Luca Ricolfi è un editorialista politico de “La stampa”, che ha, a quanto pare, un’idea fissa in testa, il federalismo. Egli, abilmente, si guarda bene dallo schierarsi apertamente a favore del federalismo, non intende farsi identificare come leghista. Egli piuttosto, sostiene che la questione del federalismo stia al centro della politica, vuole insomma apparire come uno studioso che si limita a constatare fenomeni obiettivi che avvengono sotto i suoi occhi, come un fisico che assistesse al moto di un grave e eseguisse delle misure allo scopo di comprendere il fenomeno, guardandosi bene, ovviamente, dall’esprimere una preferenza verso il modo in cui il fenomeno si manifesta. E’, dicevo, una posizione abile, perché non richiede nessuna assunzione di responsabilità, lasciandogli il comodo compito di studioso. L’efficacia di questo approccio al federalismo è che le sue affermazioni, fatte da una persona che non si dichiara di parte, sembrano per questa stessa ragione più autorevoli. E’ un po’ come le pubblicità che reclamizzano prodotti con il testimonial rigorosamente in camice, il camice che ne certifica il suo ruolo di esperto, con ciò stesso conferendo al suo messaggio un’autorità assoluta, la stessa che questa società attribuisce alla scienza.
Io, che sono un po’ più smaliziato, quanto meno in virtù della mia età, non mi faccio abbindolare da questo atteggiamento, chiederei al giornalista di essere convinto, e per convincermi, mi occorrono argomentazioni. Peccato che, come è costume dominante sulla grande stampa, le affermazioni sono sempre fatte in stile apodittico, pretendono cioè di essere di per sé evidenti. Tutta questa storia del federalismo, in verità, viene portata avanti con questo stile di autoevidenza, che tende a inibire qualsiasi obiezione contro di essa: come dire, ma se non capisci una cosa tanto ovvia, devi proprio essere abbastanza tonto. Quando finalmente finirà quest’orgia di potere di queste nuove destre, si potrà fare la storia delle rivoluzioni linguistiche che sono intervenute in questo periodo, cambiando profondamente il nostro mondo simbolico. La più grave è forse dovuta alla Lega, i cui componenti non si sottraggono alla consuetudine di dire baggianate con un tono sicuro e che non ammette repliche: più la sparano grossa, più pretendono di essere dalla parte della ragione.
Tornando a Ricolfi, in un suo recente articolo, egli, criticando PD e PDL, dice che la questione del federalismo fiscale, aggiungendo anche il problema dell’assetto istituzionale dello stato, spacca entrambi i partiti, finendo addirittura per far perdere senso alla consueta contrapposizione sinistra-destra. Il vero centro della politica italiana è costituito dal federalismo fiscale, ed egli lo intende come un’esigenza per la modernizzazione del paese (sic!). Ora, non è che io sia particolarmente affezionato a questi termini in politica, ma mi pare che ci sono motivazioni ben più serie che ne possono mettere il crisi l’utilità semantica, e mi pare francamente una sciocchezza credere che, udite udite, sia il federalismo a mettere il crisi lo stesso concetto di destra e sinistra.
Sul federalismo dovrò tornare, qui vorrei solo ricordare le risibili motivazioni che Tremonti portò quando fu ospite di “Annozero” per sostenere questa sua visione federalista. Dunque, la prima delle due motivazioni era che solo chi sta in un luogo può conoscere le problematiche del posto. Stiamo scherzando, nell’era di internet, quando tutte le informazioni circolano vorticosamente in tutto il mondo, abbiamo bisogno di essere fisicamente in un posto per conoscerlo, stiamo scherzando? La seconda motivazione è che il federalismo fiscale impone una responsabilità a chi assume una autonoma responsabilità di gestione di bilancio. Anche qui, ma stiamo scherzando? Qualcuno dovrebbe avvisare Tremonti che la Regione Siciliana ha la sua autonomia addirittura prima della promulgazione della Costituzione, dal 1946 se non erro. Vogliamo esaminare con quali esiti, con quale uso distorto delle risorse finanziarie? La mia esperienza è esattamente opposta: man mano che si scende lungo la scala del potere, coinvolgendo nella gestione chi vi è più vicino, le cose peggiorano. Chi vede a portata di mano quell’interesse specifico e privato a cui tanto tiene, dell’interesse generale se ne sbatte. Se ne è in grado, tenta di fregare il vicino di stanza. Dico cioè che coinvolgere una comunità nella gestione delle proprie risorse significa anche, non bisognerebbe dimenticarlo, coinvolgere il singolo individuo nella gestione delle proprie personali risorse. E secondo voi, cosa prevarrà?