sabato 31 luglio 2010

PERCHE' MAI STIAMO ANCORA IN AFGHANISTAN?

Mi chiedo cosa mai deve accadere, quale situazione potrebbe determinare il ritiro di USA e suoi alleati dall’Afghanistan. In questi ultimi giorni, si sono verificati una serie di eventi che avrebbero dovuto causare una vera e propria ribellione dell’opinione pubblica verso questa guerra. Mi riferisco in particolare alla pubblicizzazione di documenti prodotti da chi opera sul teatro di guerra e rivolti ai comandi militari, che forse come dicono alcuni non aggiungono nulla di così nuovo rispetto a ciò che si sapeva, ma ne costituiscono comunque una conferma ufficiale. Mi riferisco anche all’ennesimo attentato a danno dei nostri militari, per cui si spendono le solite trite espressioni di cordoglio di circostanza, Nel contempo però, il governo si affretta a dichiarare che queste morti non devono influire in alcun modo sulle decisioni del nostro paese riguardo appunto alla partecipazione a questa ormai decennale guerra, che sempre più appare come impossibilitata ad avere uno sbocco positivo. Quante vite devono essere sacrificate perché l’occidente voglia porre fine a questo sterminio che coinvolge sempre più popolazione civile inerme? Mi chiedo se è possibile che governi sedicenti democratici possano tacere sulle reali motivazioni della presenza delle proprie truppe in un paese così distante ed infido. Siamo andati in Afghanistan, tanto per rinfrescarci la memoria, per catturare Bin Laden, con l’intento di compiere una missione fulminea, roba insomma di sei mesi, e siamo impantanati da quasi un decennio senza che nessuno si sia peritato di darci una motivazione alternativa di questo prolungamento delle operazioni militari. Ormai, è evidente che non è rimasta alcuna strategia alternativa a una corruzione generalizzata per convincere i talebani a smettere di combattere. Si potrà mai considerare una vittoria la fine degli attentati ottenuta comprandosi i contendenti? Ed allora, da Obama giù giù fino ai nostri governanti ormai privi di qualsiasi parvenza di autorevolezza, che compito pensano che questa presenza militare debba svolgere in Afghanistan? Sono sempre più convinto che non esiste ormai alcuna giustificazione, neanche in base ad esigenze di strategia militare, che ormai i governi nazionali, non importa quanto sia potente la nazione coinvolta, si siano sottomessi, apparentemente senza capacità di reagire, agli ordini di una cupola affaristico-mafiosa che chiede sempre più soldi, e che quindi ha bisogno di questa guerra assurda per giustificare gli ingentissimi investimenti in armamenti. C’è qualcosa di totalmente immorale in questa guerra forse come mai nella storia dell’umanità si sia mai precedentemente verificato. C’è anche una negazione delle sovranità nazionali, della negazione quindi contemporaneamente del diritto dei popoli di far valere le proprie opinioni. Nel mondo omologante dei mass media internazionali non c’è più spazio perché la capacità individuale di argomentare le proprie tesi e quindi di convincere gli altri produca effetti sulle scelte collettive, essendo ormai in balia di centri di comando potentissimi che non possono tollerare alcuna limitazione della loro determinante influenza.

domenica 25 luglio 2010

RIFLESSIONI SULL'UNIVERSITA'

Sull’Università, si gioca oggi una battaglia feroce, che, direi come al solito, appare sulla grande stampa in termini falsi. La regola d’oro della classe al potere, in senso lato, è quella del silenzio, e pertanto il dibattito deve avvenire in stanze ovattate, senza che sia data al cittadino comune la possibilità di capire cosa davvero si stia agitando nell’Università italiana. La cosa che preoccupa maggiormente è che perfino il numero più cospicuo di persone direttamente impegnate in queste vicende nella veste di oppositori, e cioè ricercatori, precari e studenti, ignori la sostanza reale delle questioni sul tappeto, sia cioè vittima di un formidabile equivoco.

Mi tocca fare una premessa “storica” sui vari provvedimenti che hanno riguardato l’Università, e sul ruolo che vi hanno giocato i sempiterni protagonisti di questo gioco continuo. Difatti, il giochetto consiste nel bombardare di innovazioni legislative il mondo accademico. Il guaio dell’Università sta proprio in questo, ma mi pare un difetto comune alla politica in generale. A partire da una giusta osservazioni di sintomi di malessere e malfunzionamento, si invocano le famose riforme, come se riformare sia un bene in sé. Questa connotazione positiva che in molti è insita in questo termine, sta dentro un’ideologia nuovista, per cui ciò che è nuovo si presume di per sé sia migliore dell’esistente. La verità invece è che, quando il Parlamento si decide ad intervenire sull’Università, lo fa quasi sempre in maniera pessima, e ciò è dovuto al peso che le lobbies interne allo stesso mondo accademico riescono ad esercitare attraverso gli stessi colleghi parlamentari. Ultimamente, direi che si sono aggiunte altre strade più dirette, ed apparentemente più istituzionali. Valga per tutte, l’influenza esercitata dalla CRUI, la conferenza nazionale che include i rettori di tutte le Università italiane. Sembrerebbe un miglioramento, ma purtroppo le cose non stanno così, data la carenza di collegamenti dei rettori con il personale delle università che dirigono. La cosa è stata talmente introiettata dai miei colleghi, che il massimo di rivendicazione sta nel chiedere alla CRUI di farsi portavoce delle istanze della base, anziché, come dovrebbe essere ovvio, contestare la stessa pretesa della CRUI di avere competenze legislative, sostituendosi così al complesso del personale universitario, pretendendo di rappresentarlo, malgrado l’assenza di strumenti che possano certificarlo.

Per tentare di salvaguardare la sintesi, dirò soltanto che soprattutto negli anni novanta, e sotto l’impulso principale del ministro Luigi Berlinguer, si è portato avanti un meccanismo di decentramento progressivo delle competenze nel settore universitario, e che è culminato nella cosiddetta “autonomia universitaria”. L’autonomia universitaria consiste essenzialmente nella pubblicità delle risorse, nella pubblicità dei suoi utenti (gli studenti), e nella delega agli organi di autogoverno degli Atenei, per quanto riguarda invece la destinazione delle risorse, e i collegati interventi nel campo

- della didattica; definizione dei corsi di studio,

- della apertura di sedi decentrate,

- della programmazione degli organici: quali nuovi posti chiamare, per quanto attiene la Facoltà, per quanto attiene il settore scientifico disciplinare, per quanto attiene la figura (ricercatore, associato o ordinario)

- scelta dell’organizzazione dell’Ateneo, anche per quanto riguarda il settore amministrativo

Questa delega agli stessi dipendenti dell’Università di poteri così vasti, è errata per una serie di motivazioni, che qui elenco:

- Lo è innanzitutto da un punto di vista di principio: l’Università è una risorsa pubblica, e i suoi dipendenti non hanno alcuno speciale diritto per arrogarsi poteri di gestione così vasti.

- Le possibili fattispecie di conflitti tra Università e singolo dipendente sono così frequenti, che sarebbe ovvio evitare questi palesi conflitti di interesse. Direi anzi che gli interessi dei dipendenti sono strutturalmente antitetici, almeno per certi aspetti, al datore di lavoro (lo Stato, naturalmente).

- Infine, l’argomento forse più importante è che la sperimentazione sin qui fatta è assolutamente insoddisfacente, cioè la pratica ha dimostrato che i motivi di principio che elencavo prima, hanno dispiegato i loro effetti in pieno. In sostanza, si è consentito il proliferare di insegnamenti improbabili, la moltiplicazione di corsi di studio in base a logiche evidentemente di parte, le chiamate sono avvenute secondo criteri arbitrari. In particolare, è ovvio che i settori che già sono i più affollati di docenti, avranno la forza elettorale per autoperpetuarsi, a danno dei settori in cui c’è carenza di personale, magari a volte a causa della loro innovatività. Allo stesso modo, la legge del 1998, una vera istigazione a delinquere col meccanismo perverso delle ternature, autogestita dagli stessi docenti, ha portato a privilegiare il meccanismo di promozione di carriera verso i colleghi, con cui magari si collabora, o che si spera possano rimanere riconoscenti, rispetto alle nuove assunzioni di ricercatori. Il risultato è di ritrovarci con una distribuzione del personale a piramide rovesciata: quello che dovrebbe essere il vertice, affollato, e quella che dovrebbe essere la base troppo ristretta. Nel frattempo, i meccanismi nepotistici hanno operato più che mai.

Tutto questo, si stenta a crederlo, è avvenuto per la pretesa ideologica di un gruppo di intellettuali, sostanzialmente di area PDS, ora PD, ben radicato anche all’interno degli Atenei, che la competizione sia il meccanismo giusto per raggiungere i migliori risultati di gestione. La pretesa che il mercato, in quanto tale, abbia effetti virtuosi, pur essendo smentito clamorosamente dai fatti, trova un consenso pressoché unanime in un arco politico che oggi rappresenta praticamente l’intero Parlamento. I fatti dimostrano che perché il mercato operi come effetto di selezione efficace, richiede una morale che lo assecondi, la morale calvinista della borghesia che ha creato il moderno capitalismo. Senza questa, il mercato viene aggirato tramite consorterie e cricche di ogni genere, come l’attualità ci consegna, e vale poco sostenere che alla lunga il mercato funziona, perché a questi tempi lunghi non ci si arriva: prima, si ha il degrado progressivo nel migliore dei casi, o la catastrofe nell’ipotesi più pessimistica. Il federalismo fiscale costituisce appunto uno degli effetti di questa cieca e stupida ideologia da cui non riusciamo a liberarci.

Qual è in questo scenario la novità dei nostri giorni? Sicuramente la novità più importante è certamente il taglio dei fondi alle Università: l’Italia, unica nel panorama dei paesi sviluppati, ha deciso di tagliare nei settori che dovrebbero essere i decisivi per mantenere una competitività del sistema paese, istruzione e ricerca: altri, al contrario, hanno investito proprio in questi settori. Ciò non è dovuto a un’esigenza di bilancio, ma costituisce uno dei presupposti per la privatizzazione dell’Università italiana. Dopo aver regalato pezzi importanti del patrimonio nazionale alla modesta classe capitalistica italiana (parlo ad esempio, di telecomunicazioni ed autostrade), adesso tocca agli Atenei e al loro straordinario patrimonio di competenze ma anche di strutture. Lo scontro in atto, insomma, è tutto interno a un vertice a cavallo tra mondo accademico, politico e finanziario. La finanza preme per la privatizzazione, mentre negli altri due settori si va svolgendo uno scontro che coinvolge in maniera strumentale direi, come pedine sullo scacchiere complessivo, tanti lavoratori dell’Università, convinti di sapere per cosa stiano lottando. Le cose però sembrano abbastanza differenti, come dovrebbe essere palese quando si consideri che un vero dibattito sull’Università e sugli esiti possibili di un processo realmente riformatore non è mai partito. Sull’Università, apparentemente, si discute di una cosa alla volta, prima della sorte dei ricercatori, poi del blocco delle tredicesime e della carriera, infine del pensionamento a 65 anni. Volta per volta, gli operatori dell’Università corrono dietro all’ultimo dei problemi che la stampa solleva periodicamente con grandi polveroni.

Di fronte a questa incapacità dei docenti universitari di farsi carico della complessità dei problemi che si affacciano sul mondo in cui essi operano, due gruppi politico-accademici opposti si fronteggiano. L’uno, di area genericamente della maggioranza parlamentare, punta decisamente alla privatizzazione, avendo come leader lo stesso ministro dell’economia. Questo gruppo comprende l’attuale maggioranza della CRUI, che, dietro pallide critiche alle ipotesi ministeriali, di fatto lo asseconda, almeno sul lato decisivo della contrazione delle risorse economiche. L’altro gruppo, genericamente nell’area dell’opposizione parlamentare, vuole proseguire l’esperienza dell’autonomia universitaria, mantenendo gli Atenei nella sfera pubblica. Nello stesso tempo, tenta di operare una difficile ed astuta operazione di concentrazione del potere, esautorando anche ufficialmente gli organi collegiali dalla maggior parte delle proprie competenze e poteri. In questa ipotesi, si continua così a mantenere la pubblicità delle risorse disponibili, mentre si continua a mantenere una sorta di autogestione, ma saldamente affidata a poche mani. Per un certo potere accademico, questa formula sarebbe la migliore: affidare a un gruppo di docenti sedicenti affidabili ed illuminati, in sostanza a sé stessi, il potere di gestione di risorse pubbliche. Peccato che, come direi nel caso illuminante di D’Alema, un grande politico che non ne ha imbroccato mai una che sia una giusta, anche questi illustri colleghi hanno mostrato insistentemente, pervicacemente direi, di non essere in grado di prevedere gli effetti nefasti della politica che essi di fatto hanno proposto ed imposto. Oggi tornano alla carica, autoemendandosi e riproponendosi così ancora come i deus ex-machina nella situazione data.

Riassumendo, potremmo dire che oggi si fronteggiano due differenti ipotesi. L’una consiste semplicemente in un processo di crescente privatizzazione delle università, che passa attraverso una loro riclassificazione, cioè di fatto proponendo una distinzione in classi di università, da quelle che dovrebbero puntare all’eccellenza, a quelle che dovrebbero divenire puramente delle strutture didattiche, una specie di superliceo.

L’ipotesi alternativa vuole dare una svolta autoritaria alla gestione degli atenei, attraverso una ricalibrazione dei ruoli dei docenti, in sostanza imponendo una nuova scala gerarchica al loro interno attraverso meccanismi ancora non esplicitati.

Io dico che entrambi questi progetti vanno sconfitti, perché tendono a qualificare l’autonomia degli atenei come costituzione di gruppi di potere, privati l’una, interni al mondo accademico l’altra, senza che questo possa in qualche misura garantire una loro maggiore efficienza. Se è vero che siamo in presenza di classi dirigenti mediocri, che preferiscono essere classe dominante, piuttosto che presentarsi come forze che possano garantire l’interesse generale, se l’intera Confindustria ha sposato la prassi industriale inaugurata da Marchionne, se d’altra parte è altrettanto vero che negli Atenei sono andate avanti logiche negative che ne hanno aggravato la situazione, credere che la soluzione dei problemi stia nell’affidare agli uni o agli altri la gestione delle università, sarebbe come credere di salvare un agnellino consegnandolo a un branco di lupi affamati.

Nella situazione data, di un governo chiaramente disinteressato alla rinascita degli atenei, perché pronto a consegnarli a privati più o meno amici o collusi, di un gruppo di docenti e rettori che si ripropone per ricoprire i ruoli dirigenti, si impone la costituzione di un’organizzazione di docenti che si sappia e voglia dare un ruolo di classe dirigente, che cioè difenda il ruolo fondamentale che l’università svolge nelle nostre società, che ponga come proprio unico criterio di giudizio l’interesse generale. La breve esperienza vissuta all’interno delle assemblee dei docenti nel mio ateneo, mi mostra invece una carenza, da parte proprio delle fasce più deboli, precari, ricercatori e studenti, a volere svolgere il ruolo egemonico che pure competerebbe loro, sempre indaffarati a sostenere in sostanziale passività l’iniziativa dei soliti noti, ancora una volta alla testa delle lotte. Ciò avviene perché un vero dibattito sull’università non si è mai avviato, perché questa specie di movimento si è sempre mosso su parole d’ordine improvvisate e parziali, senza porsi esplicitamente il problema non di fronteggiare questa o quella misura governativa, ma piuttosto di riprogettare l’intera università.

Dovremmo insomma ammettere che per motivi direi strutturali, l’autonomia negli atenei non può funzionare, e che bisogna ridare centralità alle decisioni, definendo dei criteri rigidi di ripartizione delle risorse. In una Università centralizzata, ci sarebbe spazio per i docenti democratici per svolgere il loro ruolo di controllo, di controproposta, in cui insomma finisca questa oscena commistione tra mondo accademico e ambienti ministeriali. Io pretendo cioè una capacità propositiva da parte del governo, a cui io possa obiettare, proporre alternative, giocare il ruolo che mi spetta come dipendente, di interlocutore potenzialmente ostile: da questa dialettica, verrebbero fuori risultati sicuramente più chiari e trasparenti, che non oggi, in cui quando lotto, non so se lo faccio contro o accanto un mio illustra collega che al ministero fa da consulente al ministro di turno.

giovedì 22 luglio 2010

BLOGGERS INDIGNATI

Oggi parlerò dei bloggers dell’indignazione. Nella vasta tipologia della blogsfera, non v’è dubbio che ci siano dei siti specificamente specializzati in post grondanti indignazione. Apparentemente, l’indignazione paga: si tratta di siti abbastanza frequentati, e molti bloggers non si perdono l’occasione di commentare, anche se quasi sempre si tratta di una breve frase che conferma l’opinione dell’ospitante. Naturalmente, mi rendo conto che la situazione politica aiuta, aiuta tanto. Indignato lo sono tanto anch’io, ma quando mi metto a scrivere tento in qualche misura di censurarmi, di liberare il testo con cui vorrei fornire una certa chiave di lettura dell’argomento che tratto, dall’influenza del mio stato d’animo. Questo sforzo lo compio perché tento di fornire un servizio ai miei pochi lettori, un servizio che consiste nel mettere in comune qualche riflessione che ho sviluppato. Se questo è il servizio che tento di fornire, allora la lucidità mentale è un obbligo.

Ebbene, non v’è dubbio che anche nel mondo dei blog c’è una componente fondamentale di autosoddisfazione, e potere sfogare rabbia e indignazione accumulata anche soltanto leggendo i quotidiani corrisponde per alcuni a un vero e proprio piacere, a una sorta, soprattutto in seguito ai segni di solidarietà e consenso nei commenti ricevuti, di rito di liberazione. Come è ovvio, una volta ricevuta questa solidarietà, prontamente la si restituisce e così si formano dei veri e propri clubs dell’indignazione. Sia chiaro, io non trovo nulla di male in tutto ciò, ma mi piace osservare i comportamenti collettivi in un ambito non tradizionale come quello costituito dalla blogsfera. Probabilmente, tornerò ancora sui tipi di atteggiamento che ho osservato, sempre che non susciti qualche risentimento di troppo.

domenica 18 luglio 2010

IL GOVERNO DI TRANSIZIONE DI TREMONTI

Siamo alle solite: con l’articolo di oggi su “La Repubblica”, Eugenio Scalfari lancia in maniera esplicita la candidatura di Tremonti a prossimo Presidente del Consiglio. Non bastavano le dichiarazioni di D’Alema,e Bersani, ora anche uno degli azionisti di maggioranza del PD da’ la linea: esiste un’emergenza legalità nel nostro paese, e questa questione diventa così prioritaria. Bisogna quindi andare a un governo di transizione che abbia degli scopi precisi e ben delimitati: fare una legge elettorale uninominale, e occuparsi della grave crisi economica in cui siamo piombati da due anni a questa parte.

Mentre sono totalmente d’accordo sul sistema uninominale, la questione economica appare in verità molto più complessa. Scalfari si spinge a ipotizzare alcuni provvedimenti economici, del tutto però in opposizione a quelli portati avanti dal governo in carica. Poiché non credo che si possa dubitare che è stato Tremonti in persona a costruire la politica economica dell’attuale governo, diventa incomprensibile potere anche solo ipotizzare che egli possa farne una differente.

La proposta del governo di chi ci sta ci sta potrebbe forse andare solo allo scopo della modifica dell’attuale vergognoso sistema delle nomine dei parlamentari. Poiché sono convinto che ormai Tremonti rappresenti la longa manus in Italia di poteri finanziari internazionali innominabili, penso che bisognerebbe liberarsi al più presto di lui, toglierli quei poteri enormi che ha esercitato in questi due anni coi risultati che abbiamo davanti ai nostri occhi.

Il problema più grosso che però vedo è la sua realizzabilità. Per togliere di mezzo Berlusconi e la Lega che sembra, almeno ufficialmente, ancora sostenerlo, bisogna compattare tutto ciò che sta fuori da Lega e PDL, e inoltre spaccare lo stesso PDL. Così, Tremonti dovrebbe rompere non solo con Berlusconi, che, visto lo stato pessimo dei loro rapporti, non sembra un’impresa impossibile, ma anche con la Lega, quella cioè che finora gli ha garantito l’enorme potere che egli ha esercitato. Fini dovrebbe sostenere questo governo, e quindi anche un suo palese avversario come Tremonti, sanzionando così la sua subalternità. Dovrebbe inoltre sostenere, assieme, udite udite, a Casini e Rutelli un sistema elettorale uninominale. Insomma, tutti i politici esterni al PD dovrebbero decidere di suicidarsi, all’esclusivo fine di assecondare il PD, e la sua dannata fifa verso l’ipotesi di nuove elezioni.

La verità è che la politica italiana a seguito di sedici anni di berlusconismo, è ormai ridotta ad un ammasso di macerie, dove ognuno, e non intendo ogni partito, ma ogni singolo politicante, difende ormai solo sé stesso. Tutti ci auguriamo, ed io non faccio eccezione, che Berlusconi esca dallo scenario politico, ma ciò che rimarrà sarà davvero un disastro, dove soprattutto manca un’alternativa reale dopo sedici anni di dalemismo, una sorta di sistema di pensiero in qualche misura simmetrico al berlusconismo.

La caratteristica precipua che li accomuna è la negazione sistematica della verità, con la menzogna nel caso del berlusconismo, con il silenzio nel caso del dalemismo. Sistemi di pensiero e di potere che vanno ben oltre l’ambito strettamente politico, coinvolgendo magistrati, industriali, e giornalisti, quegli stessi che leggiamo giorno dopo giorno, sapendo quanta capacità critica sia necessaria per evitare di essere presi in giro.

venerdì 16 luglio 2010

IL SENATO VOTA LA FIDUCIA PERSONALE A TREMONTI

Così, ieri il Senato ha approvato la manovra economica con voto di fiducia. La cosa che appare strana o perfino grottesca, è che il governo pone la fiducia per supportare il provvedimento da votare, ma le cose sembrano stare in maniera differente. Sembrerebbe quasi che porre la fiducia sia questa volta servito a supportare il governo usando il decreto legge come soggetto trainante.

La cosa che politicamente appare più rilevante è il ruolo che Tremonti è riuscito a costruirsi. Non v’è dubbio che oggi tutti lo temano, e che alal fine debbano venire a pati con lui. Clamorosa la sconfitta di Berlusconi che dichiarò che avrebbe riscritto il decreto, ma che alla fine se l’è sorbito nella sua interezza, senza cambiarne neanche la punteggiatura. Anche la Lega, che pure gli è stata vicina, ne deve in questa fase subire l’influenza pesante, tant’è che sembra perfino rassegnata sull’obiettivo del federalismo fiscale. Ma come ha fatto Tremonti ad acquisire tanto potere, può il suo ruolo di tesoriere spiegare tutto ciò?

La mia opinione, che avevo già espresso altrove, è che Tremonti è riuscito ad entrare nei circoli finanziari internazionali “giusti”, cioè lì dove davvero risiede il potere economico a livello planetario. Il suo potere non sta quindi, come quello di berlusconi, sul consenso elettorale, sta tutto nel fatto che egli si può permettere di imporre il suo punto di vista all’intero governo, e in definitiva a tutta la nazione, in nome di questo potere superiore e ricattatorio: se l’Italia non si adegua, sarà attaccata sui mercati finanziari, con effetti pesantissimi (la Grecia docet).

Credo che complessivamente il ruolo di queste grandi finanziarie e della cupola che sono riuscite a costruire sia gravemente sottovalutato dai mass media. Perfino un economista che stimo come Mario Deaglio, scriveva fino a ieri su “La Stampa” che Tremonti ha subito il diktat dell’Unione Europea, e in definitiva della Germania. Egli si chiedeva perché la UE avesse deciso di tenere una politica di rigore ben più stringente degli USA. Forse dovremmo riflettere sul fatto che questo maggiore rigore europeo è una costante degli ultimi decenni, e che esso è l’espressione manifesta della supremazia USA. La Germania è cresciuta enormemente dalle macerie della guerra, ma l’ha costantemente fatto accettando un ruolo subalterno. Oggi, le cose appaiono cambiate soprattutto per gli USA. Mentre nel recente passato era il governo USA a dettare gli ordini, ora, proprio con la presidenza Obama, viene fuori questo potere extra-istituzionale a cui anche Obama deve piegarsi, e che ha deciso di rilanciare l’economia USA a scapito di quella dei suoi alleati. E gli alleati si sono piegati, e fanno a gara tra loro per dimostrare di essere più ubbidienti. Non c’è più alcun sussulto di orgoglio nazionale, di rivendicazione della propria sovranità, e per essere certi che non ci sia chi va fuori riga, la politica è stata annullata, e ridotta ad ancella dell’economia. L’ultima clamorosa conferma c’è stata offerta dal recente G8/G20, che ha platealmente dichiarato la propria impotenza e subalternità.

Prevedere oggi gli sviluppi in politica interna a seguito degli ultimi avvenimenti, è in realtà impossibile. Tutti temono le elezioni anticipate, salvo forse Berlusconi, che però sa che ha bisogno del permesso della lega e di quello di Napolitano. Complessivamente, questo è un momento in cui il ruolo che il capo dello stato può svolgere è particolarmente influente. Ancora oggi, un quotidiano fa risaltare anche come Draghi potrebbe svolgere un ruolo anti-Tremonti, ma mi pare evidente che Draghi non farebbe una politica economica, che poi oggi è la Politica con la lettera maiuscola, differente da Tremonti: si tratterebbe solo di scegliere la faccia, il che non mi appassiona più di tanto. In questa luce, l’assenza di Tremonti, e la presenza invece di Draghi alla famosa cena, appare significativa: potrebbe Berlusconi puntare su un cavallo alternativo, anch’egli credibile per la comunità, od organizzazione criminale, finanziaria internazionale, per liberarsi di un personaggio ormai diventato troppo ingombrante, potrebbe puntare su un ampio rimpasto di governo? Fossi in Draghi, mi pentirei amaramente di essere andato a questa cena, e non avrei più di simili frequentazioni. Con molta probabilità, quello è ormai diventato il cavallo perdente, e l’unico problema è di compattare tra loro tutti i numerosi nemici che berlusconi si è fatto in questi ultimi sedici anni. Le ultime dichiarazioni di D’Alema non rappresentano alcuna proposta politica reale, costituiscono solo un segnale: andate avanti a fare fuori Berlusconi, che noi saremo della partita. D’Alema continua così la sua fallimentare strategia permanentemente subalterna al quadro politico esistente, incapace di alcun balzo immaginativo, di concepire la politica non come equilibrismo tra le forze in campo, ma come capacità di proposta di iniziative concrete e innovative per la risoluzione dei problemi del paese, e in Italia di problemi ne abbiamo a iosa!

lunedì 12 luglio 2010

ANCORA SU POMIGLIANO

Vorrei sottoporvi alcune mie riflessioni a partire dai noti fatti di Pomigliano.

Un mio interlocutore sosteneva la tesi che il fatto stesso di avere una grande azienda nel territorio, con l’indotto effetto di un aumento dell’occupazione, avrebbe certamente danneggiato la camorra. E’ una tesi nota proprio all’interno della sinistra: il valore di promozione del lavoro. Naturalmente, in linea di principio, io concordo con questa tesi. Eppure, siamo poi certi che in questo concreto e specifico caso le cose stiano così, che avere qualche sparuto disoccupato in meno costituisca per la criminalità organizzata un danno, un pericolo per il suo potere indiscusso nel contesto locale? Le cose sono un po’ più complesso, come scrivevo:

“Contesto nella maniera più assoluta che la FIAT sia un'alternativa alla camorra, e considero crederlo un tragico errore. Marchionne detta le condizioni della sopravvivenza agli operai, allo stesso, identico modo in cui lo fa la camorra. E se devi voltarti da un'altra parte, e pazienza, ci sarà poi un momento in cui lotterai la camorra: per il momento, ti tocca accettare di subire un’estorsione. Si tratta in questo caso di affermare da parte del padrone che tu non sei nessuno, che se vuoi mangiare, devi produrre bene velocemente e soprattutto in silenzio. certo che ci potrà un giorno essere un riscatto, ma accettare oggi di essere usato come una merce, lascerà tracce indelebili sul territorio, che diventerà sempre più camorristico, perchè alla camorra questo modo di fare della FIAT sta benissimo, è esattamente il suo stesso modo. Del resto, l’esempio storico non sembra indicare che gli insediamenti industriali abbiano cambiato la situazione prima di tutto culturale che c'è sul territorio. Il gruppo di potere è sempre lo stesso, a volte palesemente criminale, a volte in doppio petto, ma diciamolo, come potrebbe convivere la FIAT in un territorio camorristico se non per un accordo non scritto esistente? Gli industriali investono per far soldi, altro che lotta alla criminalità organizzata, ma di che mondo parliamo, di uno di fantasia?

Le teorie sugli effetti benefici delle attività produttive contro la criminalità organizzata, le conosciamo tutti. Peccato che si tratta di teorie senza riscontri sperimentali, e quindi infondate. Io parlo di fatti e non di teorie, tutto qui. Schematicamente, per togliere manovalanza alla criminalità, ci vorrebbe la piena occupazione. Quando impieghi una persona su dieci, ce ne sono ancora nove disponibili. Inoltre, le attività produttive hanno due effetti, uno di creare ricchezza e l'altra di creare lavoratori. Questo secondo è l'effetto benefico, ma richiede il rispetto della dignità del dipendente da parte del datore di lavoro, ma quando questi, in questo caso marchionne parla come un mafioso, ovvero come il marchese del grillo (io sono io e tu non sei nessuno), allora questo effetto di sentirsi una persona socialmente utile e portatore di diritti, non c'è più. Rimane la produzione della ricchezza, che ovviamente viene vista molto bene dalla criminalità organizzata: significa più spaccio di cocaina, e rate estorsive più alte. Purtroppo, un certo marxismo rinforza l'opinione del tutto erronea che alla fine l'aspetto strutturale è quello decisivo. Io rimango dell'opinione che quel che più conta è ciò che abbiamo nel cervello, e quindi penso che per combattere la criminalità organizzata non è questione di creare un clima adatto, ma piuttosto lottarla nella mentalità di ogni giorno, e quando occorre anche militarmente.

domenica 11 luglio 2010

LIBERALISMO E COMUNITARISMO

Il mio dialogo con Paola continua su questo nuovo post. Paola ha postato un commento in cui cita un passo di un articolo tratto dal “Sole-24 ore”. Questo breve testo mi da’ l’opportunità di chiarire il mio punto di vista così critico rispetto alla mentalità dominante ai nostri giorni. Per vostra comodità, lo riporto qui di seguito:

«Non è la fede in una verità universale che ha provocato i massacri del Novecento, non è la volontà di rottura con l'ordine esistente né la rivendicazione del diritto alla felicità che li ha provocati, ma al contrario l'irruzione dell'irrazionale, la distruzione dell'idea dell'umanità, una fede assoluta nella capacità della potenza politica, e quindi dello Stato, a plasmare la società».

La mia opinione è che questo giornalista risenta anche lui del clima postbellico. Dopo le tragedie immani della prima parte del novecento, tanti, e perfino una celebre filosofa come la arendt, rimasero letteralmente scioccati, e ancora risentiamo di questo clima.

E' invece ora di svegliarci, di smettere di essere terrorizzati, di riprendere la lucidità.

Se finalmente lo facessimo, allora scopriremmo che oggi ci confrontiamo con un altro tipo di problemi perfino più gravi di quelli che il novecento c'ha lasciato, quello prima di tutti della stessa sopravvivenza dell'umanità. A volte, l'esperienza storica ci aiuta a capire il presente, ma tante altre volte ci oscura la vista, ci impedisce di comprendere quanto le nuove sfide possano presentarsi totalmente differenti da quanto abbiamo già vissuto.

Io personalmente mi sono proprio stufato di coloro che scoprono l'acqua calda, che cioè le teorie comunitariste possano rivelarsi tragiche, e sono del tutto ciechi rispetto alla violenza, alla devastazione che il liberalismo, soprattutto in versione liberista, ha già creato. Se guardassimo a ciò che ci sta davanti invece di avere sempre il torcicollo che ci costringe a guardare alle nostre spalle, non potremmo ignorare che le guerre non sono mai cessate (Corea, Vietnam, Irlanda, Balcani, Iraq, Afghanistan, gli innumerevoli conflitti in Africa, e ne sto citando solo alcuni esempi), che in definitiva questa società del mercato non è certo meno violenta, ed anzi molto più distruttiva, soprattutto verso l’ambiente, di qualsiasi civiltà prima della nostra. Ci balocchiamo a scongiurare il passato, e nel frattempo permettiamo ai potenti della terra di fare ciò che vogliono, in base a criteri in fondo non solo errati, ma perfino assurdi, del nostro pianeta. Il mercato è la vera tragedia del nostro tempo, e le differenze tra un liberalismo moderato (alla Rowls, per intendersi), e il liberismo più sfrenato sono minime. Le teorie liberali sono facili da elaborare, proprio perché danno della società un’immagine estremamente semplificata, quindi in definitiva falsa. Semplificando e semplificando, hanno poi agio di costruire teorie molto lineari, facili anche da esporre, e che facilmente fanno adepti.

Le teorie comunitariste sono intrinsecamente molto più complesse, e difatti non esiste un’elaborazione teorica di tali teorie che possa competere con la completezza delle teorie liberali: sfido io, queste ultime ignorano la realtà e si occupano di un modello di società del tutto fantasioso!

La cosa che però mi pare più interessante è che, al contrario del liberalismo che alla fine è sempre lo stesso, con differenze abbastanza sfumate tra i differenti autori, le teorie comunitariste non si somigliano, o almeno possono essere addirittura opposte tra loro. Nel comunitarismo, devi considerare le interazioni interpersonali, ignorate invece dai liberali, e così devi avere anche una teoria antropologica, cioè una tesi sulla natura dell’uomo. Cambiando il modello di uomo, ti ritrovi così in una teoria assolutamente differente da un’altra.

Così, rifiutare in blocco il comunitarismo per paura del nazismo è una cosa senza senso alcuno. Bisogna, guarda un po’, esaminare la specifica teoria, invece di “fare di tutta l’erba un fascio”, come fatto dal nostro pigro giornalista, a cui basta ricordare il nazismo per sentenziare.

venerdì 9 luglio 2010

AVANGUARDIA, SINONIMO DI FASCISMO

Prendo spunto dal post precedente, due soli commenti, ed uno clamorosamente contrario. Paola sostiene che se c’è un’avanguardia consapevole, quella che io vorrei contribuire a costituire, allora si tratta di fascismo. Sì, Paola scrive proprio così: fascismo. Paola è fatta così, non misura le parole, ma francamente non so se preferire i silenzi di coloro che pure hanno letto il post e non si sentono di condividerne l’impostazione. La verità è che l’omologazione ideologica ormai risparmia solo fasce di persone del tutto marginali. Il paradosso è che questa stessa constatazione non fa che confermare le mie tesi, e che cioè è vano pensare di uscire dalla situazione di profonda crisi, questa credo evidente a tanti, senza mettere in dubbio le tesi fondamentali dell’ideologia dominante. E quando parlo di crisi, non mi riferisco soltanto a quella del sistema Italia dopo sedici anni di berlusconismo, ma alla crisi ormai manifesta in tutto il mondo, di cui quella economico-finanziaria è solo l’aspetto più evidente, e che riguarda in particolare quei paesi il cui sistema politico più assomiglia al nostro. Più questa crisi diventa manifesta, più si va chiedendo una strategia, un nuovo modo di vedere la realtà (una nuova sinistra, si dice), e più ci si aggrappa agli elementi fondamentali della propria ideologia, che però, e questo sfugge a tanti, è la stessa che c’ha portato a questa situazione. Insomma, potrei dire che quegli stessi che affermano di cercare nuove vie, in realtà le rifiutano completamente, rifugiandosi nelle certezze di oggi, che sono poi il veleno del domani. E’ un circolo vizioso, che richiederebbe un’apertura mentale molto ampia, una capacità ed una voglia di mettersi in discussione, merce rara, per non dire rarissima in questi nostri giorni.

L’equivoco centrale della nostra epoca sta nel termine libertà, e nel connesso concetto di libertà di espressione. Eppure a tanti è evidente che Berlusconi usi in maniera strumentale il termine libertà, che ha voluto perfino nella denominazione del partito che ha fondato.

Se questo è chiaro, non dovrebbe essere altresì chiaro che c’è un problema enorme su questo termine, sui suoi molteplici significati e quindi anche sul suo uso? Questa potrebbe essere una buona base di partenza: come fa Berlusconi a usare anche lui, perfino lui, la parola “libertà”? Dove sta l’inganno? Ma, in verità siamo miseramente aggrappati a questa apparenza della possibilità di scelta, così che alla fine preferiamo tenerci berlusconi pur di non mettere in crisi ciò che riteniamo a torto il bene più prezioso: spetterà a me scegliere se la maglietta che vado a comprare debba essere rossa o azzurra!

Allo stesso modo, la libertà di espressione diventa giorno dopo giorno una espressione sempre più vuota. Fare un palinsesto televisivo, redarre l’edizione quotidiana di un giornale non costituiscono inevitabilmente una forma di censura verso tutti quei programmi ed articoli che vengono esclusi? Ed allora non dovrebbe essere ovvio che il problema sta a monte, sta nello stabilire chi decide cosa? Che quindi non ha senso attribuire questo potere, che poi nelle società contemporanee è il massimo dei poteri, il potere di decidere quali siano le informazioni che devono passare nella società, a chi ha i soldi per permetterselo?

Nello sforzo di garantire quei principi fissati da nostri progenitori secoli fa, ormai diventati sacri, quei principi che sono riusciti a farci superare pregiudizi storici di enorme portata, ci stiamo impiccando al chiodo del loro mantenimento formale, in condizioni storiche enormemente cambiate, e che determineranno nel medio periodo, cioè nel volgere di pochi decenni catastrofi ambientali di tale portata da compromettere la stessa vivibilità del pianeta per l’umanità. Si dice che i dinosauri siano scomparsi per eventi catastrofici casuali, perché di origine extra-planetaria: non è poi così improbabile che l’umanità scompaia per altre catastrofi ambientali, ma questa volta dipendenti da noi stessi, dimostrando così la nostra sostanziale stupidità.

mercoledì 7 luglio 2010

DECRESCITA: UN CHIARIMENTO IN SENSO PROPOSITIVO

Il post precedente potrebbe apparire monco, perché sembrerebbe criticare un’ipotesi che altri hanno prospettato senza proporre alcunché, senza che un’alternativa venga avanzata.

La mia proposta, visto che questo tra l’altro mi pare un punto fondamentale, è che l’obiettivo della conquista del potere debba essere il primo dei punti costitutivi di qualsiasi gruppo voglia fare politica, ed attraverso questa, cambiare il mondo.

Se il peggioramento costante della qualità della vita è un fatto evidente, allora non possiamo osservare ciò che accade come fossimo degli spettatori indifferenti, quasi fossimo in una sala cinematografica, e neanche vivere tutto come una catastrofe naturale a cui sarebbe vano opporsi. Dobbiamo piuttosto alla fine convenire che le idee prevalenti in questa società sono errate, che la gente è da questo punto di vista sbagliata, e che sarebbe un suicidio assecondare lo sviluppo delle idee e degli eventi che accadono.

Ciò richiede un profondo ripensamento del nostro modo di pensare, che sia il grado di definire non solo le cose che non vanno nell’oggi, ma anche di risalire a tutto il processo che da determinate cause ha portato a determinati effetti.

Il libro che ho scritto costituisce appunto un tentativo di fornire un modello possibile di ricostruzione di tale processo, giungendo alla conclusione che sia indispensabile una rivoluzione culturale. Ammettendo che questa ipotesi sia corretta, perché dilungarsi su queste questioni qui vorrebbe dire riscrivere il libro, allora questo soggetto non potrà basarsi su una struttura leggera, perché essa verrebbe presto sopraffatta dalla mentalità e perfino dalla violenza di chi domina.

Se ciò che occorre è elaborare e rendere egemone una nuova cultura, allora altro che struttura leggera, sarà indispensabile considerare il momento organizzativo come prioritario. Ciò a sua volta richiederà una struttura gerarchica ben definita, in cui le persone che hanno le idee più chiare coincidano con quelle che assumeranno responsabilità maggiori. Naturalmente, i componenti , gli adepti di tale organi9zzazione non si chiuderanno certo tra loro per discussioni fini a sé stesse, ma al contrario dovranno tentare di essere presenti quanto più possibile lì dove esistono entità collettive che manifestino un minimo di affinità alle tesi che questo soggetto porta avanti. Quindi, io qui capovolgo l’ipotesi che avevo citato nel precedente post, per il motivo, che ritengo ovvio, che il momento politico rimane quello fondamentale e va affidato al soggetto stesso che più e meglio rappresenta le istanze che si vogliono portare avanti. Portare fuori dal gruppo dove le tesi vivono e si sviluppano la lotta per il potere significa o rimanere succubi di tale formazione politica altra, o costruirla artificialmente, togliendo così con un trucco ogni parola nel merito politico agli adepti ed affidando tutti ai pochi che condurrebbero quest’operazione che non potrebbe non apparire che scorretta.

Volgio cioè affermare che si può e si deve stare in moltissimi luoghi dove si elaborino e si portino avanti iniziative anche soltanto in un ambito genericamente sociale, ma deve esistere un nucleo, la famosa avanguardia, che abbia chiaro il disegno strategico e sia in grado di tenere la barra dritta senza ondeggiare al primo stormir di foglie.

domenica 4 luglio 2010

DECRESCITA E POLITICA

Oggi, ho deciso di tornare con maggiore impegno su un sito di estremo interesse, in sostanza collegato alle tematiche della decrescita (qui). Mi sono in particolare soffermato su un documento collettivo, abbastanza lungo e complesso, che però ho letto con grande attenzione per intero, come spero vogliate fare anche voi. Non so cosa voi sappiate, se siate adeguatamente informati sul movimento per la decrescita. Io ho conosciuto questo mondo tramite il libro “La decrescita felice”, scritto da Maurizio Pallante. Vi dico subito che, pur convenendo col testo sulla necessità di frenare la crescita, o addirittura di non averne affatto e anzi ridurre il PIL, ho trovato complessivamente le tesi lì illustrate insoddisfacenti per una serie di motivi che sarebbe inutile qui specificare. Inutile perché invece la lettura del documento che citavo all’inizio, e che evidentemente usa un approccio differente e fa riferimento a persone differenti, mi è sembrato fornire una visione certamente più interessante e stimolante delle tesi della decrescita.

Non intendo qui dare un giudizio dettagliato di questo documento, perché ciò richiederebbe che io ne facessi un’analisi puntuale, cosa impossibile dopo una semplice lettura inevitabilmente affrettata.

Dirò tuttavia che trovo molti punti di convergenza per quanto attiene la prima parte, lì dove gli autori enunciano una serie di problematiche riferite alle moderne società occidentali.

Qual è allora il punto centrale del dissenso? Nella seconda parte, quella propositiva, del che fare, viene avanzata l’ipotesi della creazione di un nuovo soggetto politico, quindi risulta palese la scelta di andare oltre le semplici esperienze di associazionismo, ma, malgrado gli autori si dilunghino nel definire le caratteristiche che a loro parere un soggetto politico originale dovrebbe avere, non convince la questione di fondo, che poi coincide con la volontà di farne un soggetto appunto “differente” da quelli esistenti.

Scrivono dunque gli autori che “sarebbe interessante da questo punto di vista il tentativo di mettere in scena una nuova tipologia di soggetto politico che non competa per il potere, inteso come dominio sugli altri, nemmeno attraverso la conquista elettorale degli apparati statali, ma che si proponga e agisca in uno spirito di servizio.” Questa frase introduttiva non può da sola illustrare le tesi del documento, ma tuttavia ne definisce il punto centrale, il rifiuto della competizione per il potere. Ora, malgrado gli autori si affrettino a spiegare che usano “potere” nel senso di “dominio sugli altri”, in verità nel seguito del documento sarebbe del tutto vano ricercare in che senso invece si debba correttamente intendere potere. E’ davvero difficilmente comprensibile come nello stesso momento in cui si vuole dare una caratterizzazione politica ad un determinato movimento, si metta da parte il problema del potere.

Per non lasciarvi dubbi, aggiungerò che il seguito del documento è assolutamente coerente con questo rifiuto del confronto sul problema del potere. Per gli autori, in verità, questa iniziativa andrebbe oltre le esperienze associazionistiche non sugli aspetti metodologici che mi pare invece essi vogliano mutuare da queste, ma nel fatto che invece di porsi un singolo obiettivo, come nell’associazionismo, questo soggetto si porrebbe una pluralità di obiettivi e contemporaneamente quello, in qualche misura centrale, del cambiare le forme stesse della partecipazione politica.

Perché dissento da tale impostazione? Perché chiaramente così come è formulato, il documento risulta di fatto reticente. Non affronta infatti minimamente il problema di come qui ed ora, nell’Italia o nell’Europa se si pensa ad un soggetto transnazionale e nel 2010, si possa fare avanzare gli obiettivi che pure puntigliosamente gli autori elencano.

A me sembra che questo soggetto non possa in alcun modo definirsi politico in quanto, se guardiamo in particolare alla parte del documento che elenca gli elementi di caratterizzazione, sembra emergere, anche se non in maniera esplicita, che tale soggetto pone più attenzione a soddisfare le esigenze dei propri membri che a costituire uno strumento per definire la sorte dell’intera comunità, che mi pare in definitiva l’obiettivo della politica.

L’aspetto però di massimo dissenso è che più volte nel documento si fa riferimento a un soggetto politico altro, cioè l’ipotesi prospettata è quella di un soggetto “stampella” se mi passate il termine: esso cioè non vuole sporcarsi le mani con la gestione del potere, immagina una struttura di gestione interna orizzontale, molto rispettosa dei singoli membri, quindi in sostanza enfatizzando l’egualitarismo interno, ma non disdegnerebbe comunque di supportare forze politiche tradizionali sia nelle esplicitamente citate esperienze locali e occasionali, senza mai escludere per altro un rapporto di collaborazione sistematica con una specifica forza politica.

In sostanza, questo soggetto esporterebbe tutti i problemi che la partecipazione attiva alla politica comporta verso non meglio definite organizzazioni politiche, e sarebbe quindi questo il sistema, che io chiamerei stratagemma, per definire quest’organismo in equilibrio quasi acrobatico tra associazione e partito.

In conclusione, a mio parere, un qualsiasi soggetto che non ponga al centro dei suoi obiettivi il perseguimento sistematico dell’interesse generale e contemporaneamente gli strumenti, le strategie e le tattiche per conseguirlo, non può definirsi politico: non si tratta di politica, come non si tratta di politica nel caso delle famose fabbriche di Vendola. In un caso come nell’altro, mi sembra piuttosto un modo per occultare un problema che non si riesce a superare. La mia personale risposta richiede qualche scelta preliminare più radicale, proprio a livello filosofico ed antropologico, e non è un caso che il documento tralasci questo livello delle questioni, pur se nei fatti queste scelte sono già state operate, ma in forma implicita, e forse addirittura inconsapevole.

giovedì 1 luglio 2010

LA LONGA MANUS DI BERLUSCONI SULLA LEGA?

La notizia del giorno, almeno per quanto riguarda la politica interna, è il rilancio del DDL sulle intercettazioni. E’ una notizia molto significativa perché testimonia la volontà di Berlusconi di riprendere l’iniziativa. Anche se solo sotto forma della riconferma di un vecchio progetto, è una notizia perché solo poche settimane fa sembrava che tutti avessero abbandonato questo DDL, sembrava quindi che anche Berlusconi si fosse arreso alle perplessità manifestate esplicitamente dal suo principale alleato, nella persona di Bossi a tale proposito. La domanda che appare ovvia è cosa sia potuto cambiare in questi ultimi giorni che possa giustificare questa sua nuova offensiva. I punti di debolezza di berlisconi appaiono immutati: l’affare protezione civile gli ha tolto l’appoggio dei suoi più fidati collaboratori, Gianni Letta stesso non sembra potergli fornire alcun supporto, visto lo stato comatoso del vaticano, che ha tanti grattacapi propri da non poter certo garantirgli una sponda, infine l’affare Blancher lo ha di certo indebolito ulteriormente. Da questo punto di vista quindi, sembrerebbe un suicidio politico questo suo intestardirsi sull’affare intercettazioni: come andare ad una sicura sconfitta.

Facciamoci però una domanda: se ci si trova in una condizione di debolezza che non sembra potersi risolvere, cosa si può fare per riprendere l’iniziativa? La risposta che vedo è che si può ridurre la propria debolezza in senso puramente relativo, insomma rendendo più debole il tuo interlocutore. Se il tuo interlocutore diventa più debole, allora sono due debolezze a confrontarsi. Ecco, io credo che la tattica di Berlusconi sia proprio questa, indebolire Bossi che oggi appare sì ancora come il principale alleato, ma un alleato riottoso e sempre più ingombrante che ogni giorno che passa tende sempre più a dettargli l’agenda politica. Sono ormai diversi giorni che sulla stampa e sul web si legge di difficoltà interne alla Lega. La tesi prevalente è che si tratti di una guerra di successione, di chi insomma debba succedere a Bossi alla guida della Lega. A me pare una lettura dei fatti troppo semplicistica, perché, se anche si trattasse di una questione che riguarda un futuro più o meno prossimo, sarebbe miope ignorarne gli aspetti sull’attualità politica. In altre parole, se un dirigente leghista vuole succedere a Bossi, difficilmente può limitarsi ad ingraziarsi il gran capo, sperando in un’investitura ufficiale. In politica, e in genere quando si parla di posti molto alti nella scala del potere, la vera investitura la deve avanzare e promuovere il diretto interessato, ed in genere richiede “l’uccisione del padre”, fuori di metafora il candidato deve dimostrare di sapere mettere in difficoltà l’attuale capo, deve mostrare di essere già adesso il più potente che poi benevolmente può lasciare il ruolo ufficiale di capo all’attuale. Altra via in realtà non c’è, almeno da quando è cessata la successione dinastica. Con questo, voglio dire che qui i colonnelli leghisti non si possono limitare a farsi la guerra tra loro, ma devono farla anche a Bossi stesso.

Ebbene, l’ipotesi che qui propongo è che uno dei candidati, magari uno di quelli che si trova più svantaggiato in questa corsa, abbia puntato la sua fiche su Berlusconi. Quest’ultimo insomma avrebbe potuto rispondere a Bossi con la sua stessa rma: come Bossi ha il drappello Tremonti dentro il PDL, così anche Berlusconi potrebbe aver costituito un suo gruppo dentro la Lega. Naturalmente non posso suffragare questa ipotesi con nessuna prova, anzi non ho proprio idea di chi possa essere “l’enclave Berlusconi” dentro la Lega, ma ciò spiegherebbe perché egli ritenga oggi di potere ottenere questo provvedimento sulle intercettazioni a cui tiene tanto, e spiegherebbe anche il silenzio di Bossi che sembrava avere invece nel recente passato liquidato questa vicenda.

Naturalmente, le due debolezze della maggioranza avrebbero dovuto favorire l’opposizione. Ciò però presupporrebbe che un’opposizione esista realmente, ed è invece proprio questo che manca: il grande assente è l’opposizione, col risultato che non ci resta altro che puntare sulle liti dentro la maggioranza.