mercoledì 5 ottobre 2011

PERCHE' LA TRAGEDIA DI BARLETTA NON SI RIPETA

Oggi, molti articoli si occupano dei fatti di Barletta. Il punto di vista è oggi quello più distante, del commento, delle osservazioni di carattere generale che questi fatti ci suggeriscono.

L’aspetto che viene in evidenza è quello dell’aziendina in nero, che per potere continuare ad operare, costringe le lavoratrici a condizioni di lavoro difficili, un pezzo di Cina si potrebbe dire, impiantato in Italia.

Un commento che ho ascoltato alla rassegna stampa di Radiotre, e che purtroppo non so né dove sia stato pubblicato, né da chi sia stato scritto, si scaglia contro questa logica, di questo abbassare i costi di produzione per potere competere con gli stessi paesi emergenti. L’articolista sottolinea come invece noi dovremo piuttosto puntare sulla qualità, dobbiamo fare non magliette a costi irrisori, ma magliette che siano belle, assecondare il patrimonio di fama che l’Italia si è fatta nel mondo e che associa il nostro paese al concetto di bellezza, al design raffinato e appunto di elevata qualità.

Tutto giusto questo, chi sceglierebbe potendo tra produrre a costi infimi roba scadente e produrre a costi ben più elevati articoli ben fatti che trovino un loro mercato a prezzi remunerativi?

Epperò questo articolo, così almeno come era riassunto alla radio, rischia di apparire come Maria Antonietta e la notissima frase che le viene attribuita sul perché non trovando pane, il popolo non mangi le brioche. Vorrei dire che il mercato dell’abbigliamento, come un po’ tutto il mercato, vede ovviamente fasce di qualità e di prezzo molto differenti, ma non bisognerebbe tacere sul fatto che le quantità movimentate sono anch’esse ben differenti nelle due fasce di prezzo. Sì, saremmo tutti contenti che le nostre lavoratrici possano guadagnare ben più dei miseri quattro euro l’ora con cui venivano retribuite, ma temo che la soluzione prospettata nell'articolo che cito non sia accessibile. Sicuramente ci sarà qualcuno che sfonderà, e potrà affiggere sugli indumenti prodotti i prezzi che crede, ma chi può ragionevolmente pensare che questa possa costituire una soluzione di carattere generale?

Ecco, a me pare che in questo ragionamento manchi un pezzo fondamentale, che cioè sia monco nel non specificare una serie di condizioni al contorno che dovrebbero accompagnare le condizioni stesse del lavoro.

La prima condizione è che non sia consentita la vendita di prodotti scadenti. Possibile che non si capisca che devono esistere robuste barriere doganali che impediscano alla Cina di turno di inondarci impunemente di robaccia di infima qualità? Non possiamo aspettare una improbabile e indeterminata opera di educazione collettiva per superare la tendenza spontanea di consumatori con poca disponibilità finanziaria a preferire l’acquisto di più capi piuttosto che un unico di qualità. Dobbiamo ammetterlo, l’unico modo per obbligare all’acquisto di roba di qualità è che sul mercato sia l’unica presente, che non sia possibile trovare roba a prezzi stracciati.

L’introduzione di misure protezionistiche può servire anche allo scopo di difendere il lavoro e la sua remunerazione. Da una parte, fa da diga al dilagare di robaccia a consumo rapido, dall’altro crea un mercato non competitivo, o almeno meno competitivo, dove le cose abbiano un prezzo abbastanza alto da permettere ai lavoratori di potere operare in condizioni umane, con ritmi e tempi di lavoro umani, e tali che una famiglia in regime di piena occupazione possa vivere in maniera sobria ma non si debba privare dell’essenziale e di quel poco di superfluo che a mio parere è anch’esso essenziale, se volete a livello psicologico.

Una buona maglietta deve avere un prezzo adeguato, non possono bastare pochi euro per produrla, e ciò naturalmente vale per qualsiasi tipo di prodotto. Penso ad esempio all’agricoltura, in cui la competizione si è spinta a tal punto da determinare la cessazione stessa delle attività per impossibilità di produrre a livello minimamente remunerativo.

Se ci riflettete, si tratta solo di fare una specie di rewind, di tornare indietro di circa cinquanta anni, quando era cosa ovvia che le cose erano fatte per durare nel tempo, quando l’automazione non si era spinta così tanto da provocare l’espulsione della forza-lavoro.

Viviamo in clima ideologico che considera desiderabile, senza peraltro motivarlo minimamente, l’abbassamento dei costi, la competitività come nuova religione del nostro tempo. Se non usciamo da queste logiche, piangere sulle morti delle lavoratrici di Barletta è solo versare le classiche lacrime di coccodrillo.

La vera rivoluzione è capovolgere questa logica, rimettere l’uomo al centro, e quindi immaginare un’economia che abbia come fine la piena occupazione, e che a questo fine aggiusti le condizioni e le norme adottate.

4 commenti:

  1. Ho trovato l'articolo, è su "La Stampa" a firma di Gramellini. Ecco il link:

    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=41

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  2. Scusa, ma non credo sia la Cina che ci inondi con la "robaccia", ma sono i dirigenti delle aziende nostrane che inondano il mercato di roba scadente, spesso passata addirittura per made in italy.
    Se un jeans lo produco in cina, non è per questo che è scadente, lo è perchè la stoffa (prodotta magari altrove) è scadente, perchè i metodi di cucitura sono scadenti, ecc. Per cui, anche a fronte di barriere doganali, il buon manager occidentale troverebbe il modo di fabbricare merce scadente in loco.
    Se un jeans è dato da lavoratore+materiale+assemblaggio, se invece di produrre in cina, produco in italia, cambia solo il lavoratore, che è italiano e costa di più. Per cui a fronte dello stesso pessimo prodotto avrò un costo maggiore.
    Inoltre privi di concorrenza dall'estero, grazie alle barriere doganali i prezzi potrebbero ulteriormente lievitare.
    Regolamentazione e controlli si, dazi no, questo secondo me.

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  3. @Gigi
    Difatti, io scrivo "la Cina di turno", non cambia nulla se sostituiamo Cina con un altro paese, ma il caso della Cina è emblematico, coi syuoi distretti produyttivi schiavistici in cui si produce la maggior parte della merce commercializzata nel mondo.
    Quel modello, e qui sono totalmente d'accordo con Gramellini è inaccettabile, ma sarebbe vano pretendere che si affermi un modello differente in presenza di merci a così basso prezzo.
    Il punto fondamentale che forse non si evinceva è il costo di produzione troppo basso, la bassa qualità è una conseguenza necessaria dell'esigenza di avere costi di produzione molto bassi. Comunque, anche se la roba fosse eccellente, non va bene avere costi di produzione troppo bassi. La disponibilità di tanta merce così economica impedisce di affermare un modello economico differente, ed è per questo che ribadisco che dovremmo avere barriere doganali robuste.
    Ciò certamente, come tu dici, non ci assicura che ciò che verrebbe prodotto in Italia sia di qualità, ma sicuramente lo favorisce, perchè un consumatore che paga di più per un determinato prodotto, è più attento a valutarne il valore effettivo.
    Dobbiamo capire che oggi esiste solo un tipo di internazionalismo, quello capitalista, e che ripristinare la sovranità nazionale e regolando anche con mezzi fiscali il flusso delle merci come anche dei titoli, significa soffocare il capitalismo, ogni altra via essendo oggi del tutto illusoria.

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  4. Dobbiamo capire che oggi esiste solo un tipo di internazionalismo.
    così penso che questo genere di cose sono i più importanti, minerali non se le politiche quali sono stati approvati

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