Le elezioni politiche si possono considerare ormai alle porte, e rimane un sostanziale vuoto organizzativo nella parte politica che ha posizioni antieuropee.
Oggi, non tornerò per l'ennesima volta sul perchè non si possa che essere contro questa europa così come è già istituzionalmente definita, ma tenterò di fare un discorso interno a chi già si riconosce parte di questo ampio e variegato partito antieuropeo...
Vi dirò subito che mi sento abbastanza perplesso sui modi in cui sia possibile costruire un'unica lista in quest'area.
Si è tanto discusso su uscite da destra o da sinistra dall'euro, ma chi tra voi mi legge più assiduamente, conosce le mie perplessità riguardo l'utilità della dicotomia destra/sinistra in politica.
In ogni caso, potremmo comunque convenire che sia vantaggioso entrare nel merito delle questioni sul tappeto invece di stabilire le possibilità ed i limiti di un'ampia coalizione antagonista basandoci su un unico aspetto e su un'unica parola d'ordine. Senza quindi scomodare appartenze politiche che possono perfino apparire di natura più affettiva che dovuta a convinzioni ferme e logicamente fondate, sembra abbastanza ragionevole verificare passo passo quanto sarebbe politicamente produttivo la specificazione più o meno dettagliata delle posizioni di merito.
Sappiamo tutti che cresce giorno dopo giorno negli italiani l'opinione che si debba uscire dall'euro. Alcuni sostengono che già oggi essa sia maggioritaria, e di conseguenza si moltiplicano gli appelli per fare fronte comune su questo specifico punto, mettendo da parte ciò che differenzia e che potrebbe risultare divisorio, come si direbbe con un termine divenuto molto di moda.
Tuttavia, può la sola constatazione del pericolo di dividersi imporre il silenzio su tutto il resto?
La mia opinione in proposito è netta, pretendere di costruire una qualche forma di organizzazione, fosse anche soltanto una lista elettorale occasionale, costituirebbe un formidabile errore.
E' inutile nascondersi dietro un dito, le posizioni che convergono sulla volontà comune di uscire dall'euro sono le più diverse.
Quella prevalente che vede la leadership di Bagnai, è una richiesta secca, cioè considera questo passaggio decisivo necessario e sufficiente per indurre l'uscita dalla crisi. Ciò discende dalla considerazione che è il peggioramento delle condizioni della concorrenza interna all'unione europea la causa prima e fondamentale della crisi.
Corollari sarebbero quindi il ritorno a una moneta nazionale, la fine del divorzio della Banca d'Italia che ritornerebbe quindi ad essere prestatore di ultima istanza, e una politica neokeynesiana. Attraverso tali misure, si auspica sostanzialmente il ritorno a una politica economica che assomiglierebbe a quella democristiana degli anni settanta, prima che nel '81 Andreatta deliberasse il divorzio della Banca d'Italia, basata essenzialmente nel favorire la competitività dei prodotti italiani sul mercato internazionale tramite continue svalutazioni senza badare troppo a processi inflattivi.
Una seconda posizione, sostenuta da altri tra cui il sovranista ARS, richiederebbe anche l'uscita dalla UE per un pieno ripristino della sovranità nazionale.
Entrambe queste opzioni hanno in comune l'ignorare la causa della crisi in cui ci troviamo che, come dovrebbe essere a tutti noto, è di origine anglosassone e discende dalla dissennata emissione di titoli da parte delle grosse banche private prevalentemente USA. L'esistenza dell'euro ha soltanto aggravato l'impatto del nostro paese con la crisi, lasciandoci sostanzialmente inermi di fronte al tentativo delle banche di scaricare sui bilanci pubblici la loro crisi tramite vendite strategiche dei nostri titoli di stato allo scopo di aumentare i tassi che dobbiamo pagare sul nostro ingentissimo debito pubblico.
E' evidente che senza questo attacco forsennato lanciato contro tutti i bilanci pubblici di fonte USA, nessuna crisi sarebbe scoppiata, non almeno nei tempi e nei modi a cui abbiamo assistito, come è altresì evidente che i vincoli che ci impone l'essere parte dell'eurozona ha aggravato enormemente la dimensione della crisi. Sarebbe però doveroso ricordare che il divorzio della banca d'Italia, se mantenuto anche dopo l'uscita dall'euro, impedirebbe una vera soluzione del problema della sovranità monetaria, e tuttavia misteriosamente non trovo questo punto essenziale elencato tra i fautori dell'uscita dall'euro, ritengo più per una sottovalutazione della rilevanza di questo aspetto piuttosto che per la deliberata decisione di non procedere anche a questa riforma.
Io, nel mio piccolo, ma non sono certo solo a sostenere questa posizione, ritengo invece che i provvedimenti da assumere per uscire dalla crisi vadano commisurati all'intero quadro che ha determinato la crisi stessa.
Dietro questa differente posizione dei due fronti, ci sta una valutazione differente della gravità della crisi. Coloro che ritengono che sia sufficiente cambiare la nostra posizione all'interno della UE per risolvere la crisi, ritengono che la crisi mondiale generatasi negli USA sia una delle tante crisi cicliche del capitalismo, sicuramente più grave delle precedenti, ma sostanzialmente superabile con gli strumenti tradizionali del capitalismo. Il capitalismo per costoro sarebbe quindi più che mai vegeto e pronto a partite per un nuovo ciclo di espansione a breve termine tramite le classiche politiche keynesiane che così bene hanno funzionato nell'ultimo dopoguerra, e del resto essi sono dei grandi sostenitori del capitalismo, depurato delle scelte ultraliberiste che a loro parere sarebbero le uniche dannose per l'economia: basta curare il liberismo col keynesianesimo, e tutto tornerà a posto.
Non ritornerò sul merito di questa questione, faccio solo notare che scelte nell'alveo del pensiero di keynes non differirebbero in maniera significativa da quelle stesse che hanno generato la crisi.
La posizone opposta, quella in cui anche io mi riconosco, pensa invece che siamo in una situazione storica peculiare, in presenza quindi di una crisi del capitalismo epocale se non finale. Apparentemente, le ricette che altre volte sono state utilizzate per indurre l'uscita da periodi di crisi, oggi sono già state intraprese senza tuttavia ottenere alcun successo, come del resto è evidente. Il mio punto di vista è che la soluzione passi attraverso la distruzione della quasi totalità della ricchezza mobiliare, forse perfino dello stesso denaro. Si tratta di situazioni estreme che fanno preoccupare più che per gli aspetti specificamente economici (il melo continuerà a fare le mele, io sono solito dire), per gli effeti indotti come reazioni disperate da parte di quei creditori che si troverebbero improvvisamente privati dei loro crediti (tenete conto che tra i creditori, ci sono anche interi stati quali la Cina, tanto per fare un esempio significativo). Non si può escludere che lo sconvolgimento degli equilibri economici mondiali non porti a consgeuenze anche di natura bellica, e questa è la mia preoccupazione più grande, come immagino sia ovvio per tutti quanti.
Decidere quindi di abbandonare la famiglia europea per liberarci doverosamente da lacci e lacciuoli la cui assurdità e dannosità si va sempre più dispiegando nel corso del tempo, ma finire nel mare aperto del mercato mondiale, mi pare un'idea pessima. Se davvero come credo sia ormai diventata opinione diffusa, esistono robustissimi interessi privati globali, essi non perderanno occasione alcuna per continuare a fare ciò che l'esistenza dell'euro gli permette di fare oggi impunemente, con rinnovate modalità. Pensare che l'uscita dall'euro ci pone di fronte orizzonti economici gloriosi, è pura follia. In particolare, il problema dell'ingentissimo debito pubblico italiano non può essere elusa sostenendo come tanti euroscettici fanno, che si risolverà da sè mediante svalutazione e crescita economica, il debito pubblico sarà in tutta verosimiglianza il cavallo di troia che consentirà ai poteri finanziari globali di dettarci ancora la politica economica e di deprivarci delle nostre risorse economiche.
Nè posso tacere che un problema di bilancio statale in Italia è evidente. Contrariamente al pensiero dominante, il punto non sta nella questione dei saldi, cioè di quanto sia il deficit di bilancio, ma nei fenomeni che si annidano e trovano nutrimento nello stesso bilancio, e che si possono compendiare nel termine "illegalità". Tramite il mantenimento di clientele, comportamenti criminali di corruzione o anche solo di evasione fiscale, vengono incoraggiati, e ciò è del tutto incompatibile con uno stato di diritto, indipendentemente dagli specifici effetti dannosi sull'economia.
La mia opinione è quindi che nel quadro ormai palese di un'economia mondiale gravemente malata e che incontra resistenze formidabili a liberarsi delle cause stesse del suo declino, l'unica soluzione è opporsi alla stessa globalizzazione, esaltando gli strumenti decisionali che la nostra sovranità nazionale ci offre, e nello stesso tempo predisponendo robuste forme di protezione che ci consentano di uscire dal circuito mortale della competitività globale ormai insensata, avendo perso di vista l'uomo il che implica in campo economico perdere di vista la centralità del lavoro non come mezzo produttivo ma come fine in sè.
La crisi è in definitiva figlia del processo di globalizzazione, che d'altra parte induce anche altri problemi della nostra epoca, quali le migrazioni.
Per queste ragioni che qui per motivi di spazio mi devo limitare a citare brevemente, io credo che si dovrebbe andare a costituire una lista proprio per le prossime elezioni europee che abbia come parola d'ordine la più ferma opposizone alla globalizzazione.
Voglio qui brevemente richiamare quanto ho scritto solo pochi giorni fa in un altro post e che però mi pare non sia stato tenuto in grande considerazione da chi mi ha letto (almeno così fa credere il tenore dei commenti).
" Una
volta, si parlava di internazionalismo, con il che si intendeva che si
doveva sostituire al sentimento nazionale, che si concepiva come troppo
ristretto, un sentimento internazionalista per cui l'intera umanità si
riconosceva come partecipe di un'unica comunità umana.
L'internazionalismo così predicava una forma di solidarietà più ampia
rispetto al ristretto spirito nazionale. Oggi, la parola in voga, che di
fatto ha scalzato del tutto il termine internazionalismo, la
globalizzazione, ha un significato del tutto differente. Si potrebbe
dire che globalizzazione significa che a un determinato individuo la
singola nazione sta stretta, che egli, nel rivendicare la sua libertà
individuale di realizzazione personale, trova i confini nazionali troppo
angusti, e che quindi solo l'intero mondo è un campo da gioco abbastanza
vasto per la soddisfazione del suo ego (e chissà che forse gli
occorreranno altri pianeti perchè la terra in fondo è piccola per la
sconfinata ambizione di questi nostri simili)."
Porre la globalizzazione come bersaglio delle scelte politiche, costituisce l'unico obiettivo meritevole di un'azione politica che non abbia come fine soltanto interessi di promozione personale. Se la globalizzazione non venisse sconfitta, come appare purtroppo sempre più probabile, ogni iniziativa politica diventa vana, non esistono obiettivi meno ambiziosi che possano incidere sulla nostra vita sociale in maniera significativa se si perde la guerra alla globalizzazione. Concentriamo perciò i nostri sforzi in questa specifica direzione, compiendo l'unica reale azione internazionalista oggi consentita, battere la globalizzazione per promuovere processi di crescente collaborazione tra popoli e paesi differenti.
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