lunedì 2 maggio 2011

LE INGIUSTIFICATE CERTEZZE DELL'ECONOMIA

Riprendo il discorso iniziato in un mio recente post su questo stesso blog, dove affermavo che l’economia ha ormai occupato il territorio della politica, togliendo a questa ogni possibilità di influenza sulle scelte dell’umanità.

Un’obiezione che mi potrebbe essere rivolta è che è fisiologico che la politica economica giochi un ruolo fondamentale in politica: se le misure normative adottate in un paese rispondono ad una logica economica, tutto ciò sembrerebbe del tutto giustificato, vista la rilevanza che gli atti economici rivestono nella vita di tutti noi.

E’ bene allora chiarire che io non sono affatto contro l’importanza della politica economica, ma bisogna stabilire allora chiaramente cosa si intenda con tale espressione. Anzi, aggiungerò che è fondamentale la centralità della politica economica, purchè ci si riferisca all’importanza delle scelte politiche che comportino una significativa ricaduta di tipo economico. La politica economica dovrebbe cioè corrispondere a una serie di scelte politiche, e quindi collegate a una strategia politica a tutto campo, e che faccia sempre riferimento agli aspetti fondamentali, quelli che dovrebbero essere di pertinenza della filosofia politica.

Ciò che invece vediamo è una politica economica che non ha più nulla di politico, come si potrebbe anche osservare perfino, e paradossalmente, nella stessa filosofia politica, a cui si da’, ad esempio in campo liberale, una struttura assiologica (basata su valori dati per veri e pertanto non argomentati).

Soffermiamoci allora sul concetto di concorrenza competitiva in economia.

Secondo la teoria economica tradizionale, il regime di libera concorrenza realizza una situazione di ottimo, cioè la migliore situazione possibile, per la collettività. Ciò accadrebbe per tre motivi:

1) in concorrenza, il prezzo dei beni tende ad eguagliare il costo dei produzioni dei beni stessi;

2) la concorrenza realizza la sovranità del consumatore;

3) la concorrenza spinge le imprese ad utilizzare i fattori produttivi (capitale e lavoro) in modo efficiente (cioè economico o razionale) e fa ottenere nel sistema economico il massimo volume possibile di produzione (di beni e servizi).

La prima motivazione è in sé priva di importanza, ma può piuttosto concorrere al raggiungimento della terza condizione.

La seconda motivazione è del tutto falsa come appare ovvio a tutti noi. Il consumo è indotto dalla produzione, e non il contrario (non si può desiderare di consumare un bene che ancora non è stato neanche concepito, come accade per mille oggettini tecnologici di cui non immaginavamo neanche la possibile esistenza fino alla loro apparizione sul mercato). Del resto, se così non fosse, non si giustificherebbero i giganteschi investimenti finanziari per la pubblicità.

Rimane così solo la terza motivazione, che si basa sulla non argomentata esaltazione della massimizzazione della produzione. Ebbene, ciò che ancora mezzo secolo fa poteva apparire come un’ovvietà, cioè che la disponibilità di più oggetti sia un fatto desiderabile di per sé e per tutte le persone, oggi è evidentemente, e aggiungerei altrettanto ovviamente, falso. L’aumentata disponibilità di prodotti ha chiaramente un aspetto totalmente differente in Europa rispetto alla Cina, come in Europa si è presentata totalmente differente fino agli anni settanta rispetto ai nostri giorni. Si potrebbe perfino affermare che esiste uno specifico valore ottimale di disponibilità di beni, tale che alla sua diminuzione come analogamente a un suo aumento, corrisponda un peggioramento della qualità della vita.

Naturalmente, questo valore non può essere definito da un numero, ma bisogna entrare nel merito dello specifico tipo di beni, che possono essere desiderabili, ma possono anche risultare dannosi. E’ curioso osservare come il famoso filosofo politico Rawls nella sua famosa teoria della giustizia, di fatto si riferisca esclusivamente ad un’equa ripartizione dei beni, dando così per scontato che averne di più sia un indiscutibile vantaggio.

Inoltre, il processo produttivo non può essere considerato come un fatto isolato, ignorandone le implicazioni sulla società nel suo complesso. Una politica semplicemente intelligente dovrebbe cioè considerare tutti gli aspetti occulti correlati all’attività economica.

Qui, mi soffermerò sui due che considero i più importanti, l’aspetto ambientale e l’aspetto occupazionale.

Finora, per semplificare il discorso, non ho citato esplicitamente come i prodotti possano essere di due differenti tipi, l’uno le merci, e l’altro i servizi. Le argomentazioni fin qui svolte possono indifferentemente riguardare entrambi i settori, anche se nel caso delle merci le considerazioni fatte acquistino una maggiore evidenza. Si potrebbe a lungo argomentare su quali siano i servizi la cui disponibilità possa apparire desiderabile, e proprio questo sarebbe il terreno della politica.

Per l’aspetto ambientale, non vi è dubbio che siano le merci ad essere coinvolte. In particolare, sono evidenti a tutti le ricadute ambientali della produzione industriale. Cosa abbiamo di legislazione in materia a livello internazionale? A mia conoscenza, c’è soltanto la “carbon tax”, che riguarda l’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera a causa della combustione di combustibili fossili, e in dipendenza dello specifico tipo di combustibile fossile. Troppo poco in verità, ed inoltre stranamente non si prevede un contributo premiale per le nazioni che mantengano il loro patrimonio boschivo, contribuendo così al riequilibrio. Adesso, hanno messo al bando gli shoppers, i sacchetti di plastica per la spesa: sicuramente una misura positiva, ma anche questa così minima nel mare delle ricadute ambientali da risultare una misura essenzialmente simbolica.

La valutazione dei costi ambientali dovrebbe invece costituire una procedura sistematica da parte di organismi tecnici, che dovrebbe comportare una quantificazione di aggravi di costo per i produttori coinvolti.

Il secondo aspetto è quello occupazionale. In questo caso, merci e servizi hanno un ruolo analogo. Sembrerebbe ovvio che se aumenta la produzione per addetto, a parità di produzione l’occupazione debba diminuire. Ci si chiede a questo punto quale sia il vantaggio di produrre con novanta persone ciò che veniva prodotto da cento persone, e lasciare senza occupazione le rimanenti dieci. Sembrerebbe, ma vorrei essere smentito, che il vantaggio sia esclusivamente per l’azienda, ma certo non per la società nel suo complesso. Sembrerebbe quindi che la piena occupazione, e non la massimizzazione della produzione, debba considerarsi come il vero obiettivo sociale.

Finirò, a titolo di esemplificazione, parlando del settore della distribuzione, dove negli ultimi decenni abbiamo assistito alla crescente importanza della grande distribuzione sulla distribuzione tradizionale tramite i piccoli negozi.

Certamente, è stato possibile ridurre in una certa percentuale i prezzi alla vendita di tantissimi articoli, ma sarebbe un grave errore considerare questo come l’unico effetto indotto da questa trasformazione. Citerei questi altri qui di seguito, e ditemi se si possano considerare positivi: caduta verticale dell’occupazione nel settore, aumento del consumo di carburanti per raggiungere centri commerciali lontano dai centri urbani, contemporaneo svuotamento dei centri storici (i negozi sono la vera struttura della città) e riduzione del momento dell’acquisto ad anonimo atto puramente economico, sollecitazione a un consumo crescente di merci indotto da una loro accorta esposizione.

Alla fine di tutto ciò, dovremmo pure chiederci a cosa sia servito organizzare la società in funzione di un obiettivo unico, la massimizzazione della produzione, senza che nessuno sia in grado di motivare in maniera definitiva ed indiscutibile perché questo sia un obiettivo da desiderare.

1 commento:

  1. ecco la vera domanda è questa che fai nell'ultimo capoverso, credo che banalmente alla base ci sia appunto il costante incremente del desiderio del desiderare sempre più cose, siamo schiavi delle cose che possediamo e che vorremo possedere, dovremmo imparare a essere più parchi e inseguire un giusto consumo

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