immanente che richiede di allearsi anche col diavolo, ha portato a situazioni perfino paradossali quando incautamente Bersani finì con l’ammettere che a lui poteva perfino andar bene un governo Tremonti. Ha portato settori palesemente di sinistra a sostenere perfino Fini, divenuto da postfascista improvvisamente il proprio paladino.
Oggi, le cose stanno diversamente perché, quando si esce da una polarizzazione personale e si comincia ad affrontare il merito dei problemi, si scopre che certe frequentazioni sono impossibili, che non c’è antiberlusconismo che tenga, se l’uscita da questo incubo politico non comporta un conseguente cambio di linea politica. Tremonti e i suoi sodali leghisti rappresentano in modo emblematico la falsa alternativa a berlusconi che ci troviamo di fronte. Questi rappresentano perfino in maniera più fedele e conseguente una politica che potremmo definire antipopolare.
Dal punto di vista economico, come vado dicendo da tempo in svariati post, la crisi in cui ci dibattiamo dal 2008 ha assunto un suo carattere specifico e peculiare come forse non si era mai prima osservato lungo l’intera storia del capitalismo. Di fronte al volume dei mercati finanziari di oggi e della dimensione enorme dei movimenti di capitale a livello mondiale, la capacità delle autorità statali di fronteggiare la famosa bolla speculativa scoppiata l’autunno di due anni fa si è mostrata illusoria. Di fronte a un volume di titoli spazzatura dell’ordine della vertiginosa cifra di cinquantamila miliardi di dollari, gli stati hanno immesso liquidità per circa un decimo, una cifra di tutto rispetto, ma evidentemente una frazione del tutto. La cosa sbalorditiva è che quei titoli spazzatura stanno ancora in giro, pronti forse a scatenare una nuova bolla speculativa. I cinquemila miliardi di dollari sono stati utilizzati per salvare il sistema bancario da un fallimento globale. Il risultato è però che la crisi finanziaria ha presto investito l’intera economia, con l’aggravante che gli stati si trovano in difficoltà di bilancio per gli aiuti forniti alle banche.
Questa crisi è palesemente il frutto di un trentennio di liberismo sfrenato in economia, che ha portato, tanto per utilizzare un parametro facilmente decifrabile, a far diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, fino all’indigenza, e stiamo parlando dei paesi più sviluppati.
Eppure i governi di tutto il mondo, anche quelli che si professano dichiaramene socialisti o socialdemocratici, anche il governo USA di Obama, schierato chiaramente nella parte più a sinistra della politica USA, non sembrano mettere in dubbio questa onda liberista. La crisi, almeno fino ai nostri giorni, sembrano al contrario rafforzare i falchi dell’economia, quelli per cui il liberismo non è mai abbastanza.
C’è un’altra emergenza che avanza, è quella ecologica. I disastri ambientali che abbiamo osservato in questo anno tuttora in corso non hanno eguali nella storia, in quella che conosciamo, per numero e dimensione dei disastri. Soprattutto, mai tali disastri sembrano essere stati correlati in maniera facilmente ricostruibile all’attività antropica. Se il terremoto ad Haiti non sembra richiamare una responsabilità umana, se non per quanto attiene la prevenzione dei danni mediante la qualità degli edifici, per inondazioni, incendi per ondate di caldo sbalorditive, riversarvi di inquinanti di ogni tipo ad opera dell’uomo dovrebbero richiamare l’umanità a riflettere sui limiti dello sviluppo, sulla parola che dovrebbe divenire il faro di riferimento dell’umanità, la sostenibilità.
La crisi quindi dovrebbe rappresentare una straordinaria occasione per un ripensamento dei paesi in una comune riflessione a livello mondiale per procedere ad una svolta sociale ed economica davvero rivoluzionaria, che io formulerei come il separare il problema dell’occupazione da quello dello sviluppo, di come cioè andare alla piena occupazione senza che sia necessario aumentare parallelamente il PIL.
Di fronte a problemi di questa rilevanza, di fronte alla loro dimensione globale, lo scontro omerico in cui il discrimine sia costituito da un patetico buffone che occupa la scena politica appare per quello che è: un dettaglio pressoché insignificante che personalmente non riesce ad appassionarmi.
Le tute blu in piazza possono rappresentare l’elemento decisivo per fare risaltare la vacuità di certe ipotesi raffazzonate di alleanze politiche, per fare invece avanzare nuove idee, quelle che inevitabilmente dividono.
Scusa la mia abissale ignoranza, ma più lavoro non dovrebbe significare anche più produzione? Più lavori la terra, più otterrai prodotti, o sbaglio? Tu ne parli spesso, ma ancora io non riesco a capire quale sia il modo realistico per giungere alla piena occupazione. Chiudiamo le fabbriche ed andiamo tutti a zappare la terra? Non mi sgridare troppo! :-)
RispondiEliminaQuel superamento del rapporto occupazione/PIL è superabile solo lasciandoci alle spalle l'ideologia sviluppista. Penso, ad esempio, a quanti posti di lavoro potrebbero crearsi in tutta Italia, con la messa in sicurezza delle scuole.
RispondiElimina@Ornella
RispondiEliminaNon si tratta certo di una cosa facile, seppure assolutamente necessaria.
Si può lavorare su due distinti fronti. L'uno può essere la riduzione dell'orario di lavoro.
L'altro riguarda meccanismi di contenimento della concorrenza. Ciò si può ottenere sia tramite un accordo internazionale, che tramite misure di controllo dell'import-export, anche da parte di singoli paesi. Se si riesce infine a comprendere che la concorrenza è la fune a cui rischiamo di impiccarci, forse qualcosa si può fare, ed in ogni caso non si può fare a meno di tentare.
@Ramingo
RispondiEliminaSeppure l'espressione "lavori socialmente utili" abbia assunto, a causa della gestione clienterale, un significato dispregiativo, se rimaniamo al senso reale dell'espressione, non v'è dubbio che di lavori socialmente utili ce ne sarebbero a volontà. Il problema è il mercato, un mercato ormai definitivamente dominato da una cupola affaristico-mafiosa, a cui gli stati, anche i più potenti, sembrano essersi piegati.