lunedì 31 ottobre 2011
IL MIO SECONDO LIBRO PROSSIMO VENTURO
Frutto di anni di riflessioni abbastanza solitarie, è stato messo giù senza l'ausilio di una massa di letture sufficientemente elevata da inserirsi incisivamente nel dibattito politico-filosofico contemporaneo.
Ciononostante, esso costituisce senza dubbio il condensato della lenta e sofferta maturazione di una serie di idee che, seppure spazino in un campo di saperi troppo vasto, posseggono comunque una loro originalità. Certo, la carenza di un'erudizione adeguata in materia, finisce talvolta, come ho dovuto verificare attraverso i testi letti in questi ultimi anni, col farmi riscoprire tesi già sostenute da altri autori ben prima della mia personale enunciazione.
A questo punto, ho considerato quali tra le idee espresse nel mio primo libro possano tuttora essere considerate originali, e proprio in questi ultimi mesi mi sono messo al lavoro per scrivere un secondo libro che si concentrasse sui concetti più innovativi, senza tornare sul resto della mia elaborazione così come viene svolta nel testo già pubblicato.
C'è però un aspetto di questa mia prima opera che deve essere preservato, e cioè la sua pretesa di organicità, cioè quello spirito del progetto che fin dall'inizio intende tenere assieme discipline così differenti come la filosofia, l'antropologia e la politica in primis. Ciò che insomma voglio preservare è l'ambizione del progetto di fornire una visione del mondo alternativa al pensiero dominante senza ricadere necessariamente in Marx, a quanto pare rimasto, seppure alquanto consunto, l'unico baluardo ideale alternativo.
Ciò che avviene è però che, quando a una determinata tesi se ne oppone sempre un'altra, questa finisce per costituire l'universo delle alternative possibili, e da questo punto di vista non può non essere coinvolta anch'essa nella critica svolta alle ideologia dominanti.
Trattndosi di un secondo libro, ho la possibilità di lasciare fuori la maggior parte delle considerazioni filosofiche, visto che ciò che su questo versante ho scritto nel primo libro può essere sufficiente anche per questa nuova impresa.
Pertanto, gli aspetti che riprenderò ampliandoli e argomentandoli più ampiamente saranno i seguenti:
- Critica dell'antropologia liberale e di quella marxista, necessità di rifondazione dell'antropologia e fissazione delle linee innovative.
- Critica dell'economicismo, della tendenza cioè a vedere l'economia come una tecnica che come tale determina automaticamente certe scelte.
- Critica del modello della crescita ininterrotta e assunzione piena del concetto di sviluppo sostenibile.
- Critica dell'evoluzione del principio dell'uguale libertà che ha determinato il ristretto ring delle contese politiche fino ai nostri giorni tra chi fa prevalere la libertà e chi l'uguaglianza.
- Proposizione di un neoumanesimo, cioè di un sistema di pensiero che rimetta l'uomo al centro della politica.
- Ipotesi istituzionali per una struttura statale coerente con un progetto neoumanistico.
Naturalmente, ognuno di questi potrebbe essere considerato alla stregua del titolo di un capitolo, e che va adeguatamente sviluppato ed argomentato, cosa ovviamente impossibile qui.
Vi aggiornerò sullo sviluppo del progetto-libro.
venerdì 28 ottobre 2011
DEL PARTITO EUROPEO, DI BERLUSCONI E DEI NOSTRI GUAI
Da un po’ di tempo mi trovo nella scomoda situazione di sfatare un’opinione che non esito a considerare perfino assurda, secondo cui da una parte ci sta Berlusconi e dall’altra l’Europa. Secondo costoro, l’imprenditore brianzolo che ci troviamo ancora tra i piedi, è la fonte di tutti i problemi che abbiamo in Italia, a fronte di un’Europa virtuosa che il cattivone che ci governa ci impedisce di fare.
In effetti, la presenza di Berlusconi costituisce più che una fonte di grande aggravamento del danno, un ingombro, un impiccio a una visione più trasparente della situazione.
Vorrei così proporre uno sguardo che ai puri fini di una maggiore chiarificazione, prescinda dal nostro premier, faccia cioè finta che il tanto auspicato suo abbandono della politica sia già avvenuto. Di fatto, Berlusconi è già cotto a puntino, e molti dei suoi lo abbandonerebbero se solo ci fosse una reale alternativa, così che la questione della sua uscita di scena sembra per molti aspetti solo una questione di tempo.
Il vero partito che avanza in Italia è quello europeo, nel senso dell’establishment europeo. I più influenti componenti italiani di questo circolo esclusivo sono Napolitano, Draghi, Letta, Casini, forse D’Alema, un po’ in sofferenza ultimamente,e costoro sono seguiti fedelmente da uno stuolo di subalterni pronti a tutto pur di compiacerli.
Ormai le vicende legate alla tempesta finanziaria che si è scatenata sull’Italia si sono chiarite.
Esse mostrano impietosamente la pochezza di questa classe dirigente europea. Ad esempio, la vicenda della lettera della BCE al governo italiano è di una gravità inaudita.
Premettiamo che per statuto, la BCE è tenuta a dare pubblicità a tutti gli atti formali che essa compie. Ebbene, la lettera è stata a lungo tenuta segreta. A richiesta, Trichet dichiarò che la BCE aveva mantenuto la segretezza per esigenze interne italiane. Ora sappiamo che si tratta di una menzogna, era la stessa BCE che non voleva fare sapere di avere richiesto una nuova legislazione del lavoro. Che un funzionario di altissimo livello, che non dovrebbe avere competenze politiche, e la cui autonomia viene preservata accuratamente mediante un’apposita normativa, non abbia neanche il coraggio di dire la verità, è illuminante sulla statura di questa classe dirigente, ormai ridotta a dire le bugie per mantenersi a galla.
Se andiamo adesso agli eventi più recenti, è altrettanto sconfortante constatare come questi politici europei che avrebbero lanciato chissà che ultimatum, alla fine si contentino semplicemente di una lettera d’intenti, un nulla travestito da niente, una quisquilia. Dalle solite indiscrezioni, sappiamo qualche dettaglio in più. Quando berlusconi ha mostrato una prima versione della lettera a Napolitano, qualcosa è successo che ha costretto Gianni Letta a modificarla. Qualcuno potrebbe supporre che Napolitano si sia consultato con Draghi, Trichet, forse la stessa Merkel, e tutti assieme costoro abbiano deciso di imporre a Berlusconi quella norma sui licenziamenti che adesso tanti problemi sta creando al governo.
Allora, se togliamo di mezzo il giullare nostrano che crea soltanto confusione nella mente della gente, appare una realtà evidente, l’establishment finanziario globale in versione europea non fa che seguire le orme degli USA, fa le stesse cose ma a scoppio ritardato, con i danni connessi a tale ritardo.
Essi insomma si muovono su due piani: da una parte, agitano la crisi come spauracchio per diminuire il reddito dei più poveri, per ridurne le garanzie in tema di condizioni di lavoro dall’altra, stampano banconote, cioè seguitano a praticare la stessa politica che ha portato allo scoppio della crisi finanziaria. E’ una ricetta che anch’essi sanno che non potrà essere risolutiva, ma che importa? Il fine vero è quello di galleggiare ancora per un po’, garantendosi i propri stipendi e le propria ricchezze, ed ognuno di costoro spera evidentemente di sfilarsi giusto in tempo prima del big bang, del grande scoppio, quello che inevitabilmente arriverà tra alcuni anni, neanche tanti in verità, e a cui non ci sarà alcuna soluzione, improvvisamente tutti con titoli e probabilmente banconote che saranno carta straccia, come nella repubblica di Weimar, dove occorrevano le carriole per trasportare le banconote e dove il prezzo del pranzo al ristorante cresceva durante la consumazione.
Se le cose stanno così, e non capisco come si possa sostenere il contrario, qui la divisione non può più basarsi su Berlusconi, questa è una divisione per allocchi, la divisione si deve per forza basare su chi ammette che un sistema è fallito e decide di cambiare completamente sistema prima che il big bang ci travolga miseramente, e chi invece minimizza, propone politiche di lacrime e sangue alla fine delle quali ci sarà comunque il tracollo che, allo stato degli atti, è inevitabile, facciamocene una ragione.
Meglio, molto meglio, abbandonare il tavolo di questa bisca dove ci siamo seduti, che rimanerci ancora con la pretesa assurda che ci rifaremo. Ce ne andremo con molti meno soldi di quanto ne avevamo quando siamo entrati, ma comunque qualcosa ci sarà rimasta in tasca.
Abbandonare la bisca, significa uscire dai mercati finanziari globalizzati, dare default, trovare un modo di limitare i danni alle persone restituendo quel che si può ai detentori di titoli del nostro stato, adottare politiche protezionistiche, e pagare le materie prime, nella misura strettamente necessaria, tramite risparmio energetico e riciclo dei materiali (in primis i metalli), mediante le risorse del turismo di alto livello, e dell’alta moda, il lusso non muore mai.
Vogliamo sentire dai partiti che intendono proporsi alle prossime elezioni cosa pensano di queste cose, anzi come essi si schierano, se predicano un'austerity senza sbocchi positivi, o accettano di rischiare verso un mondo davvero differente.
martedì 25 ottobre 2011
LA FALSA DEMOCRAZIA DEI TALK SHOWS
Durante il programma “TV talk”, rubrica del sabato pomeriggio, il conduttore di “Piazzapulita”, in risposta a un altro intervento ha testualmente affermato che avere contraddittorio in TV costituisce una forma di democrazia.
E’ una frase che credo riassuma tutto ciò che non va nei talk show politici che abbiamo almeno in Italia (altrove non so).
Qualcuno spieghi a Formigli che le cose sono un po’ più complicate.
Facciamo un esempio. Supponiamo che in una certa comunità si formino tre differenti opinioni, ed a qualcuno una delle tre non garbi completamente. Può naturalmente controbattere in maniera esplicita a questa tesi, ma ciò costa fatica ed è soggetta ad insuccessi. Allora, un metodo furbetto potrebbe essere quello di organizzare un bel dibattito tra i sostenitori delle altre due posizioni.
La furbizia ovviamente consiste nell’individuare nelle due posizioni l’universo delle opzioni possibili. In TV le cose vanno proprio così, pensate ad esempio ad un bel dibattito tra Enrico Letta e la Santanchè. Cosa ci può essere di più democratico di un dibattito tra i rappresentanti dei due maggiori partiti italiani? Eppure, noi sappiamo che questi due individui, lungi dall’esaurire tutte le possibili opzioni politiche, in realtà interpretano due posizioni coincidenti al 95% e proporre un loro dibattito significa costringerci a discutere di quel 5% che li separa, ed ignorare così il restante e preponderante 95% che hanno in comune e che una certa parte di cittadini non condivide.
Ora, il punto è che questo è un problema di carattere generale. Da un esempio abbastanza banale si può già intravedere quanto sia complesso il problema della definizione e della realizzazione di condizioni democratiche.
Ciò è tanto più vero in una società estremamente conformista come la nostra. Se facciamo coincidere la democrazia col dare la parola sia al PDL che al PD, o magari col garantire la parola a tutti i partiti rappresentati in Parlamento, nella realtà facciamo un’operazione di negazione più vera e più radicale di democrazia nel momento in cui escludiamo dall’universo delle opinioni possibili quelle che non hanno già rappresentanza in parlamento.
E’ l’impostazione preferita da Ballarò, che anzi è proprio costruita sulla divisione in due campi avversi dei partecipanti al dibattito. Poco importa a quel punto che questi si collochino fuori dai partiti, il farli sedere a destra o sinistra già li etichetta e in qualche misura li costringe a schierarsi da una parte. Tutto il dibattito è appunto costruito sulla contrapposizione, su un clima in definitiva da stadio: o sei romanista o sei laziale.
Chi è più anziano ricorderà uno dei primi programmi condotto da quel furbastro di Gianfranco Funari, che divideva il pubblico in due schieramenti contrapposti, e quindi verrebbe da dire nulla di nuovo, il clima da stadio piace.
In parte, anche Annozero seguiva uno schema analogo. Sappiamo che anche la legislazione sulla “par condicio” ha influenzato le scelte dei conduttori, e si tratta in effetti di una trappola terribile.
Ciò che comunque dovrebbe essere chiaro a tutti, è che la scelta di un gruppo di ospiti che non possono che essere in numero molto limitato, risulta sempre limitativa delle opinioni possibili e che per chi non partecipa, l’esistenza di un dibattito tra posizioni differenti è la situazione peggiore possibile in quanto nulla è più efficace nel mortificare una certa opinione che l’essere completamente ignorata.
Ora, questi talk shows finiscono sempre più per somigliare ad un teatrino, in cui i protagonisti recitano una loro parte. Anzi, siamo in piena commedia dell’arte, ognuno impersona una maschera, chi Arlecchino, chi Pantalone, e ciò richiede che i personaggi invitati siano sempre gli stessi, o meglio vengano pescati da un insieme ben delimitato, che sapientemente comprende parlamentari, esperti a vario titolo, giornalisti, polemisti e personaggi televisivi.
Così, capita abbastanza spesso che un conduttore di talk show partecipi ad un altro talk show come invitato, in un meccanismo di specchi che riflettono lo stesso oggetto, moltiplicandone a piacimento le relative immagini.
Siamo quindi in un circolo autoreferenziale che oggettivamente si impone al pubblico come una totalità. Come chiunque di noi finisce col frequentare più o meno sempre le stesse persone, parenti ed amici che si rinnovano lentamente, così la TV si presenta come un circolo chiuso che comprenderà un numero non molto maggiore di cento personaggi che si danno il cambio anche con funzioni diverse, una volta magari conduttor,e un altro invitato.
Devo dare atto a Gad Lerner che il suo programma costituisce comunque un’eccezione, visto che il ricambio di ospiti è in qualche misura assicurato, molto più che in qualsiasi altro programma.
Rimane da capire perché i conduttori insistino tanto sulle stesse persone, quando è facile anche sul web pescare le opinioni più disparate, a volte ben argomentate. Il nome noto aumenta l’audience forse, ma dubito che questo sia l’unico motivo di questo insistere sugli stessi personaggi. Sospetto che essi subiscano robuste pressioni dai loro editori, ma forse anche questa spiegazione è parziale.
In questa situazione, mi sembrerebbe più democratico, non me ne voglia Formigli, al contrario far sentire una voce per volta. Se un conduttore intervista un unico personaggio, la situazione di parzialità è palese, una persona non può rappresentare da sola un universo di opinioni, al prossimo appuntamento, ci sarà una voce differente. Naturalmente, in questo tipo di programma, il ruolo del conduttore sarebbe fondamentale, perché starebbe a lui mettere alle stretta l’intervistato, non consentirgli di fare comizi, ma sarebbe lo stesso conduttore a fare da contraddittorio, inteso però non come l’altra posizione possibile, un’evidente sciocchezza, ma come una verifica della validità delle argomentazioni avanzate dall’intervistato, e quindi tutt’altro rispetto alle interviste di quel tartufo di Fabio Fazio.
Chissà se qualche editore TV se la sentirebbe di fare una rubrica giornaliera di durata inferiore ad un’ora, consistente appunto in un’intervista ad un personaggio non noto che abbia qualcosa di originale da proporre.
lunedì 24 ottobre 2011
MA A REPUBBLICA SI VERGOGNANO MAI PER I LORO TITOLI?
Non era questo il post che avrei voluto scrivere oggi, ma sono stato sgradevolmente colpito da come la stampa titola sugli avvenimenti di ieri in ambito europeo.
Quindi, secondo “La Repubblica”, l’Europa ha lanciato un ultimatum a Berlusconi? Interessante questa versione, che sarebbe bene approfondire.
Innanzitutto, in che senso sarebbe Berlusconi il soggetto che subisce l’ultimatum: si ipotizzano punizioni corporali, o danni patrimoniali a suo carico personale? O cospirano per ucciderlo, non so sarebbe bene che il Direttore Ezio Mauro chiarisse questi aspetti.
Perché a me, guarda caso, sembra invece che l’ultimatum riguardi l’Italia, che le minacce, qualunque esse siano, siano rivolte al nostro paese, ch ci può rimettere non è Berlusconi, ma tutti quanti noi. Poiché a Repubblica non si saranno improvvisamente istupiditi, dobbiamo supporre che un titolo così assolutamente mendace rispetto ai fatti, trovi giustificazione in un tentativo di renderci complici di Sarkozy e della Merkel: tutti gli Italiani che sono contro Berlusconi, dovrebbero sentirsi alleati di questi due grandi statisti (sic!).
Secondo me, la Repubblica dovrebbe rettificare, dovrebbe fare pubblica ammenda di questo vergognoso modo di riportare gli avvenimenti, al di fuori di ogni etica professionale dei giornalisti: sempre più giù questo quotidiano, un giorno qualcuno dovrà ricostruire di quanto questo gruppo di potere abbia influenzato l’Italia.
Eppoi, rimane ancora da chiarire in cosa consista questo famoso ultimatum. Per me, è solo un urlo di disperazione, perché la verità nuda e cruda è che, come è sempre da mondo e mondo, il creditore non ha alcun potere su un grosso debitore: qualunque danno gli voglia fare, sarà trascinato nella vicenda risultando anch’egli pesantemente danneggiato. In verità, l’unico potere non sta nel suo ruolo di creditore, ma, quando c’è, nella forza e nella minaccia di usarla. Non è ciò che fanno gli strozzini? Mandano i loro scagnozzi a terrorizzare il debitore, fino ad esercitare violenza fisica su lui stesso o sui suoi più stretti familiari. Nel caso degli stati, è il ricorso alla guerra, che d’altra parte è quasi sempre dovuta ad interessi economici di vario tipo.
Io invece vorrei chiedermi se la Merkel sia meglio di Berlusconi. Magari la sera ella non si intratterrà con giovanetti, ma come cancelliere è penosa, non sa cosa sia il ruolo di statista, con le sue incertezze, i suoi colpevoli ritardi, è difatti la principale responsabile dei guai in cui l’Europa oggi si trova. Bastava dare il proprio assenso a coprire quei miserabili pochi soldi che servivano per coprire il buco greco, davvero un’inezia, e l’assalto all’Europa non sarebbe neanche iniziato, ma la Merkel aveva le elezioni regionali, e per qualche miserabile voto in più (che tra l’altro apparentemente non c’è stato), ha ritardato quel poco che ha trasformato un piccolo inghippo in una tempesta finanziaria di cui ancora non si vede la fine.
Ed anche Sarkozy non mi pare che possa esibire un grande curriculum di statista, anch’egli ripetutamente coinvolto in conflitti d’interesse vari, in una serie interminabili di contestate irregolarità. La verità è che le banche francesi sono pesantemente esposte sui titoli italiani, e lo spettro del loro fallimento si agita sulla testa di Sarkozy che prova a minacciare, ad irridere, ma in realtà ha una fifa boia della sorte propria e del suo paese, con le nuove elezioni presidenziali alle porte.
Questo servilismo della grande stampa italiana a questa classe politica europea che, aldilà di alcuni aspetti estetici, non mi sembra affatto meglio di quella italiana, questo continuare a caldeggiare le soluzioni proposte dagli USA che non risolvono nulla, e quelle che non si comprende quali siano dell’Europa è davvero il frutto di una classe dirigente che non è solo politica e che meriterebbe di essere messa alla porta, di essere quanto meno resa inoffensiva, invece che lasciata libera di gettar eveleno nelle menti già abbastanza confuse degli Italiani.
Di fronte a questi titoli, l’unica cosa che si può dire è “vergogna”.
giovedì 20 ottobre 2011
NOMINA VERTICE BANCA D'ITALIA, OVVERO COME DARE IL PEGGIO DI SE'
Oggi propongo un giochino, prendendo spunto dalla vicenda della nomina del nuovo Governatore della Banca d’Italia.
Il giochino è stabilire chi si sta comportando peggio nella vicenda (di meglio è ovviamente impossibile parlarne, tutti i protagonisti si sono impegnati con grande successo a dare il peggio di sé).
Intanto chi sono i protagonisti?
Berlusconi naturalmente, Sarkozy, Bini Smaghi, Tremonti e Bossi. Forse, qualcuno ha omesso di intervenire in maniera adeguatamente incisiva (parlo di Napolitano), ma qui lo terrei fuori, tanto gli altri lo surclassano.
Partiamo da Bossi che aveva solo una cosa degna da fare, tacere, visto che sull’argomento non ha competenza alcuna. Ebbene, per questo figuro, per questo vecchio che non vuole mollare finchè non avrà curato gli interessi familiari, il criterio dovrebbe essere il luogo di nascita. Per lui, Grilli è il più adatto perché, udite udite, è nato a Milano: qui siamo proprio al delirio totale!
Segue Tremonti, che, anch’egli, non dovrebbe avere voce alcuna in capitolo, ed invece è impegnato strenuamente a difendere un suo stretto collaboratore: dopo Milanese, dubito dei collaboratori di Tremonti a prescindere! Eppoi, la motivazione, che la Banca d’Italia sia una dependance del Ministero dell’economia: a parte tutto, se fosse Grilli il nuovo governatore, egli sarebbe in ottimi rapporti col ministro dell’economia pro-tempore, ma perché dovrebbe esserlo con un nuovo ministro?
Abbiamo poi Bini Smaghi che evidentemente non disdegna di sgomitare a tutta forza. Non so come e chi l’abbia designato nel direttorio della BCE, ma che tizietto è se minaccia di non dimettersi se non lo nominano governatore? Pensate che solida struttura morale, come potremmo mai fidarci di simili personaggi?
Anche Sarkozy non scherza in quanto a sensibilità istituzionale. Si potrà discutere del regolamento in cui il Presidente della BCE finisce con lo svolgere un doppio ruolo: da una parte una che dev’essere super partes, quella di Presidente, dall’altra rappresentare iul proprio paese nel direttorio, una stupidata in cui sono caduti i fini progettatori della struttura dell’Unione Europea. In ogni caso, Sarkozy non può neanche lui sgomitare scompostamente, gli interessi della Francia troveranno espressione comunque nella BCE, anzi mi pare che di questi tempi solo la Francia e la Germania sembrano avere voce in un capitolo che riguarderebbe un gruppo di paesi ben più numeroso. Così, eghli attenta palesemente all’autonomia dei mebri del direttorio della BCE, nel momento in cui urla a Bini Smaghi di sloggiare. Se ne rende conto? Secondo me, sì, ma questi governanti moderni non hanno il senso istituzionale che sarebbe loro richiesto.
Infine Berlusconi che riassume in sé ogni tipo di contrapposizione, di conflitti con risvolti istituzionali. Questo vecchio è riuscito a mettersi ed a metterci in un pasticcio tremendo, rinviando agli ultimi giorni la scelta del nuovo governatore. Se era orientato a nominare Saccomanni, che gode della stima e del consenso interno ala Banca d’Italia e, suppongo, anche di quella di Napolitano, Berlusconi avrebbe dovuto fare esattamente il contrario di quanto ha fatto, e cioè fare la nomina precocemente. Ciò avrebbe lasciato l’0onere di trovare una via d’uscita agli altri attori, e in queste condizioni Bini Smaghi alla fine si sarebbe dimesso anche garantendogli una nomina meno impegnativa e prestigiosa.
Insomma, votate pure il protagonista peggiore della vicenda, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
mercoledì 19 ottobre 2011
POVERI INDIGNADOS, PER SPARIRE SONO BASTATE POCHE CENTINAIA DI FACINOROSI!
Perfino coloro che li condannao perchè hanno sottratto l'attenzione alla manifestazione ed alle sue parole d'ordine, cadono nello stesso tranello, anch'essi sottratti al tema principale per questa fiumana di parole che riguarda un episodio francamente modesto sia per motivazioni che per dimensione.
Il risultato mi pare quello di avere nullificato la volontà e la determinazione delle centinaia di migliaia di manifestanti, con l'aggravante di un comitato organizzatore che non riesce a cogliere la gravità dell'accaduto. Insomma, è cime se sabato nopn si fosse tenuta nessuna manifestazione, ma ci fossero stati solo disordini con atti di vandalismo e scontri con la polizia. Non ha alcun senso che gli organizzatori dichiarino che i violenti erano parte dei manifestanti, perchè questi soggettivamente non la pensano affatto così, e quindi questo comitato di fatto non intende più essere rappresentativo della gente che pure ha organizzato.
In queste condizioni, dobbiamo ammettere che questo movimento degli indignados è finito prima ancora di iniziare, almeno in Italia. Era ciò che temevo, visto che ritengo fondamentale il momento organizzativo, la capacità di riconoscersi come parte di una comunità tenuta assieme da profonde comuni convinzioni.
Qui, stiamo ancora a dividerci tra i sostenitori del default, e quelli che finiscono per allinearsi alle misure espansive, ottenute stampando banconote o emettendo titoli, ma pateticamente chiedendo misure di controllo dei mercati finanziari.
Voglio qui riportare un mio commento a questo articolo.
Se si voleva dimostrare che dare default non è come andare a fare una passeggiata, credo che l'autore sfondi una porta aperta: sarebbe un evento certo doloroso e alla fine saremo tutti un po' più poveri.
Il punto però non è questo, è se esista un'alternativa.
E' vero o no che la causa vera e prima della crisi sia dovuta alla torrenziale immissione di liquidità da parte della Federal Reserve di Greenspan, a sua volta dovuta alla difficoltà dei capitalisti occidentali ad incrementare le proprie ricchezze in presenza della concorrenza imbattibile da parte dei BRICS?
Se è così, c'è qualcuno che possa pensare di guarire un'intossicazio ne somministrando dosi crescenti di sostanza tossica? Salvare il sistema bancario nel 2007 come ha fatto Bush è stato un errore, e lo è qualsiasi atto si iscriva anche oggi nella medesima logica.
Oggi ci troviamo nel sistema finanziario globalizzato con titoli per un ammontare complessivo di circa dieci anni di PIL mondiale, il che equivale a dire che non il singolo titolo, magari della cattiva Grecia, ma il totale è carta straccia, non si capisce come fare a rimborsarlo alla scadenza. Pensare di risolverlo stampando banconote, appare assurdo a chiunque: insomma, il problema globale è senza soluzione, e gli USA e il Regno Unito che spingono verso l'immissione di liquidità, lo fanno non perchè possano davvero credere di risolvere il problema, ma solo per rinviare il momento del "redde rationem".
Questa tesi è del tutto irresponsabile, perchè più si ritarda il momento, più forte sarà il botto, e queste cose purtroppo finiscono col trovare sbocco in conflitti armati interstatali. Bisognerebbe che i grandi della terra si riunissero e dichiarassero l'insolvibilità generalizzata, proponendo una soluzione che ridimensionasse il valore facciale dei titoli.
Poichè ciò non avviene, non resta che la scelta nazione per nazione di ritirarsi da questa gabbia di matti che sono diventati i mercati finanziari in maniera unilaterale, dando appunto default nei modi possibili, e non mi convince la tesi dell'autore che sia tecnicamente impossibile trovare una via di default selettivo.
In ogni caso, se si considera ingiusto togliere i risparmi a chi li ha, mi pare molto più ingiusto accollare debiti a chi soldi proprio non ne ha già, ipotecando il suo reddito futuro: ciò sarebbe equo? Strana tesi davvero!
Qui di seguito, voglio riportare il mio commento a questo articolo.
martedì 18 ottobre 2011
CHI ORGANIZZA GLI INDIGNADOS ITALIANI?
Trovo strano, direi perfino stravagante, occuparci del ruolo dei trecento facinorosi (secondo me erano quasi mille in realtà), mentre non si dice nulla del movimento degli indignados in quanto tale, che si vorrebbe grande in adesioni e che dovrebbe aprire chissà che prospettive politiche.
Il punto più importante è proprio questo, che l’esordio di sabato è stato disastroso visto che le ragioni del movimento sono sparite dal dibattito pubblico.
La cosa mi appare ancora più grave dopo avere ascoltato il Francesco ricercatore universitario intervistato dall’Annunziata, che sembra o non rendersi conto della gravità dei fatti per la sorte del movimento, o fa finta di nulla, minimizza in pieno stile politichese (o forse l’uno e l’altro). E' il paradosso di tanta parte dell'estrema sinistra, questa volontà unitaria, a partire però dallo scontare la polverizzazione dei movimenti. Leggere gli organizzatori della manifestazione è illuminante, una lista lunghissima di movimenti del tutto sconosciuti, coi nomi più improbabili (un po' ridicolo quell'usare come nome una data: tra poco avremo esaurito l'intero calendario!). Ognuno quindi ha bisogno di riconoscersi nel proprio minuscolo gruppo, salvo poi giocare a fare l'unitario, ma nel senso dei differenti movimenti che si mettono d'accordo tra loro. Questo meccanismo storicamente non ha mai funzionato: o l'aggrgazione è primaria, o se ne esiste una più ristretta, alla strette, prevarrà sempre quest'ultima.
Così, devo concludere che qui gli attori in scena siano diventati almeno tre differenti: da una parte i facinorosi che hanno scatenato gli incidenti, da un'altra gli organizzatori che sembrano assumere un pericoloso atteggiamento ecumenico, e da una terza parte i semplici manifestanti che a questo punto temo che non sapessero chi li aveva organizzati, me che vorrebbero giocare un gioco ben differente.
sabato 15 ottobre 2011
TUTTO CIO' CHE NON VA NEGLI ODIERNI INCIDENTI DI ROMA
Mi chiedo come sia possibile che alcune centinaia di facinorosi travestiti da manifestanti abbiano potuto creare tutto questo sconquasso.
Innanzitutto, mi pare di dovere registrare una forte carenza da parte delle forze dell'ordine, incapaci di contrastare e neanche di contenere questi facinorosi. Per ore hanno sequestrato migliaia di persone, pacifici manifestanti e perfino i turisti di passaggio senza riuscire comunque ad avere ragione degli aggressori. Erano pochi, erano impreparati? Spero che qualcuno voglia fare un bilancio sulle gravi mancanze, insufficienze nell'opera di ristabilimento dellì'ordine da parte della polizia.
Passiamo ora agli stessi facinorosi che con tutta evidenza compiono le loro azioni criminali con l'unico scopo di autotranquillizzarsi dimostrando a sè stessi che esistono: alttre finalità non se ne vedono nè se ne possono arguire.
Infine, il capitolo più delicato, quello degli stessi indignados che fanno della loro spontaneità il loro massimo titolo di merito. A me essa appare piuttosto come il loro limite più evidente come sembrerebbe indicare anche la loro chiara resa ai facinorosi, organizzazione che fa cappotto alla spontaneità.
Non mi convincono altresì i commenti della politica, anche quelli del buon Vendola che mostra anche lui di non cogliere il nodo della questione. Ancora una volta questa non violenza presa come criterio assoluto per giudicare le manifestazioni.
Vogliamo riflettere sullo stesso significato della manifestazione? Capisco che per taluni possa rappresentare perfino uno svago andare in piazza a manifestare, ma se vogliamo uscire da questa dimensione di soddisfazione strettamente personale, allora credo che interrogarsi sull'efficacia del manifestare sia più doveroso che lecito. Vendola apparentemente non coglie che il punto di discrimine non sta nella dose di violenza, quanto nella funzione della violenza, chi la esercita, perchè la esercita, in altre parole come queste condizioni la qualifichino. Il confronto ad esempio corre per me con la manifestazione studentesca del 14 dicembre, in cui era l'intera manifestazione ad esprimersi con una certa dose di violenza, in realtà manifestatasi verso gli oggetti. Quii invece, un gruppo organizzato ha scatenato una violenza chiaramente preorchestrata che di fatto si è rivelata prevaricatrice verso il complesso della manifestazione: per questo affermo che non può essere la non violenza il criterio discriminatorio.
C'è un altro elemento che mi preoccupa nella presa di posizione di Vendola, quello in sostanza di assumere come politici di professione il ruolo fondamentale di sfruttamento della manifestazione. Forse molti di voi sanno delle fabbriche di Nichi, luoghi di aggregazione che non so che fine abbiano fatto ma che sicuramente hanno svolto una loro attività negli ultimi anni. Questa scelta di operare su un doppio binario mi pare sbagliata ed anche pericolosa: lavoro di manovalanza lasciato a taluni, lavoro di sbocco politico affidato a un gruppo scelto.
Gli indignados rischiano in definitiva per apparire come degli utili idioti, con il loro sdegno aprono la strada ad altri per dare lo sbocco che essi desiderano. Non è forse un caso che perfino Draghi (da non credersi) ha tentato di metterci il cappello.
La natura, si deice, non tollera il vuoto e così senza una direzione politica prorpia, saranno altri ad assumersela, senza un servizio d'ordine organizzato appropriatamente, non sarà possibile dare alle manifestazioni lo sbocco desiderato.
Ma io sono un vecchio leninista con l'ulteriore svantaggio di non essere neanche marxista...
lunedì 10 ottobre 2011
MANOVRE D'AUTUNNO A FAVORE DEI POLITICANTI
Le grandi manovre sono già iniziate.
Mentre proprio nel cuore stesso del centrodestra si svolge un’aspra lotta che attraversa sia la Lega che il PDL, ed analoghi sommovimenti sono osservabili anche all’interno del PD, si inizia alla grande l’operazione di creare un cordone sanitario tra questo mondo dei politicanti in scomposta agitazione nel sentire un certo fetore mortuario proveniente dal vecchio leader sempre più in difficoltà, e il resto del paese.
La grande stampa inizia così a mettere in campo i suoi pezzi più prestigiosi, e chi può fare questo gioco sporco meglio di famosi politologi?
Il popolo, l’insieme dei cittadini, deve stare al suo posto, esprimere la propria volontà nei modi che gli esperti stabiliscono essere leciti.
Già circa un anno fa, a seguito delle manifestazioni studentesche che diedero luogo anche ad incidenti, ci fu Saviano a cui evidentemente il successo deve aver dato alla testa, a spiegare agli studenti l’etichetta delle manifestazioni di piazza, cosa si può fare e cosa non si può fare, il politically correct assunto anche a norma di comportamento degli scontri sociali.
Vabbè, Saviano è giovane ed anche simpatico, e gli si può perdonare queste strambe prese di posizione.
Adesso invece sono le corazzate a muoversi, e la tenaglia si stringe attorno ai movimenti attraverso le parole d’ordine del populismo e dell’antipolitica.
Di populismo orizzontale parla la Urbinati, con un chiaro scivolamento semantico di un termine già di per sé ambiguo, e da lei allargato in maniera tale da includere praticamente tutti i movimenti di base, tutto il campo della politica che si manifesti fuori dalle sedi istituzionali.
Questa politologa concepisce la democrazia come un sistema in cui la rappresentanza attraverso partiti e parlamento dovrebbe costituire l’universo politico. Il problema sarebbe quindi quello di perfezionare i meccanismi istituzionali di rappresentanza, e bandendo appunto come pericolo populista qualsiasi partecipazione politica diretta dei cittadini.
A me invece sembra che la democrazia debba essere intesa in maniera dinamica, che essa si possa davvero esplicare solo come equilibrio tra strutture istituzionali e partecipazione diretta dei cittadini in forme che non richiedono una loro normazione, come il riflesso dello scontro politico correttamente inteso, e le cui forme e dinamiche nessuno può preventivamente determinare.
L’altro punto di attacco è quello a partire dalla riesumazione del termine “antipolitica”, che io ricordo fu ripetutamente utilizzato in primis dalla Mafai a proposito di Grillo.
Adesso, è il politologo Galli che lo riprende in un abile articolo in cui l’autore afferma e poi si contraddice, apparentemente quindi adotta più punti di vista tra loro perfino alternativi, ma il risultato così ottenuto è quello comunque di riportare nel dibattito politico questo termine.
Le parole, si dice, sono pietre, intendendo così che hanno un impatto profondo nella nostra vita.
E’ per questo che il linguaggio deve essere attentamente sorvegliato, come vanno sorvegliati i neologismi ed anche i termini ripescati da epoche differenti.
Ho scritto del termine “omofono” che non si sa cosa voglia significare, e qui un discorso analogo devo fare a proposito del termine antipolitica.
L’uomo come essere sociale è inevitabilmente politico. Qualunque sia la politica che porta avanti, essa va considerata nei suoi concreti contenuti. A nessuno dovrebbe essere consentito di ergersi a proprietario del termine politica, e che quindi sia titolato a stabilire chi fa politica e chi fa antipolitica.
Tacciare una certa posizione politica come antipolitica è un atto che oggettivamente mette a rischio la libertà politica stessa, la facoltà che a tutti dovrebbe essere concessa di esprimere le proprie opinione e di operare conseguentemente. E’ un modo per impedire un sereno confronto basato su opposte argomentazioni, è un modo insomma per eliminare dal dibattito preliminarmente, cioè senza entrare nel merito, le opinioni altrui.
Vorrei dire a Galli che nessuna delle fattispecie che egli elenca è davvero antipolitica, neanche quella della rinuncia che egli cita inizialmente: anch’essa, nel rifiutarsi alla partecipazione è politica, almeno nel senso di influenzare il pensiero altrui. Anche chi volontariamente si rifiutasse alla politica, in quanto membro dell’umanità, non riuscirebbe ad evitare di togliere incisività al proprio comportamento.
A fronte di questi interventi teorici di politologi, ci tocca sentire ciò che dicono i nostri rappresentanti (sic!). Sabato mattina la Lanzillotto aggiungeva il suo personale contributo alla vanificazione del risultato del referendum sull’acqua. E’ penoso vedere queste nullità, nominate dal loro stesso ceto di politicanti, disquisire su come gli elettori non abbiano capito, di come non capiscano da sé, e di come sono i partiti che devono guidare i cittadini verso la giusta via. E tutto questo per giustificare la richiesta pressante di liberalizzazioni.
A questo genio, non passa per la testa quanto ci sia di politico nel definire i cosiddetti beni comuni e nel loro affidamento a una dimensione pubblica. Tutta presa da ciò che le è stato dettato o dai suoi capi o dai lobbisti di turno, pretende che tutti siano prede del pensiero unico: tanto più incapaci e privi di autonomia intellettuale, tanto più arroganti verso i cittadini.
domenica 9 ottobre 2011
A PROPOSITO DI STEVE JOBS
Quando a livello sociologico si indaga l'influenza della tecnologia sui modi di vita, si finisce inevitabilmente per parlare dei prodotti tecnologici finiti, quelli che ciascuno di noi può acquistare nel negozio giusto, ma in verità sarebbe utile risalire lungo la catena della produzione per individuare la causa che possiamo definire propriamente tecnologica.
Ecco, noi vediamo computer, navigatori satellitari, telefoni cellulari, ma tutti questi prodotti non potrebbero esistere senza il progresso tecnologico dell'elettronica.
E' una lunga stagione che parte dai famosi transistor giapponesi, già diffusi alla fine degli anni cinquanta. E' l'inaugurazione dell'uso dei semiconduttori che doveva rivelarsi così prolifica, permettendo la miniaturizzazione spinta di ogetti già esistenti e la realizzazione di oggetti del tutto nuovi. Essa è dovuta al parallelo pèrogresso nella realizzazione di nuovi materiali e nelle metodologie produttive.
Ancora alla fine degli anni settanta, i computer erano come dei pachidermi, lenti e soprattutto estremamente ingombranti, i famosi o famigerati computer cablati.
L'introduzione in campo informatico di semiconduttori appositamente progettati rivoluzionò il campo, permettendo di ridurre costi, ingombri e contemporaneamente aumentarne le prestazioni. Ciò è avvenuto ad ogni livello informatico, ma non v'è dubbio che ciò che ha più influenzato la nostra vita è il personal computer, il PC, un oggetto divenuto improvvisamente abbastanza esperto, piccolo ed economico da diffondersi prima nei laboratori di ricerca, e di seguito negli uffici e infine nelle nostre case.
Nel campo del PC, si osservò presto ad una divaricazione tra sistemi basati sull'MS-DOS e sui prodotti Apple, che predicavano un approccio più esplicitamente friendly.
MS-DOS significava minimo di automatismi, se volevi far fare qualcosa al PC, dovevi chiederglielo esplicitamente, continuandio la tradizione dei grossi computer, evidentemente orientati a un pubblico esperto.
La filosofia Apple, pienamente esplicata al lancio del Mac Intosh, era opposta, rendere cioè il PC un oggetto che anche un idiota fosse in grado di utilizzare.
Finchè il PC rimase un oggetto principalmente utilizzato per scopi calcolistici, legati all'ambiente delle scienze sperimentali ed in parte per scopi di contabilità, le conoscenze richieste dal MSDOS non costituirono un ostacolo, essendo che il prodotto era rivolto essenzialmente ad un pubblico competente.
La messa a punto di giochini e soprattutto lo sviluppo tempestoso della telematica legata alla rete globale, aprirono decisamente il mercato a ben altre utenze, differenti per competenza e soprattutto per numero.
Apple era pronto a soddisfare questa nuova utenza avendo già sviluppato il proprio sistema operastivo basato sulle icone, quindi con la sostituzione dei lunghi comandi da digitare carattere per carattere con il click su un'immagine sullo schermo.
Così, i concorrenti dovettero sviluppare la famiglia dei sistemi operativi Windows, che nella sostanza copia l'approccio istintivo ed immediato della Apple.
Insomma, come tutti sanno, il PC è fatto di hardware e software, e non è possibile separare nettamente l'effetto di ciascuno di questi fattori sull'evoluzione del settore informatico.
In fondo, con la messa a punto del sistema operativo del Mac, Steve Jobs ha dato il suo contributo filosofico al settore, tutto centrato nel rendere il PC un oggetto accessibile al maggior numero possibile di utenti, sfruttando appunto un approccio per immagini.
I prodotti più recentemente sviluppati non fanno che generalizzare questa filosofia, estendondola a differenti applicazioni, dalla telefonia mobile, al libro elettronico.
Fu un innovatore? Dipende da cosa intenda con questo termine. Il vero innovatore è lo scienzato che scopre magari soltanto una relaziopne matematica tra due differenti grandezze, e ciò indipendentemente dall'applicabilità più o meno remota della sua scoperta, ma certamente in ogni campo dell'attività umana si può esercitare innovazione. Pensiamo ad esempio alla politica, all'economia, ma anche alla letteratura, all'arte in generale.
Da questo punto di vista Jobs è un innovatore, un innovatore di prodotto, ma di prodotti innovativi siamo sommersi senza che si ne conosca neanche il nome di chi li ha introdotti. Potremmo infine chiamarlo un geniale venditore, evitando di utilizzare le espressioni esagerate, con una fortuna incomprensibile del termine visionario, tra l'altro denso anche di connotazioni negative.
Ed infine, siamo certi che innovare sia un bene, che quest'uso così generalizzato del PC sia un bene indiscusso ed indiscutibile? Ma qui mi fermo, il discorso diventa troppo complesso.
venerdì 7 ottobre 2011
NOTIZIE SOLO PER IL WEB
Come probabilmente saprete, è apparso in rete un elenco di dieci parlamentari a cui si attribuiva un orientamento omosessuale occulto, cioè si tratterebbe di omosessuali non dichiarati.
Si tratta di un’iniziativa che personalmente ritengo sbagliata e controproducente per la stessa comunità gay, oltre che per le conseguenze su un piano più generale.
Che un’iniziativa come questa potesse scatenare appassionati dibattiti ce lo potevamo aspettare.
Quello che però si è potuto osservare sul sito di “Nazione Indiana” (NI) è aldilà di ogni immaginazione.
Come dicevo in un precedente post, NI ospita regolarmente articoli concernenti i temi della discriminazione verso gli omosessuali. Anche questa iniziativa della pubblicazione della lista è stata lì anticipata, suscitando subito una marea di commenti.
Altri articoli seguirono la pubblicazione della lista fino a sommare interventi dell’ordine di svariate centinaia, forse arrivando a sfiorare i mille commenti.
Come si può immaginare, gli intervenuti si dividevano tra l’essere a favore e l’essere contrari all’iniziativa.
Ora, è perfettamente comprensibile che i gay militanti, soprattutto se a qualche titolo coinvolti nell’operazione di pubblicazione della lista, si impegnino in tutti i modi e con tutti i mezzi a portare avanti ciò che si configura come un vero e proprio atto di militanza (si potrebbe dire che nulla è troppo per la buona riuscita della causa), meno chiara appare l’insistenza e la perseveranza di chi invece si colloca sul versante opposto, quello della condanna di una simile iniziativa.
Che si voglia esprimere il proprio punto di vista sulla vicenda, ciò è fisiologico e direi anche un bene. Ciò che mi chiedo è se abbia senso alcuno, senza appunto questa veste militante, da semplice osservatore dell’iniziativa di altri, riintervenire per decine e decine di volte sulla stessa questione, se ci sia la possibilità per non finire col ripetersi, con l’ossessiva riproposizione di argomentazioni che per quanto sofisticamente rielaborate non possono moltiplicarsi a piacimento.
La causa sembra una sorta di autocompiacimento per la propria abilità discorsiva, l’effetto quello paradossale di dare maggiore visibilità ad una iniziativa che poi si vorrebbe condannare. Insomma, chi ha preso l’iniziativa così contestata, penso abbia messo in conto questa amplificazione del suo peso proprio da parte dei suoi più fieri oppositori, in virtù del loro narcisistico autocompiacimento.
Malgrado tutta questa visibilità sul web, l'iniziativa è stata un clamoroso flop, proprio perchè fuori dalla rete chi ne ha parlato?
Chiedo alla comunità gay se non ritiene una buona notizia questo ignorare da parte del grande pubblico se il tale politico sia omo o eterosessuale? Non sarebbe questo un punto di vista interessante?
mercoledì 5 ottobre 2011
PERCHE' LA TRAGEDIA DI BARLETTA NON SI RIPETA
Oggi, molti articoli si occupano dei fatti di Barletta. Il punto di vista è oggi quello più distante, del commento, delle osservazioni di carattere generale che questi fatti ci suggeriscono.
L’aspetto che viene in evidenza è quello dell’aziendina in nero, che per potere continuare ad operare, costringe le lavoratrici a condizioni di lavoro difficili, un pezzo di Cina si potrebbe dire, impiantato in Italia.
Un commento che ho ascoltato alla rassegna stampa di Radiotre, e che purtroppo non so né dove sia stato pubblicato, né da chi sia stato scritto, si scaglia contro questa logica, di questo abbassare i costi di produzione per potere competere con gli stessi paesi emergenti. L’articolista sottolinea come invece noi dovremo piuttosto puntare sulla qualità, dobbiamo fare non magliette a costi irrisori, ma magliette che siano belle, assecondare il patrimonio di fama che l’Italia si è fatta nel mondo e che associa il nostro paese al concetto di bellezza, al design raffinato e appunto di elevata qualità.
Tutto giusto questo, chi sceglierebbe potendo tra produrre a costi infimi roba scadente e produrre a costi ben più elevati articoli ben fatti che trovino un loro mercato a prezzi remunerativi?
Epperò questo articolo, così almeno come era riassunto alla radio, rischia di apparire come Maria Antonietta e la notissima frase che le viene attribuita sul perché non trovando pane, il popolo non mangi le brioche. Vorrei dire che il mercato dell’abbigliamento, come un po’ tutto il mercato, vede ovviamente fasce di qualità e di prezzo molto differenti, ma non bisognerebbe tacere sul fatto che le quantità movimentate sono anch’esse ben differenti nelle due fasce di prezzo. Sì, saremmo tutti contenti che le nostre lavoratrici possano guadagnare ben più dei miseri quattro euro l’ora con cui venivano retribuite, ma temo che la soluzione prospettata nell'articolo che cito non sia accessibile. Sicuramente ci sarà qualcuno che sfonderà, e potrà affiggere sugli indumenti prodotti i prezzi che crede, ma chi può ragionevolmente pensare che questa possa costituire una soluzione di carattere generale?
Ecco, a me pare che in questo ragionamento manchi un pezzo fondamentale, che cioè sia monco nel non specificare una serie di condizioni al contorno che dovrebbero accompagnare le condizioni stesse del lavoro.
La prima condizione è che non sia consentita la vendita di prodotti scadenti. Possibile che non si capisca che devono esistere robuste barriere doganali che impediscano alla Cina di turno di inondarci impunemente di robaccia di infima qualità? Non possiamo aspettare una improbabile e indeterminata opera di educazione collettiva per superare la tendenza spontanea di consumatori con poca disponibilità finanziaria a preferire l’acquisto di più capi piuttosto che un unico di qualità. Dobbiamo ammetterlo, l’unico modo per obbligare all’acquisto di roba di qualità è che sul mercato sia l’unica presente, che non sia possibile trovare roba a prezzi stracciati.
L’introduzione di misure protezionistiche può servire anche allo scopo di difendere il lavoro e la sua remunerazione. Da una parte, fa da diga al dilagare di robaccia a consumo rapido, dall’altro crea un mercato non competitivo, o almeno meno competitivo, dove le cose abbiano un prezzo abbastanza alto da permettere ai lavoratori di potere operare in condizioni umane, con ritmi e tempi di lavoro umani, e tali che una famiglia in regime di piena occupazione possa vivere in maniera sobria ma non si debba privare dell’essenziale e di quel poco di superfluo che a mio parere è anch’esso essenziale, se volete a livello psicologico.
Una buona maglietta deve avere un prezzo adeguato, non possono bastare pochi euro per produrla, e ciò naturalmente vale per qualsiasi tipo di prodotto. Penso ad esempio all’agricoltura, in cui la competizione si è spinta a tal punto da determinare la cessazione stessa delle attività per impossibilità di produrre a livello minimamente remunerativo.
Se ci riflettete, si tratta solo di fare una specie di rewind, di tornare indietro di circa cinquanta anni, quando era cosa ovvia che le cose erano fatte per durare nel tempo, quando l’automazione non si era spinta così tanto da provocare l’espulsione della forza-lavoro.
Viviamo in clima ideologico che considera desiderabile, senza peraltro motivarlo minimamente, l’abbassamento dei costi, la competitività come nuova religione del nostro tempo. Se non usciamo da queste logiche, piangere sulle morti delle lavoratrici di Barletta è solo versare le classiche lacrime di coccodrillo.
La vera rivoluzione è capovolgere questa logica, rimettere l’uomo al centro, e quindi immaginare un’economia che abbia come fine la piena occupazione, e che a questo fine aggiusti le condizioni e le norme adottate.
lunedì 3 ottobre 2011
LA DEMOCRAZIA CONTRO GLI EUROPOTERI OCCULTI
Mi chiedo cosa sia diventata la politica in questo paese.
Mi chiedo se ci sia qualcuno che sia in grado di dare una descrizione della politica interna italiana che abbia un senso.
Il PD, nelle parole del suo leader nell’intervista televisiva di ieri, teorizza che il suo ruolo sia quello di stare in seconda fila, di dire e non dire, di sostenere ma con discrezione. Qualcuno avvisi il Bersani che partito significa di parte, e che la funzione e il significato stesso dell’esistenza dei partiti è che essi assumano posizioni il più possibile chiare e univoche, che guidino l’iniziativa politica, non che guardino dalle retrovie con sguardo più o meno benevolo. Qui, è successa una vera e propria rivoluzione. Chi si lamenta che la gente non si svegli, non so cosa si aspetti. Ogni volta che ha potuto, la gente ha risposto. L’ha fatto in occasione delle amministrative, l’ha fatto in occasione della votazione referendaria in giugno, l’ha fatto nella raccolta di firme sulla legge elettorale.
Ebbene Bersani, se un partito vuole il consenso, deve avanzare proposte, non dimostrarsi discreto e riservato. Il segreto di Pulcinella è che questa posizione così disimpegnata del PD nasconde i dissidi insanabili al proprio interno. E’ possibile che il principale partito di opposizione non trovi di meglio rispetto a queste furberie da ragazzini? In fondo, i sondaggi elettorali rispecchiano proprio il fatto che chi volesse smettere di votare per Berlusconi, dovrebbe essere motivato a votare il PD, ma questo partito fa di tutto per apparire trasparente, e nella trasparenza tentare di nascondere l’evidenza di non essere neanche un partito, sensibile ai veti interni, come alle mosse di chi conta nel paese e anche fuori dall’Italia, e quindi perennemente destinato ad apparire come una vela che si sposta al primo soffio di vento.
Di Casini è perfino inutile parlare, sempre costretto a riposizionarsi per mantenere un ruolo di ago della bilancia: che lavoraccio sostituire le opinioni politiche con l’equilibrismo di schieramento!
Di fronte a tutto ciò, si capisce meglio i problemi del centrodestra. PDL e responsabili, costruiti da Berlusconi sulla propria persona, si capisce che abbiano difficoltà a concepirsi in assenza del fondatore. Fossero furbi, dovrebbero uscire dal PDL, riposizionarsi con Fini o con Casini, o fondare l’ennesimo nuovo partito, il PDL brucia ed è rimasto solo Alfano, che tenta così di difendere l’investitura ricevuta dal suo capo, a difenderlo, ad intravedere un futuro per questa formazione politica. Solita fifa dei politici italiani, incapaci di osare, sempre lì cauti a tentare di ricevere quello che desiderano in modo passivo. Da questo punto di vista, certamente Berlusconi è un’eccezione nella politica italiana.
E poi ci sta la Lega Nord, con un leader ormai in affanno chiaro, tenuto lì dai colonnelli finchè può essere usato, colonnelli tra loro mai così divisi. L’unico collante, e questo Calderoni lo ha colto benissimo, sta nella rivendicazione secessionista, ripresa per disperazione, senza alcuna reale possibilità di essere convincenti dopo la farsa indegna sul federalismo divenuto la forma più sofisticata di centralismo, dopo la centralizzazione delle decisioni nel duo, politicamente molto romano, Berlusconi-Bossi.
L’unico che fa davvero politica in questo paese è, diciamocelo, Napolitano che da luglio ha deciso in prendere nelle proprie mani il comando.
Insomma, il grande difensore, a parole, della Costituzione, che col suo protagonismo rischia di mettere a repentaglio i fragili equilibri che la stessa Costituzione ha posto tra i poteri dello Stato, il vero portavoce degli interessi dei grandi capitalisti che pretendono di ritardare il momento della resa dei conti, facendo pagare i cittadini europei.
Draghi, Trichet, Napolitano, tutta gente che non ha alcun titolo per imporci, ma neanche per proporci, misure economiche, si permettono fuori da ogni regola ufficiale di stabilire cosa sia giusto fare.
In questo contesto, l’intervista del leader inglese Cameron è nello stesso tempo illuminante e un manifesto di tracotanza. Egli lo dice chiaramente, difendiamo l’euro perché difendiamo il nostro proprio culo, con le nostre banche, abbiamo inondato il mercato di titoli più o meno tossici, e se andate in default chi paga siamo noi, con le nostre banche destinate ad un immediato fallimento, e le nostre stesse nazioni che dovranno dare default anche loro. Alla fine, tutta questa cartaccia, dovrà essere trattata per quello che è e quindi mandato al macero, e questo non piace loro, perché denuncia il carattere fittizio della ricchezza occidentale, ormai disperatamente attaccata a una massa di titoli senza alcun vero valore.
Ma tornando a Napolitano, mi chiedo perché questo alzare la voce sulla secessione. Presidente, qui non stiamo parlando di una posizione estemporanea, stiamo parlando di un aquestione che sta a fondamento stesso della Lega. Lei l’ha benevolmente tollerata per tutti i precedenti anni del suo mandato. Poiché l’ingenuità ha anch’essa i suoi limiti, mi chiedo cosa giustifichi queste sue iniziative proprio in questo momento.
Apparentemente, Lei sembra fornire elementi di coesione interna alla Lega, tutti a difendere il secessionismo dai suoi attacchi, e quindi la prima impressione sarebbe quella di una grave ingenuità politica da parte sua. Però, in questa stagione tormentata, sono più propenso a credere che questa sua mossa faccia parte di un piano concordato accuratamente, non escludendo che vi siano agganci perfino all’interno della Lega.
Mi chiedo però se ci possiamo permettere di assistere a questo protagonismo presidenziale, senza perdere ancora quote di democrazia.
Naturalmente, a completare questo penoso quadro, c’è il settore dell’informazione, sempre più militarmente impegnato a confondere le acque, a descrivere i fatti in maniera così distorta da apparire caricaturale. Quindi, raccomando occhi aperti, con la consapevolezza che ciò che comunque sospinge le acque stagnanti della politica sono le persone e il modo in cui democraticamente manifestano le loro opinioni. La raccolta delle firme sul referendum elettorale sono l’ultimo esempio di una bomba scoppiata nelle stanze ovattate del potere, che resiste, distorce, ma alla fine non può ignorare che un conto alla rovescia si è messo in moto.