Più tempo passa, e più mi convinco che il punto fondamentale, quello che mette in crisi il mondo, è lo spodestamento della politica da parte dell'economia. E' una caratteristica dell'età moderna, iniziata proprio agli albori della modernità, sotto la spinta preponderante delle scoperte geografiche e delle innovazioni tecnologiche, che il fattore economico assuma un ruolo preponderante: faccio notare solo per inciso perchè la questione ci porterebbe lontano e meriterebbe ben più spazio, che l'uomo non nasce come la teoria classica liberale afferma come uomo economico perchè la lotta per procurarsi i mezzi di sussistenza non configura affatto un'attività economica: solo quando nasce lo scambio e soprattutto quando viene introdotto l'uso del denaro, nasce l'economia. L'economia quindi non fa parte della natura dell'uomo, ma soltanto della sua cultura.
E' stato acutamente fatto notare come il liberalismo nasca ben più tardi rispetto al capitalismo, che cioè già nel 1600 le prime teorie liberali certificassero una realtà di fatto, di un'economia sempre più capitalista come oggi la definiamo. Questo ordine cronologico, capitalismo prima, e liberalismo che di fatto giustificava una realtà già in gran parte affermatasi, è una sorta di peccato originale delle teorie liberali, che mai più riusciranno ad affrancarsi da questo aspetto con la conseguenza che davo in premessa di condannare la politica ad un ruolo ancillare rispetto all'economia.
Ciò ovviamente non significa che il liberalismo non abbia svolto un ruolo determinante nelle concezioni moderne, perchè ancora nell'ottocento il concetto di nobiltà, di un destino sociale legato alla famiglia di nascita, esisteva. Senza quindi scardinare questa discriminazione per nascita, il capitalismo non si sarebbe potuto affermare come lo vediamo oggi, doveva diventare un dogma che la collocazione nella società delle persone dipendesse esclusivamente dalla quantità di ricchezze possedute.
Se guardiamo allo sviluppo della politica negli ultimi secoli, marxismo incluso, vediamo che c'è un consenso generale sul desiderare una società sempre più ricca, in cui lo sviluppo tecnologico possa garantire a tutti gli uomini una vita libera dal condizionamento dai bisogni primari. Naturalmente le ricette per raggiungere questo stadio dell'umanità differiscono tra loro, ma è curioso osservare come a partire da quell'obiettivo, l'economia scalza la politica dal primo posto, ci obbliga a misurarci come questioni preminenti su questioni come la distribuzione della ricchezza, su come è possibile definire giusta una società proprio usando come criterio di giudizio la destinazione della ricchezza prodotta.
Infine, è sbalorditivo osservare che perfino le teorie che vorrebbero scardinare il principio della ricchezza crescente come obiettivo sociale prioritario, e mi riferisco ovviamente alle varie teorie sulla decrescita, siano anch'esse culturalmente succubi di questa cultura economico-centrica, in quanto utilizzano anch'esse, seppure a segno invertito, la ricchezza come criterio di riferimento, anche se esse vogliono che essa diminuisca.
Riprenderò il tema in un prossimo post, tentando di evidenziare quanto certi concetti che la nostra cultura pretende siano ovvii, non lo siano per niente.
lunedì 25 aprile 2011
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