venerdì 24 novembre 2017

ALCUNE CONSIDERAZIONI SU INFLAZIONE E OCCUPAZIONE

Vorrei condividere con voi un bel post di un amico economista che ha soprattutto il pregio della chiarezza, merce rara quando ci si addentra in dettagli tecnici, ma anche perché mi da l'agio di fare un'osservazione di carattere più generale.
Ecco qui di seguito il testo:...

"Mi chiedono di commentare due affermazioni tra loro strettamente collegate: (a) il NAIRU è inattendibile; (b) l'emissione di nuova moneta non genera inflazione.
Scusandomi anticipatamente per il fatto che la mia risposta è evidentemente irrispettosa dei tuoi standard di “sintesi”, comincerei dalla (b). E comincerei col dire che la questione è "linguisticamente" malposta. Si può emettere nuova moneta in vari modi, e non tutti producono gli stessi effetti. Si può emettere nuova moneta acquistando titoli sul mercato o rilevando debiti di banche (in tal caso parleremo di POLITICA MONETARIA). In questi casi, come uno sconosciuto studioso di nome Keynes e tanti suoi epigoni hanno sostenuto, non è affatto detto che la moneta emessa arrivi sul mercato delle merci e si trasformi quindi in "domanda", perchè gli operatori che l'hanno ricevuta (banche e/o detentori di portafogli titoli) possono avere interesse a trattenerla nei propri portafogli nell'attesa di momenti più propizi per investirla in attività finanziarie o reali fruttifere. In tal caso, tutti i problemi da te posti non sussistono: se la moneta non arriva sul mercato la domanda non aumenta, e se la domanda non aumenta non c'è nessun motivo per attendersi un aumento dei prezzi, quindi sapere se il NAIRU esiste o no e a che valore corrisponda non è di nessun interesse. In tal caso la moneta non porta niente di cattivo, ma purtroppo neanche niente di buono. Quindi diventa difficile capire che cosa mai ce ne dovremmo fare del potere di utilizzare la “politica monetaria”.
Ovviamente però a te non interessa la politica monetaria. A te interessa una modalità assai diversa di immissione di moneta nel sistema: tu vorresti che la moneta fosse immessa nel sistema COME CONTROPARTITA DI UNA SPESA PUBBLICA IN DEFICIT. Ad esempio: il governo italiano decide di fare il Ponte sullo Stretto, e non avendo nessuna voglia di tassare i cittadini né di indebitarsi nei loro confronti, finanzia quest’opera chiedendo ad un proprio istituto di emissione di stampare banconote (o, più semplicemente, di accreditare sul conto corrente delle imprese appaltatrici il valore delle relative commesse). In questo caso, le questioni da te poste acquistano una certa rilevanza: la moneta emessa arriverà sicuramente sul mercato delle merci, in quanto le imprese appaltatrici che l'hanno ricevuta la utilizzeranno per assumere i dipendenti necessari a realizzare le opere che gli sono state commissionate, e costoro a loro volta la useranno per acquistare beni di consumo, innescando un concatenarsi di effetti espansivi. Quello stesso economista sconosciuto di cui sopra ha definito questo concatenarsi di effetti "moltiplicatore del reddito", ma questa definizione agli economisti mainstream non piace, e quindi per non urtare la loro suscettibilità non la userò. Ma, al di là di quale nome gli diamo, rimane il fatto che quando i lavoratori assunti nelle imprese che lavorano alla costruzione del Ponte sullo Stretto andranno a fare le loro spesucce, e le imprese commissionarie a loro volta andranno ad acquistare le materie prime necessarie per realizzare le opere, le imprese presso cui i primi e le seconde si forniscono vedranno svuotarsi i loro magazzini, e saranno costrette a telefonare ai propri fornitori per ordinare nuovi "carichi". Un attimo dopo aver ricevuto quelle telefonate, i produttori dei beni di consumo e delle materie prime esaurite saranno costretti ad assumere nuovi lavoratori per produrne di nuovi. E così via: ogni aumento della domanda porta con sé un aumento della produzione, ed ogni aumento della produzione genera un aumento della domanda.
Io sono assolutamente convinto della bontà di questa ricostruzione, ed infatti la racconto ogni anno a miei studenti con gran dovizia di particolari, anche se agli economisti mainstream che poi decidono la qualità del mio lavoro (e quindi la mia carriera, e quindi il mio stipendio-base, e tra un po’ anche gli scatti stipendiali) non piace. Però, se a un certo punto la manodopera comincia a scarseggiare, si scatena una concorrenza tra le imprese per accaparrarsi i pochi lavoratori disponibili, e la concorrenza si gioca fondamentalmente (anche se non esclusivamente) sul salario: i salari cominciano a crescere, e tutti sanno che se la crescita dei salari non è compensata da proporzionali aumenti della produttività, le imprese vedono comprimersi i propri margini di profitto e tenteranno di "difendersi" aumentando i prezzi.
Questo vuol dire che non si può abbassare la disoccupazione fino al livello che ci piace di più senza costi per la comunità: quando il tasso di disoccupazione si abbassa al di sotto di un certo livello, continuare ad aumentare la spesa pubblica finanziandola con l'emissione di moneta ha effetti inflazionistici. Quindi sono portato a negare che la tua proposizione (b) abbia validità generale. Se la manodopera disponibile è abbondante, probabilmente tu hai ragione: sebbene il tasso di disoccupazione si stia riducendo, la forza contrattuale dei lavoratori rimane bassa. Finchè la disoccupazione rimane elevata, è facile infatti per le imprese mantenere bassi i salari utilizzando il ricatto del licenziamento. Ma quando la manodopera comincia a scarseggiare, quel ricatto non funziona più, perchè i lavoratori sanno che se licenziati da un'impresa troveranno facilmente lavoro in un'altra. Quando si arriva a quel punto, ulteriori aumenti della spesa in deficit, riducendo ulteriormente il tasso di disoccupazione, hanno l'effetto di far lievitare i salari e i prezzi.
E veniamo finalmente al punto (a). Le espressioni "manodopera abbondante" e "manodopera scarsa" hanno un significato pratico-operativo? Si può capire al di sotto di quale tasso di disoccupazione i prezzi cominciano a crescere? Molti studiosi hanno creduto di poter definire un confine tra le due situazioni tramite il concetto di Natural Rate of Unemployment (NRU). Tu parli di NAIRU, ma anche in questo caso impropriamente. In realtà il NAIRU è una cosa leggermente diversa. Ma qui tralascerò questa sottigliezza, visto che i problemi che si incontrano nella misurazione del NRU sono esattamente gli stessi che si incontrano nella misurazione del NAIRU. Il vero problema, al di là delle sfumature, è capire se esiste un modo per capire quando un'economia "entra" in una situazione caratterizzata da pressioni inflazionistiche.
Immaginiamo di voler realizzare un certo "target" di inflazione. Data la mia scarsa fantasia immaginerò che si voglia realizzare il target del 2%. C'è un modo di sapere al di sotto di quale tasso di disoccupazione il tasso d'inflazione comincia a discostarsi da quel valore? Perchè se c'è un modo, allora la politica fiscale diventa facile: espandere il deficit pubblico fino al livello che porta la disoccupazione al livello compatibile con il tasso d'inflazione del 2% e poi fermarsi.
La Commissione Europea ha costruito le sue politiche di controllo delle politiche fiscali dei paesi membri nell'ultimo decennio su questa certezza: che fosse possibile stimare il NAIRU grazie alle tecniche econometriche, e che sempre attraverso quelle tecniche fosse anche possibile determinare il livello del deficit pubblico compatibile col NAIRU. Una volta determinati quei valori, la Commissione poteva dedicarsi al mestiere che più le piace: scrivere letterine minatorie ai governi dei paesi membri "consigliandoli", per così dire, di non discostarsi dai quei valori così determinati pena ritorsioni assai inquietanti.
I governi dei paesi membri hanno aderito più o meno pedissequamente a quelle "raccomandazioni", con il risultato che il tasso d'inflazione in Europa è stato per 10 anni al di sotto del target e il tasso di disoccupazione è stato per 10 anni a livelli da calamità naturale. Cioè, detto con linguaggio più prosaico, gli econometrici della Commissione Europea l’hanno fatta abbondantemente “fuori dal vaso”. Perfino un apologeta della mainstream economics come Blanchard, a lungo chief economist del FMI, ha recentemente sostenuto che le politiche fiscali europee sono state basate su stime del NAIRU un tantino esagerate. E se lo dice Blanchard, che avrebbe i suoi buoni motivi per non dirlo, non ho nessun motivo per non credergli.
Concludendo:
(a) Il NAIRU esiste
(b) Purtroppo, però, non esiste ad oggi un metodo affidabile per misurarlo. Dal mio punto di vista, l'econometria è scienza assai affine all'astrologia.
(c) In ogni caso, se un metodo attendibile per misurare il NAIRU esistesse, il vero problema sarebbe comunque in quali mani affidarlo senza temere il suo uso per fini “politici”. Finchè la principale fonte di produzione della ricerca econometrica saranno le agenzie di governance dell'economia globale (FMI, World Bank, Banche centrali, Commissione Europea) sarà difficile evitare i conflitti di interesse connessi alla misurazione di parametri chiave nella definizione delle "guidelines" di politica economica."
Bene, l'osservazione che volevo fare è se non ci sia un'obiezione più di fondo e che riguarda quello che io ritengo un'inversione indebita di priorità.
Mi chiedo se a prescindere dalla effettiva possibilità di calcolare il NAIRU, cioè di avere un modo univoco di correlare tasso di inflazione e tasso di disoccupazione, in base a quale perversione si sia giunti a considerare prioritaria la fissazione di un tasso di inflazione ottimale e accettare la disoccupazione conseguente, invece di come sembrerebbe ovvio fare il contrario, definire cioè un obiettivo di disoccupazione massima tollerabile e accettare il conseguente tasso di inflazione conseguente, qualunque esso sia.
Tecnicamente, quando si sceglie di sostituire come obiettivo delle proprie scelte l'uomo con qualsiasi altra entità, questa pratica si definisce come una forma di perversione, allo stesso identico modo di quando al desiderio per il proprio partner sessuale si sostituisce una specifica parte del suo corpo, ad esempio nel caso noto del feticismo nei confronti dei piedi.
Insomma, siamo in pieno caso di una forma di patologia, che purtroppo non riguarda singoli individui, ma lo stesso pensiero dominante, e quindi la società nel suo complesso, considerare il valore della moneta come interesse prevalente rispetto al lavoro, cioè alla stessa possibilità degli uomini di accedere ad un reddito ma in senso più generale a un ruolo dignitoso nella società. 


Qui di seguito la risposta dell'amico che scrive con la consueta chiarezza:
"Provo a rispondere a Vincenzo, perchè credo che la sua domanda è abbastanza generale e credo che - se rispondo a lui - implicitamente trovano risposta anche un pò di altri quesiti. Io sono assolutamente d'accordo sul fatto che il tasso di disoccupazione dovrebbe godere di una rilevanza, come obiettivo di politica economica, AUTONOMA dal tasso di inflazione (come del resto è stato per tutti i trent'anni successivi alla II guerra mondiale). Tuttavia non mi spingerei a dire che, una volta deciso il tasso di disoccupazione, ci può andar bene QUALUNQUE tasso di inflazione compatibile con il tasso di disoccupazione prescelto. Il motivo è molto semplice: l'inflazione non è un fenomeno privo di conseguenze per il funzionamento di un'economia le di una società. Una società assorbe facilmente un'inflazione del 3-4, forse anche 5%, ma quando va al di sopra di certi livelli, sorgono casini grossi. L'inflazione è un meccanismo che redistribuisce ricchezza tra i gruppi sociali in maniera "forzosa". E, tra l'altro, funziona come strumento di stimolazione dell'economia SOLO SE redistribuisce in maniera forzosa. Ma, come potete capire, il meccanismo funziona solo se la redistribuzione forzosa non è di dimensioni eccessive, altrimenti i gruppi sociali danneggiati dall'inflazione possono reagire con comportamenti disfunzionali nei confronti del sistema nel suo complesso. Ad esempio, i possessori di attività finanziarie, che si vedono "espropriati" di una parte del valore della loro ricchezza (tenete presente che i contratti di credito sono denominati in moneta, e se i prezzi aumentano, il valore reale di quei contratti si riduce), possono decidere di ridurre il proprio risparmio e aumentare la propria propensione al consumo, facendo venir meno il finanziamento alle attività produttive o allo stato; i consumatori possono rivolgersi per i loro acquisti ai mercati esteri, mettendo ancora più in difficoltà l'industria nazionale. Il problema è che il NAIRU non è una soglia meramente simbolica e priva di significato sostanziale: il NAIRU è un indicatore che ci dice (se si potesse calcolare, ovviamente) quando il sistema comincia a funzionare male per effetto delle perturbazioni derivanti dalla moneta."
Per quanto mi riguarda, vorrei innanzitutto ribadire che l'economia dovrebbe sempre stare al servizio della politica, il che dovrebbe sempre suggerirci di considerare le scelte di politica economica per ciò che effettivamente sono, un mezzo di redistribuzione del potere, non come se fossero dettate da certe regole tecniche inviolabili. Una volta entrati in questa logica, un intervento attivo nell'economia da parte di stati, naturalmente pienamente sovrani, sennò non hanno i mezzi necessari per farlo, non solo è lecito, ma direi che è perfino raccomandabile.
Uno stato deve potersi porre un obiettivo di occupazione e andare in disavanzo per quell'anno per giungere a questo fine considerato prioritario su una base squisitamente politica. Niente vieterà nel futuro immediatamente successivo a quello stesso stato di frenare sul disavanzo e sull'inflazione una volta raggiunto l'effetto desiderato di stimolo all'attività economica. Ciò che trovo davvero aberrante è che appena si trova un discostamento del tasso inflattivo rispetto a quello desiderato, si debba intervenire subito, anche a costo di danneggiare il livello di attività economica, mentre si pretende di fare ripartire l'attività economica senza violare i sacri principii di equilibrio di bilancio. In questo trovo la mostruosità, l'avere alterato l'ordine delle finalità.
Ciò che invece su un piano di tecnica economica seguito a non capire è perchè mai lo stato che ha facoltà di stampare moneta, debba dipendere per la propria disponibilità finanziaria dai cosiddetti risparmiatori, cioè da chi detiene una disponibilità di capitale (non vedo come separare i risparmiatori dai capitalisti). A me sembrerebbe logico invertire l'ordine, e cioè penso che lo stato debba ricorrere al credito privato non perché ne abbia bisogno, ma per permettere ai privati di difendere almeno in parte il valore reale del proprio piccolo patrimonio.
In ogni caso, ribadisco che io sono per un'economia pianificata, e quindi non sono il soggetto adatto a farsi carico delle esigenze di funzionamento dell'economia di mercato, e sono quindi nella posizione privilegiata per rilevare come un'esigenza reale (il lavoro) sia stata conculcata in nome di regole automatiche e necessitate dell'economia di mercato. Alla fine, se davvero il lavoro deve mancare per fare funzionare l'economia di mercato, mi pare del tutto lecito chiedersi se non sia da buttare via l'economia di mercato in sè.

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