venerdì 8 aprile 2011

PACIFISMO ED ARMAMENTI

Le questioni libiche hanno sollevato delle questioni nuove che a mio parere mettono in crisi le nostre certezze.

A sinistra, c’è stata la spaccatura tra interventisti e non-interventisti, anche se naturalmente, credo che molti di coloro che vengono inclusi tra gli interventisti difficilmente avrebbero deciso in quel senso avendo responsabilità governative. Sarebbe saggio ricordare che stiamo parlando di opinioni, e pertanto le motivazioni sono più che altro legate a speranze per il prossimo futuro, a quale situazione può aprire migliori prospettive future.

Ad ogni modo, non v’è dubbio che il pacifismo sia la prima vittima di questi eventi, nel senso che diventa sempre più difficile essere pacifista ai nostri tempi, e forse lo è ancora di più nella ricca Europa. In un mondo in cui il criterio della forza domina su tutti gli equilibri politico-economici globali, in cui le grandi potenze si sentono implicate in tutto ciò che avviene nel mondo, anche nei più remoti e derelitti luoghi, il pacifismo può diventare o può apparire come una manifestazione d’indifferenza. In altre parole, in un mondo profondamente ingiusto, il non usare la propria forza militare per raddrizzare ciò che appare palesemente storto, può, a torto o a ragione, apparire come un atteggiamento di colpevole indifferenza.

So naturalmente che esistono tante organizzazioni non governative che svolgono un ruolo fondamentale per alleviare i problemi di sopravvivenza di popolazioni condannate a una povertà eterna dagli equilibri mondiali, ma rimane il problema di come opporsi efficacemente alla violenza scatenata contro persone inermi anche localmente da capetti sanguinari che riescono agevolmente col denaro a raccogliere pattuglie di combattenti, a volte con l’aggravante di coinvolgere minori pronti a tutto pur di sopravvivere.

Sul ruolo dell’ONU e di qualsiasi organizzazione internazionale non credo che si possa fare affidamento, nel momento in cui è evidente la pretestuosità delle decisioni assunte su una concezione del diritto internazionale estremamente elastica.

A me pare, e capisco di non dire nulla di realmente originale, che il punto fondamentale sta negli armamenti. Uno dei più fiorenti settori economici è costituito da quello della produzione di armi, un settore che non vive cicli di crisi perché, forse assieme a quello alimentare, le armi si vendono sempre. Chi produce armi, deve venderle, e se i conflitti armati languono, non esiterà a suscitarne con tutti i mezzi per raggiungere il proprio scopo, appunto quello di dare lavoro alle proprie fabbriche. Tutti i mezzi includono il condizionamento delle politiche dei vari paesi, come pure la capillare diffusione di armamenti a vantaggio di soggetti irresponsabili, a cui ciascuno di noi non affiderebbe neanche una pietra o un bastone.

La mia opinione, ad esempio che la guerra in Afghanistan abbia proprio come principale motivazione il foraggiamento dell’industria bellica.

Ecco, il problema della produzione di armi a me pare il problema centrale di come si possa praticare un autentico pacifismo. Senza produzione di armi, cesserebbe la possibilità di sparute minoranze di prepotenti di imporre il proprio arbitrio ad intere popolazioni.

Non sono cioè i conflitti in sé il vero problema, ma il fatto che lo sviluppo tecnologico e gli enormi margini di profitto del settore armamenti hanno reso agevole l’accesso ad ordigni di potenza distruttiva enorme e che a loro volta rendono i conflitti estremamente sanguinosi, e il loro esito sostanzialmente indipendente dalla consistenza numerica delle parti in conflitto.

Mi rendo conto che si tratta di considerazioni perfino banali, ma non vedo nel mondo un fronte così compatto verso anche solo una puntuale regolamentazione del settore degli armamenti, dalla loro produzione fino alla loro diffusione.

Di fronte a queste richieste del tutto ragionevoli, si solleva la questione della sovranità nazionale, dell’esigenza di ciascuna nazione di difendere i propri confini ed i propri interessi. Tutto ciò è paradossale, in un mondo in cui gli stati nazionali hanno di fatto abdicato alla propria autorità a favore del mercato finanziario e alla sua cupola di stampo mafioso che detta alle nazioni la politica economica. Perfino per quanto riguarda la politica militare, dovrebbe essere evidente a tutti che è proprio questa cupola mafioso-affaristica che impone ai governi i propri diktat, come io credo avvenga per l’Afghanistan. Insomma, sono proprio gli interessi economici delle multinazionali degli armamenti che hanno sequestrato le sovranità nazionali, invocate poi strumentalmente per giustificare le enormi spese per armamenti.

In conclusione, io credo che un criterio di forza nel dirimere i conflitti sia inevitabile, ma è proprio l’entità della forza esercitabile che rende questo mondo così ingiusto e così inospitale per tanta parte dell’umanità, ed è perciò sul primo anello della catena, lì insomma dove le armi si producono, che bisogna intervenire. Domande su chi sia autorizzato a produrle, chi sia autorizzato ad acquistarle, credo sia oggi ineludibile.

4 commenti:

  1. in effetti essere pacifisti di questi tempi è difficile

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  2. Se solo mi dicessi dov'è la sinistra,ed anche la destra.Sai perchè tutto quel che vedo è money,idee
    personaggi di "spicco",io non vedo nulla di questo
    Egill

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  3. @Zefirina
    Sì, potremmo dire che è difficile essere coerentemente pacifista, genericamente sarebbe facilissimo...

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  4. @Egill
    E' anche la mia opinione, come ho ripetutamente sostenuto, la distinzione tra destra e sinistra è sempre meno linguisticamente utile. Nel senso insomma che ognuno ne da' una definizioone differente. Quando capita ciò nel linguaggio, significa che certi termini smettono di essere denotativi.
    Qui, usavo questi termini per riferirmi ai non interventisti differenti dai leghisti. un uso quindi con uno scopo specifico.

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