Mai come in questi ultimi mesi si sente il bisogno di una nuova radicalità in politica. Da una parte, la crisi economica spinge il mondo imprenditoriale verso una gara per una concorrenzialità crescente a livello globale, dall’altra cresce parallelamente l’intensità dei disastri ambientali. In quest’anno, abbiamo avuto almeno tre eventi davvero epocali, che ricordo brevemente. Il primo in ordine cronologico è costituito dal riversarsi di un’enorme quantità di greggio nel golfo del Messico, a causa di un incidente collegato a una trivellazione a grande profondità. Sono seguiti, praticamente in contemporanea, eventi meteorologici davvero senza precedenti, almeno da quando si abbiano dati di confronto. L’uno è costituito dall’anticiclone sulla Russia che ha causato temperature assolutamente inconsuete in quella regione, come pure una lunga siccità, e tutto questo risulta eccezionale soprattutto dal punto di vista della durata di queste condizioni. L’altro evento è costituito dalla quantità enorme di precipitazioni monsoniche in una vasta area che va dall’India alla Cina, passando per il Pakistan. In particolare, in questo paese, le precipitazioni hanno causato delle alluvioni che hanno coinvolto un’area vastissima del paese.
E’ evidente che qualcuno può declassare questi eventi fino a farli diventare degli episodi marginali, dovuti a condizioni contingenti. In verità, non può esistere alcuna possibilità obiettiva di collegarli alla politica, di fare cioè discendere questi disastri all’attività umana, così come socialmente organizzata. Nello stesso tempo, per le persone di buon senso è difficile credere a coincidenze particolari, dovute solo alla fatalità.
Insomma, qui si pone un problema enorme, che si può così riassumere. Il capitalismo globale impone una rincorsa verso una crescita sempre maggiore del PIL. La crisi crea una crescita della competizione, perché una domanda debole rende più difficile il piazzare la merce prodotta. La competizione a sua volta impone un aumento della produttività, per potere ridurre i costi. La conseguenza finale di questa logica è che si produce troppa merce, e la si produce con troppa poca gente. Andiamo quindi a una situazione di crescente sfruttamento delle risorse naturali, e nel contempo ciò avviene in presenza di sempre meno occupati. Il fatto è che anche aree del mondo in cui si era creata una legislazione del lavoro orientata al lavoratore, come tipicamente l’Europa, nella presente situazione si trovano di colpo a dovere sottostare a condizioni di lavoro sempre più gravose, con salari decrescenti, almeno in valore reale. Tutto ciò, come dicevo, avviene in un contesto che dovrebbe sconsigliare uno sfruttamento così esteso e sistematico delle risorse naturali per motivi di una gravità assoluta: la stessa possibilità di sopravvivenza dell’umanità.
Se sulla base di buoni motivi, i tre disastri ambientali che citavo, si ritiene che il paventato danno ecologico globale dovuto all’attività antropica abbia già raggiunto, proprio ai nostri giorni, il livello di guardia, e che cioè un perseverare in questa distruzione sistematica dell’ambiente all’unico scopo, in fondo sciocco, di circondarci di sempre più oggetti, allora opporsi al meccanismo perverso della competitività sempre più feroce e in realtà inutile non è soltanto ragionevole, ma addirittura un dovere morale, una capacità di opporsi alla follia collettiva per evitare la catastrofe all’umanità a cui apparteniamo.
Come si capisce, non sembra essere l’ora delle risposte articolate, della moderazione, ma è piuttosto il momento di schierarsi, di gridare ai propri simili che stiamo accelerando il treno che ci porterà verso un burrone da cui sarà impossibile salvarsi.
Ciò che allora dovremmo proporre è una società in cui ci sia lavoro per tutti, che le condizioni di lavoro siano umane, che l’orario di lavoro sia abbastanza ridotto da contenere la produzione totale di merci. E’ inutile nascondersi dietro un dito, ciò comporterà inevitabilmente un ridimensionamento dei consumi, una disponibilità ridotta di oggetti, ma siamo poi certi che questo costituisca un sacrificio, un peggioramento delle condizioni di vita, e non invece una vita più aderente a come siamo programmati naturalmente?