giovedì 18 marzo 2010

SUICIDI DI IMPRENDITORI

Ieri, ascoltavo alla radio la lettura di un articolo apparso non so bene su quale quotidiano sui suicidi di piccoli imprenditori veneti, ormai un dato statisticamente significativo. Si tratta certo di una notizia triste, ma ciò su cui mi vorrei soffermare è sul commento che appariva nell’articolo in questione. In sostanza, il giornalista sosteneva che, pur condannando il gesto in sé, il suicido rappresenta la testimonianza di quanto ci sia di buono nell’imprenditoria italiana, e segnatamente quanto il modello “piccolo imprenditore” del nostro nord-est rappresenti un’isola di etica nel lavoro, soprattutto se paragonato ai grossi finanzieri che hanno causato con i loro comportamenti irresponsabili la crisi mondiale in cui ci ritroviamo. Difatti, per l’articolista, la causa del suicido starebbe nell’impossibilità di onorare il patto con i propri dipendenti a cui doveva necessariamente garantire una continuità nel rapporto di lavoro. Insomma, di fronte alla prospettiva di dovere licenziare, sentiva il peso della propria responsabilità rispetto ai dipendenti coinvolti.

A me, lo dico chiaramente, pare un commento assolutamente non condivisibile. Non dico che questo imprenditore non avesse stabilito un rapporto di reciproca fiducia e solidarietà coi propri dipendenti, ma se si isola questo aspetto decontestualizzandolo, non se percepisce il significato più profondo. L’aspetto di fondo è appunto questo spirito imprenditoriale, questa filosofia di vita che mette al centro della propria vita l’aspetto economico. Il miracolo del nord-est non si può capire, se non proprio a partire della religione del denaro, preso a modello e misura di tutto, la ricchezza come un numero che permette di stabilire gerarchie univoche dall’alto dell’autorità proprio dei numeri. Per questi imprenditori, la loro azienda non è soltanto il luogo del lavoro, dell’attività più o meno piacevole che ti permette il sostentamento, ma assume piuttosto il significato di una chiesa, del tempio dove si celebra il rito del successo. Se il faro della propria vita diventa il successo economico ottenuto col proprio duro lavoro e col lavoro altrettanto duro dei propri dipendenti, è chiaro che in caso di fallimento non si decreta soltanto l’insuccesso di un’attività lavorativa, ma l’insuccesso di tutta la propria vita. Da una parte il riconoscimento sociale viene meno, dall’altra si può improvvisamente scoprire di non avere altri interessi di vita, altre motivazioni su cui continuare a scommettere, con cui continuare ad impegnarsi.

Altro che positivo spirito imprenditoriale, qui si evidenzia un vuoto di valori, una vita ad un’unica dimensione: tolta questa, nulla rimane più, e il suicidio diviene una terribile alternativa possibile. Proprio questo intensificarsi dei suicidi evidenzia la crisi di civiltà in cui siamo finiti. Chissà se sarà possibile avere un mondo in cui l’aspetto economico possa trovare un giusto ridimensionamento all’interno di una vita più piena, più multiforme, in cui si possano riscoprire valori gratuiti, piaceri che non richiedono un controvalore in denaro.

9 commenti:

  1. Concordo con te pienamente! Il suicidio dei piccoli imprenditori del nord-est ritengo non sia dovuto alla vergogna di non poter più pagare lo stipendio ai propri dipendenti ma alla non accettazione di diver tornare a vivere con le pezze nel sedere, come vivevano le popolazioni di quelle zone prima del boom economico. Non dimentichiamoci che il nord-est era una delle zone più povere d'Italia, da lì provenivano intere famiglie che poi si stanziavano nelle aeree bonificate dal fascismo o emigravano in Argentina. Riuscire ad arricchirsi e ad acquisire un ruolo nella società e poi vedere andare tutto in fumo per loro è insopportabile.

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  2. Non lo so, non me la sento di generalizzare ed astrarre...userei per questi imprenditori le parole di Gaber ne "il dilemma": "io ci vorrei vedere più chiaro, rivisitare il loro percorso, le coraggiose battaglie che avevano vinto o perso"...
    Ogni storia umana è irripetibile, ed andrebbe studiata a fondo per capirla, anche se il finale sembra renderla simile ad un'altra.

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  3. L'interpretazione data dall'articolista che citi in effetti è proprio avvilente

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  4. Condivido in pieno il commento di Luposelvatico e vado oltre. Mi spiace si continui a perpetuare la dicotomia tra "datore di lavoro" e "lavoratore dipendente" (nelle micro realtà imprenditoriali), quando sarebbe più corretto - a mio avviso, ovviamente - definirli comunque "lavoratori": perché il suicidio di un piccolo imprenditore deve essere imputato "alla non accettazione di diver tornare a vivere con le pezze nel sedere" ed a una "mancanza di valori" alternativi (motivo per il quale non abbiamo un moto di pietas per chi si è tolto la vita), mentre quello di un dipendente (magari della stessa azienda) solo ad una profonda e dunque (questa sì) comprensibile disperazione?

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  5. Da veneta, e penso consapevole della realtà in cui vivo, suggerirei anch'io di non generalizzare.
    Come Luposelvatico, credo bisognerebbe capire il vissuto di questi imprenditori, uomini, che hanno deciso di mettere fine alla loro vita. Forse potremmo avere delle sorprese ( in quanto a valori e vita sociale)

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  6. Io qui ci vivo e conosco bene queste storie. Leggere quasi ogni giorno per circa due mesi di 13 suicidi nei nostri giornali locali, è diverso che leggerlo a 'distanza'. La tua analisi non quadra del tutto. Questi sono piccoli imprenditori che hanno iniziati l'attività con pochi dipendeneti che hanno sempre lavorato per loro. C'è quindi un reale dispiacere a mettere sul lastrico famiglie di cui sono più che datori di lavoro anche amici/soci. La retorica del nord-est solo legata ai soldi e al lavoro è ormai obsoleta, ti posso assicurare che chi può si diverte alla grande. La crisi è seria.
    La faccenda poi dei veneti poveri ecc ecc, detta poi da regioni che non solo erano nelle stesse condizioni di povertà e arretratezza, ma che nemmeno ne sono uscite mai nemmeno ora, fa anche un pò ridere noi veneti, che non siamo tutti leghisti e ignoranti : se c'è stato un gran progresso economico dagli anni 70 è anche perchè c'è stata una evoluzione culturale maggiore che in altre regioni, una specializzazione che altre regioni non hanno avuto sono ancora lì ad aspettarsi tutto dallo stato. Ecchecavolo, diciamolo. Con tutto che a me del localismo non frega niente perchè ho agganci in ogni regione .
    Ciao Vì

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  7. Credo che un chiarimento si imponga.
    E' evidente anche per me che ogni caso va valutato singolarmente, senza esprimere giudizi affrettati. Aggiungerei però che non era questo il mio interesse, lungi da me giudicare le singole persone. A me interessava soffermarmi sull'elemento sociale. Sono un dato statisticamente significativo i 13 suicidi di imprenditori in due mesi? Mi pare senza dubbio di sì. Ne deducevo che, aldilà degli aspetti specifici di ciascuna di queste tragedie, ci sia anche, almeno per una certa frazione, un'influenza ambientale. Credo che esista in Veneto, ma non solo in Veneto certo, una sopravvalutazione del denaro che può diventare una misura di riconoscimento sociale. Se gli altri ti giudicano prevalentemente su un piano economico, il singolo può non avere la forza per resistere a tale forma di condizionamento. D'altra parte, dovremmo essere almeno d'accordo sul fatto che suicidarsi per un fallimento sia in ogni caso un atto di disperazione che sfiora la follia. La disperazione credo dovrebbe venire fuori da altri tipi di eventi, quali la perdita delle persone a cui siamo più legati. Quindi, io non volevo ascrivere al singolo imprenditore certi tipi di mentalità, quanto alla società in cui egli si trova, giudicata nel suo complesso, e ovviamente a livello puramente statistico. Anzi, l'interesse sta tutto in questo, non nella singola persona che meriterebbe di certo una disamina specifica e riferita solo alla sua persona.
    A BC vorrei dire che guardo egualmente ai suicidi di chi perde il posto di lavoro, nel senso che capisco, ma non mi sento di giustificare un atto così estremo derivante soltanto da aspetti economici.

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  8. E' dovuto alla visone idillica che si ha in Italia della piccola impresa. Nonostante sia chiaro che la diffusione delle piccole imprese ci causa arretratezza, lavoro sommerso e salari bassi si continua a esaltarlo come simbolo del "made in Italy". C'è una sorta di cecità in questo. Il piccolo imprenditore è esaltato come una specie di eroe, non si vede quanto invece ci stia portando alla rovina.

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  9. Io sono daccordo con l'analisi di Vincenzo, perchè se si muore non è perpaura di non onorare i debiti ma perchè si è disperati e se si è disperati vuol dire che si è senza speranze e se la speranza di sopravvivenzaè suparata dal disonore di una azienda che non sa come pagare se non perdendo tutto allora , beh, c'è un vuoto nei valori come famiglia, amore per chi si lascia, affetto per chi ha condiviso la vita e adesso deve lottare con decisioni che il suicida non prende e mancanza assoluta di presa di coscienza e responsabilità.
    Mi sembra un arrendersi a certe regole che fino ad allora sono state utili.
    Un abbraccio

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