giovedì 28 gennaio 2010

VECCHI E NUOVI RAZZISMI

Ieri, i blogs e le pagine dei giornali erano colmi di scritti in memoria della Shoa, dicendo “per non dimenticare”. Come non essere d’accordo? Ma badate però che il problema della memoria è un problema estremamente delicato, in quanto non basta ricordare, ma occorre anche ricordare bene. Ricordare bene è anche non ricordare selettivamente, cioè non concentrarsi su un unico soggetto, ma invece avere il quadro globale di tutto ciò che va ricordato. In questo senso, ho particolarmente apprezzato il post apparso su uno dei blog che seguo, in cui, sorprendentemente, proprio a proposito della Shoa e della sua commemorazione, riporta non l’immagine dei campi di concentramento nazisti, quanto uno sterminio ancora più recente, e perpetuato in tutt'altra zona del mondo. Meglio di qualunque discorso, quel post ci sottolinea come la commemorazione non sia un’azione di analisi e giudizio storico, quanto invece uno strumento per l’oggi, per tenere lontano dal mondo contemporaneo l’ombra della follia sterminatrice collettiva, commemorare insomma perché non accada più. Con questo spirito, la Shoa ha un significato esemplare, è un esempio a noi particolarmente vicino temporalmente ed anche dal punto di vista culturale.

Però, questo aspetto della Shoa come simbolo di tutti i genocidi, di tutte le atrocità commesse dall’umanità in nome delle più diverse ideologie di morte, deve essere fortemente sottolineato. Se si ricorda e basta, se, anche come si è fatto con gli attentati dell’undici settembre 2001, si prende un avvenimento e gli si da’ un ruolo di evento unico, un punto di svolta storico, rendendolo quindi singolare, si fa un’operazione opposta e per me scorretta. Se il ricordo della Shoa lo si isola, lo si considera soltanto in sé, il risultato è quello di trasformare un’operazione di memoria in operazione di oblio: ricorderemo la Shoa, e dimenticheremo contemporaneamente tante altre atrocità, alcune a noi anche prossime (io sono solito ricordare il genocidio di armeni ad opera dei turchi nel 1915, maggiore per numero di persone trucidate, alla stessa Shoa). Ciò è tanto più vero per un aspetto importante, che i trucidati sono i vincitori e i trucidatori sono i vinti. Guai se per conservare ed alimentare la memoria, ci facciamo guidare da chi sia stato il vincitore! Cosa è rimasto in noi Europei della memoria dei nativi delle Americhe, degli stermini dei pellirosse perfino mediante contagio col vaiolo? Dimenticheremo in quel caso perché lo sterminio è stato compiuto dalle popolazioni risultate vincitrici, mentre chi l’ha subito ha perso, anche in virtù della furia sterminatrice dei nostri progenitori? Commemoriamo quindi la Shoa come simbolo ed esempio di tutte le atrocità commesse dall’umanità.

C’è un secondo aspetto su cui mi vorrei soffermare, e che riguarda più specificamente il razzismo. Leggo che ieri a Roma sono apparse scritte antisemite, e dico che davvero queste oggi cose da sfigati. Ma davvero c’è ancora chi ha un’ideologia antisemita? Ci sarà, su questo non c’è dubbio, ma si tratta davvero di episodi marginali di persone marginali, di qualcosa certo da cui guardarsi, ma avendo consapevolezza che esiste un razzismo ben più pericoloso, perché rischia di coinvolgere la maggioranza degli Italiani. Io lo chiamo neorazzismo e lo si può definire facilmente come razzismo verso i poveri. Da questo punto di vista, è la forma più pericolosa di razzismo, perché non si basa su stupide questioni di razza, facilmente smontabili alla prima analisi razionale, ma piuttosto sulla difesa pervicace di privilegi, reali o presunti tali. Come avviene sovente, questa volontà di separarsi dai più poveri, anzi possibilmente di non vederli neanche, si traveste oggi di motivazioni culturali. Così, ce la prendiamo con i Rom perché sono ladri sistematici a causa della loro stessa cultura, ce la prendiamo coi musulmani perché sono terroristi, o quanto meno sono intolleranti, sono contro le donne (cultura maschilista), rifiutano insomma di integrarsi, dove integrarsi significa abbandonare i loro costumi ed assumere i nostri. Fatto sta che Gheddafi, che certo non nasconde la sua fede musulmana, ha facilmente trovato frotte di ragazze pronte a farsi arringare da lui per un piccolo contributo finanziario: ma appunto, Gheddafi è ricco, e allora si passa sopra la sua appartenenza all’Islam.

Riassumendo, questo vuole essere un appello a tenere ben dritta la barra, a non baloccarci col passato, non scorgendo quanto il presente, pur confermando il dato dell’intolleranza portato alle estreme conseguenze del genocidio, possa trasformarsi, occultarsi, rendersi all’apparenza altro, rendendoci inermi rispetto ai pericoli presenti.

mercoledì 27 gennaio 2010

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 24

Nell’interminabile telenovelas del PD, si apre un’ulteriore fase. I veltroniani hanno sferrato un attacco scoperto alla segreteria ed alla sua maggioranza, mentre Franceschini e i suoi sostenitori hanno assunto un atteggiamento più predente. Mi pare che le motivazione dei veltroniani siano politicamente fondate: del piano verso una struttura più fortemente bipolare che Veltroni aveva in testa, partorirne l’accordo, tra l’altro a tutti i costi, con l’UDC sarebbe una conclusione paradossale. Questo è quanto è dato vedere delle dinamiche interne a questo partito. Il secondo aspetto che dovremmo considerare è l’atteggiamento esterno al PD, quello delle formazioni ad esso più vicine. Mi hanno colpito nei resoconti giornalistici di questi due ultimi giorni i comportamenti di Vendola e di Di Pietro.

Vendola ha rilasciato una dichiarazione molto conciliante verso D’Alema, a cui ha sostanzialmente riconosciuto il merito di avere comunque accettato di andare alle primarie in Puglia. Non c’è dubbio che riconoscere, come dire, l’onore delle armi agli sconfitti suoni nobile e concorra a svelenire il clima post-primarie. Ciononostante, voglio ritornare su queste dichiarazioni perché, malgrado ne comprenda la sensatezza, ne contesto comunque l’opportunità.

Andiamo adesso a Di Pietro, che si è incontrato con Bersani, e alla fine del colloquio ha dichiarato che l’alleanza col PD è una scelta di lunga data. Come dire che questi due partiti hanno siglato tra loro un patto che, come è ovvio, non è importante per il futuro (ci saranno mille occasioni per aggredirsi reciprocamente), ma piuttosto proprio per l’oggi: in sostanza una seconda stampella esterna fornita a Bersani. In questo contesto, non citerei, perché appariva scontata, la nomina di D’Alema alla Presidenza del Copasir.

Dal punto di vista della tattica politica, le mosse di Vendola e Di Pietro appaiono appropriate: non c’è dubbio che sia proprio Veltroni l’avversario più pericoloso per tutti coloro che a sinistra vogliono muoversi fuori dall’orbita del PD.

Vi vorrei però proporre una visione più ampia, non limitata alla tattica di breve periodo, una visione insomma strategica, che mi pare abbia raggiunto i giusti tempi di maturazione. E’ una visione che mi pare nelle formazioni più prossime al PD, ma alla sua destra, sia già stata acquisita, quella del dissolvimento del PD. Ci dovremmo credo chiedere quale sia la strategia innanzitutto di Casini, a cosa può preludere questo evidente avvicinamento al PD. A me appare abbastanza evidente che Casini abbia trasgredito alla sua posizione autonoma, anche se supportata ancora dalla teoria dei più forni, proprio perché si appresta ad accogliere tutta una frangia consistente del PD quando questo dovesse sciogliersi. La stessa strategia mi pare portata avanti da Rutelli e dal suo APL, che a mio parere si appresta a convergere su un nuovo UDC, proprio nel momento dell’adesione prossima ventura di pezzi consistenti del PD. Queste strategie, si badi bene, non sono previsioni, sono atti politici concreti, volti a favorire ed accelerare questo scioglimento del PD. A me pare una politica abile, che punta sul creare problemi di ogni tipo al rapporto del PD con pezzi della sinistra, come esemplificato proprio dal caso della Puglia, fare terra bruciata a sinistra e proporsi come alternativa credibile, perché va ad occupare uno spazio politico contiguo, per quella parte del PD che mai potrebbe schierarsi a destra.

La stessa consapevolezza della sorte segnata del PD e dei suoi politici più rappresentativi non la vedo a sinistra, soprattutto non la vedo in Vendola, e nella sua volontà di rappacificarsi con coloro che ha sconfitto. In lui, come in Di Pietro, vedo un’attenzione forse anche in loro di appropriarsi di pezzi del PD di sinistra, ma senza volere rischiare, senza quindi lavorare per la demolizione della leadership del PD, interpretando quindi un ruolo passivo in questa evoluzione. Ma la spaccatura del PD, e forse essi non ne sono pienamente consapevoli, è tutt’latro che scontata. A me pare che se essi forniscono un supporto a D’Alema e Bersani, questi e i loro accoliti possono ancora chissà per quanto andare avanti, non risolvendo comunque i loro problemi, non interpretando il ruolo che gli Italiani domandano di fare una seria e credibile opposizione, ma tirando a campare come hanno fatto sino ad adesso.

Mi pare anche di cogliere in Vendola un’attenzione centrale, e che io reputo comunque eccessiva, al problema delle regionali pugliesi, e quindi ancora una volta lasciando senza alternative credibili la situazione nazionale di tutta l’area di sinistra.

lunedì 25 gennaio 2010

LE PRIMARIE IN PUGLIA: UN PUNTO DI PARTENZA

L’esito delle primarie in Puglia, con la sconfitta di dimensioni eclatanti di Boccia, è un evento di importanza a mio parere storica. Per argomentare la mia tesi, vorrei ricostruire brevemente la storia della sinistra italiana in questi ultimi vent’anni.

In principio, c’era il PCI, con varie formazioni alla sua sinistra. Poi venne il PDS, quindi il DS e infine il PD. Se confrontiamo le elezioni del 1987 con quelle del 1994, e stiamo quindi parlando di un prima e di un dopo rispetto ad eventi storici come la caduta di Berlino, come politica internazionale, e tangentopoli come situazione nazionale, per la sinistra in fondo poco cambia come consistenza elettorale: senza considerare il partito popolare, includendo quindi PDS, PRC, la Rete, si arriva agevolmente a raggiungere, se non addirittura a superare, quel 30-31% che il PCI e i partiti alla sua sinistra avevano raggiunto nel 1987. Il significato di questa costanza dei consensi consiste in una riconferma della fiducia degli elettori nel principale partito della sinistra, che cede circa il 6% dei voti verso formazioni sostanzialmente schierate alla sua sinistra. C’è quindi una perplessità rispetto all’abbandono ufficiale dello schieramento marxista, ma, direi, in limiti del tutto fisiologici. Queste stesse formazioni nel 1996 raggiungono il 32%. Così, mi sembra logico dedurre che esiste quasi un terzo degli elettori italiani che stabilmente, per un decennio, malgrado tutto il cambiamento del quadro internazionale e la rivoluzione nel tipo di formazioni politiche intervenuto in Italia, continua imperterrito a votare a sinistra. E’ proprio negli ultimi anni del millennio che qualcosa viene a modificarsi profondamente. L’esperienza del governo Prodi, fatto cadere a metà legislatura da uno scellerato, anche se mai provato, patto Bertinotti-D’Alema, che fa cambiare un bel po’ questo scenario elettorale. In sostanza, la gente comincia a chiedersi chi tra Prodi e D’Alema stia più a sinistra, e se quindi non sia più opportuno schierarsi coi Popolari, diventati nel frattempo “La Margherita”, piuttosto che col neonato DS (ex-PDS). C’è quindi una caduta di circa quattro punti nei voti dei DS, ma stavolta non verso la sinistra, ma piuttosto verso “La Margherita”. Ciò che vorrei però sostenere è che sarebbe affrettato considerare questa come la svolta a destra degli elettori. A me sembra piuttosto la presa d’atto della deriva verso il centro degli ex-PCI. E’ come cioè se una lenta ma inesorabile deriva solo in quegli anni diventasse presa d’atto consapevole da parte di questa parte della popolazione. Nel 2006, “L’Ulivo”, sostanzialmente l’unione dei DS e della Margherita, conferma i suoi voti (31%, rispetto al 16,5+14,5 delle elezioni del 2001), mentre la sinistra esplode verso l’alto, superando il 10% di consensi. Dal 1994 al 2006, si fronteggiano due schieramenti sostanzialmente equivalenti, che stentano a prevalere l’uno sull’altro. Soltanto nel 2008 si ha un reale spostamento a destra dell’elettorato. Se però si esaminano i dati elettorali con maggiore attenzione, allora emerge che i votanti effettivi, quelli in numero assoluto, per la destra e il centro cumulativamente non sono aumentati (sono sempre circa 17 milioni), anche se l’UDC perde per strada quasi mezzo milioni di voti a favore della destra. Sembra quindi che gli elettori di sinistra, se considerati globalmente, non abbiano votato a destra, e neanche l’UDC, ma piuttosto si siano astenuti o abbiano annullato il voto, oppure abbiano votato scheda bianca. La scommessa della sinistra così, sembra essere quella di fare il pieno, di farsi cioè votare, da quei 16,5 milioni di elettori che si rifiutano comunque di votare centro e destra. Casini, costretto nel 2008 a presentarsi da solo, ha perso circa il 18% dei suoi elettori, che non è certo poco. La società italiana è già da un decennio almeno pronta a diventare bipartitica: sono i politici che non sono pronti a tanto. La scommessa dei centristi non è basata sull’esistenza di un’area di opinione davvero di centro in Italia, ma su giochetti interni al microcosmo politico, svolgere il ruolo del famoso ago della bilancia della politica, facendo pagare caro quel loro piccolo contributo necessario a far prevalere due schieramenti che come è mostrato sono e rimangono sostanzialmente identici come consistenza numerica.

La scommessa dell’oggi è quindi quella di dare una degna rappresentanza politica a questi 16,5 milioni di persone. Non è la maggioranza del paese, ma è una minoranza molto consistente, ed è sorprendente, e nello stesso tempo confortante che decenni di TV berlusconiane, decenni di propaganda menzognera, decenni in cui i dirigenti della sinistra hanno trascorso il tempo a farsi sgambetti tra loro, a dimostrare chi tra loro ce l’avesse più grosso, anche a coltivare la propria personale visione della politica senza sentire l’esigenza di rappresentare istanze più ampie, dopo tutto ciò, queste persone continuano a rifiutarsi di votare a destra: piuttosto, non votano. Io vorrei che Vendola si rendesse pienamente conto della responsabilità di cui oggettivamente è da oggi investito. Qui, non è in gioco soltanto il destino di una regione, quale politica debba essere portata avanti in Puglia, ma piuttosto qui viene in evidenza la maturità di fasce consistenti di elettori, a paragone di politicanti che immaginano la politica come completamente sconnessa coi fatti e con l’opinione degli stessi votanti. Spetta proprio a Vendola progettare un’iniziativa storica di riunificazione a sinistra su contenuti che sappiano essere di sinistra. Non è facile, ma i pugliesi hanno dimostrato che è possibile, che la gente è pronta a mobilitarsi per motivazioni chiare e condivisibili: la crisi della sinistra è insomma una crisi di classe dirigente ed è questa classe dirigente che si deve ricostruire, senza immaginare che ciò debba avvenire attorno alla propria personale leadership.

sabato 23 gennaio 2010

ANCORA SULLA LIBERTA' DI STAMPA

Voglio citare questo articolo di Mario Deaglio su “La Stampa” (qui), che trovo estremamente interessante, e che vi invito a leggere per intero. La maestria dell’autore sta nell’accostare due distinti fatti apparentemente senza alcuna attinenza reciproca, anzi perfino in qualche misura opposti tra loro. Riassumo brevemente per chi fosse troppo pigro per andare sull’articolo.

Il primo fatto è la censura operata dalla Cina su Google. Posso testimoniare che dall’albergo in cui ero alloggiato nel mio recente viaggio a Shanghai, non sono riuscito a collegarmi a questo mio blog, mentre la rete funzionava regolarmente andando verso altri siti. Di tutto ciò, la nostra stampa nazionale c’ha ampiamente informati.

Il secondo fatto è la decisione della Corte Suprema degli USA di rimuovere tutti i limiti quantitativi all’accesso di privati ed aziende ai mezzi di comunicazione. Questa notizia non sembra interessare la grande stampa italiana, e l’articolo che cito è anche da questo punto di vista un contributo prezioso di informazione.

Apparentemente, si tratta di due eventi di natura opposta, l’una, quella cinese, limita la comunicazione, l’altra, quella americana, toglie ogni vincolo e quindi sembra liberalizzarla.

Le cose in realtà non sono così ovvie perché, come acutamente osserva Deaglio, la libertà di stampa non può consistere in una pura opzione teorica, ma deve al contrario essere concretamente accessibile. Togliere ogni limite quantitativo in termini di spazi e in termini di impegno finanziario a ciascun soggetto, significa di fatto limitare l’accesso a questi mezzi solo ai più facoltosi.

Deaglio argomenta più efficacemente di me in proposito. A me importa tanto citarne l’articolo, perché lo trovo perfettamente in accordo con alcune tesi che sviluppo nel mio libro sulla problematicità del concetto stesso di libertà di stampa, ed in genere di come le teorie liberali, seppure formalmente eleganti, nella loro concreta applicazioni, si rivelino come poco più di esercitazioni di pensiero.

Io polemizzo spesso con l’Illuminismo, ma forse dovrei meglio dire con gli “Illuministi del terzo millennio”, perché gli Illuministi del XVIII secolo erano persone molto di buon senso, che sia nella formulazione che nell’esplicitazione delle loro teorie si guardavano bene dal portarle alle estreme conseguenze. Vorrei ora chiedere a costoro cosa ne pensano di questo articolo, e di come certi principi formali, se portati alle estreme conseguenze, provochino effetti esattamente opposti a quelli per cui erano stati originalmente pensati.

venerdì 22 gennaio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 23

In questi giorni, in un clima sostanzialmente indifferente da parte della cosiddetta opinione pubblica, si vanno sviluppando due differenti questioni a mio parere di fondamentale importanza del nostro paese.

La prima questione riguarda il cammino, già iniziato in Senato, della legge sul cosiddetto “processo breve”, che si dovrebbe piuttosto chiamare “prescrizione breve”. E’ una bomba ad orologeria che la maggioranza, nella speranza di salvare il signor B. dai suoi guai giudiziari, ha piazzato al centro della nostra società,e che quando deflagrerà, comporterà la sostanziale immunità dai reati commessi, mentre sulle questioni di pertinenza del codice civile, significherà l’impossibilità di garantire la legalità in tutti quei rapporti in cui ciascuno di noi è coinvolto quotidianamente. Insomma, per costoro, allo scopo di garantire un tempo processuale ragionevole, la soluzione starebbe nell’impossibilità stessa di celebrare il processo. Si è portato l’esempio del treno che non riesce ad arrivare in orario, e la soluzione quindi sarebbe quello di fermarlo in aperta campagna all’orario di arrivo previsto. Il compito del governo e del Parlamento non sarebbe quindi quello di risolvere i problemi che causano i ritardi nel processo, ma di prenderne semplicemente atto e annullarli d’imperio. E badate, questo provvedimento è nei fatti retroattivo (sennò come si salverebbe il signor B. ?), e quindi il giorno stesso in cui entrasse in vigore, determinerebbe l’automatico annullamento di tutti i procedimenti in corso, tranne quella piccola frazione che non ha ancora raggiunto il tempo limite previsto dalla legge.

La seconda questione riguarda le regionali, e din particolare la Puglia. In questa vicenda, la posta in gioco è enorme. Qui, vengono a confronto due opposte concezioni della politica, l’una la quale si misura con i problemi, con le scelte amministrative e politiche riguardanti i grandi problemi collettivi, l’altra quella che vede la politica come un’arte patrimonio di pochi che la esercitano al di sopra delle persone. Anzi, per costoro, le persone non esistono più, sono soltanto dei pacchetti di voti, elettori che leggono i simboli dei vari partiti e infilano la loro scheda nell’urna in maniera passiva, senza esercitare le loro capacità critiche. Qui, la politica inciuciona, la politica dei politicanti che si accordano tra loro sulla testa delle persone viene ad un nodo fondamentale. L’esito delle primarie in Puglia è nei fatti una scadenza fondamentale per l’intero paese. Qua si decide se il disegno portato avanti negli ultimi decenni da governi di qualsiasi colore di rapina del paese a favori dei soliti noti, e parlo di telefonia, di autostrade, di energia elettrica, di energia da combustibili fossili, per citarne solo alcune, andrà avanti con l’acqua, con la costruzione delle centrali nucleari, coi favori fatti all’industria farmaceutica. Se Vendola perde, è inutile nasconderlo, un progetto di rapina può proseguire indisturbato e la gente non avrà chissà per quanto tempo ancora nessuna possibilità di fermarlo, di difendere quello che è un patrimonio di tutti.

Non trascurerei neanche il travaglio presente nel PDL sui suoi rapporti con l’UDC. Devono fare una scelta sofferta se privilegiare l’affermazione del bipolarismo rifiutando le alleanze con l’UDC, o piuttosto privilegiare gli accordi per conseguire un risultato migliore: non sarà facile, ma la scelta è secca. Casini potrebbe, in caso di rifiuto del PDL, essere costretto a buttarsi nella braccia del PD, spostando sempre più a destra il quadro politico del paese. In realtà, ciò oggettivamente tenderebbe ad aumentare lo spazio politico di una formazione di sinistra, ma non si vede ancora in quest’area una consapevolezza di esprimere una politica unitaria, costruita su contenuti piuttosto che su figure di leaders vari, sempre lì pronti ad affermare il loro specifico e personale ruolo.

lunedì 18 gennaio 2010

PARLIAMO DI CRAXI

L’articolo di Sergio Romano su Craxi, recentemente apparso sul Corriere (qui), solleva alcune questioni che non mi appaiono banali, in quanto Romano, a modo suo, tenta di dare un giudizio articolato su Craxi.

Tenterò di elencare quelli che nella visione dell’opinionista sarebbero i meriti di Craxi:

- diede forza al PSI, il partito di cui era Segretario

- eliminò la scala mobile (spero che tutti sappiate cos’è)

- sposò la decisione di schierare i missili a Comiso

- si oppose agli USA sulla vicenda del dirottamento dell’Achille Lauro

- spinse in avanti il processo di integrazione europea contro l’isolazionismo della Thatcher

- rinnovò il concordato con la Chiesa Cattolica

Dirò subito che l’immagine dei Carabinieri che nella base NATO di Sigonella circondano la Delta Force lo riconosco come un grande regalo a tutti noi che abbiamo sempre visto il nostro rapporto con gli USA come una forma abbastanza scoperta di sudditanza.

Il ruolo svolto da Craxi a livello europeo non lo ricordo, ma diamogli per buono anche questo.

Accreditatigli questi due punti, mi pare che sul resto i pareri tra me e Romano divergono ampiamente. Sul primo punto, tornerò dopo.

Dirò qualcosa invece sui rimanenti tre punti. Non sono un sostenitore a tutti i costi della scala mobile, ma davvero, a posteriori, mi pare che in un mondo in cui tutti hanno il diritto, e lo usano, di imporre il loro livello di profitto, gli unici che non riescono a difendere il loro livello di reddito sono i dipendenti: le statistiche evidenziano in maniera impietosa l’erosione del potere di acquisto dei salari.

Dovrei invece essere grato a Craxi perché ha confermato la scelta dei missili a Comiso? A parte che le manganellate ai cancelli di Comiso me le sono prese proprio il giorno di insediamento del suo governo, rimane il fatto che questi missili (fortunatamente) non sono mai stati installati, ma le spese preliminari sono state egualmente affrontate, e non sono state da poco: senza entrare nelle tematiche della strategia della deterrenza nucleare, fu comunque uno spreco di risorse pubbliche.

Infine, non credo che ci sia da gloriarsi di avere rinnovato il Concordato in maniera più favorevole alla Chiesa. Cosa ci sarà di positivo nell’incentivare i finanziamenti statali a un’organizzazione che fa capo a uno Stato estero, proprio non si capisce.

Mi scuso con la maniera approssimativa con cui ho analizzato questi punti, ma in un post sarebbe difficile fare diversamente: niente vieta che si approfondisca qualcosa nei commenti.

Non capisco invece perché mai il suo desiderio di dare forza al PSI dovrebbe costituire un valore di cui l’intero popolo italiano dovrebbe dargli atto. E’ stato più volte detto che il destino mediocre del PSI in Italia rispetto alla sorte ben più gloriosa degli analoghi partiti socialisti nell’Europa Occidentale risieda essenzialmente nella capacità del PCI di muoversi con grandissima abilità negli scenari politici nostrani, senza le inutili rigidità dei suoi omologhi esteri. Alla luce però dello storico insuccesso nell’intera Europa delle formazioni socialdemocratiche nelle elezioni europee dell’anno scorso, credo che dovremmo porci la questione socialista in termini più approfonditi. Apparentemente, la politica europea socialdemocratica sembra essere stato un gigantesco bluff: alla resa dei conti, nessuna reale alternativa alle politiche liberiste sembra essersi sollevata da quelle parti. Chissà che non siano stati gli Italiani ad averlo compreso per primi. C’è un apparente spazio politico di centrosinistra che dopo la caduta del PSI, gli ex-comunisti hanno tentato di occupare spostandosi scompostamente dalla loro originale collocazione. Io rimango pervicacemente dell’opinione che questo spazio non esista, e credo fermamente che i vari PDS, DS e PD soffrano nel volere perseguire una politica che semplicemente non esiste, né come linea ed obiettivi, né come base elettorale.

Detto tutto questo, rimangono le tante colpe di Craxi riconosciute direi unanimemente, riconosciute perfino da uno come Romano: dilatazione del debito pubblico ( non ne siamo più usciti), e un atteggiamento quanto meno compiacente verso la corruzione politica. Io ne aggiungerei un terzo: il decreto-legge salva-Canale 5 e le TV di Berlusconi, senza cui non sarebbe neanche possibile immaginare l’Italia come ce la ritroviamo ai nostri giorni.

Epperò, pur non ritraendomi dal compito di dire la mia su specifici punti del craxismo, capisco che ancora non ho detto abbastanza, perché qui non si tratta di esprimere un giudizio storico su Craxi, ma un giudizio politico sui gesti politici dell’oggi. Esplicitando, la volontà della Moratti di intitolare una via a Craxi non va interpretato come un giudizio storico più o meno condivisibile: se questi fossero i termini della questione, chi potrebbe porre censure o veti? Con tutta evidenza, si tratta piuttosto di un gesto del tutto politico, la cui finalità pertanto sta tutto nell’oggi. Ciò che la Moratti e chi la appoggia porta avanti è una tesi da una parte ardita se non addirittura paradossale, ma nello stesso tempo vitale per il signor B. e la sua corte dei miracoli. Si tratta di affermare in sostanza che la politica è più importante della legge, che esiste un galateo per cui la magistratura deve mostrare un occhio di riguardo verso il mondo della politica. Riabilitare Craxi, significa insomma spianare ancora di più la strada verso le leggi ad personam per il signor B. Non solo, significa anche stabilire cosa si debba intendere nel nostro paese per politica. Coem quindi si può agevo,lmente dedurre, si tratta di una questione di concezione della politica che travalica largamente il caso specifico di Craxi, e su cui pertanto non è lecito lasciar fare.

sabato 16 gennaio 2010

LA PRIMA CANDELINA

Bene: così anche questo blog ha compiuto il suo primo annetto di vita. Non so se ce ne saranno ulteriori di queste ricorrenze, ma intanto è inevitabile fare dei bilanci su questo primo periodo. Vi dirò quindi quali sono le mie impressioni su questo mezzo di comunicazione.

Partiamo da una considerazione di fondo: le persone amano innanzitutto chiacchierare, e apparentemente per molti gli argomenti che si trattano sono soltanto delle occasioni per scambiare frasi più o meno corredate di un loro significato. Non è un caso che nell’evoluzione della comunicazione via rete, la chat, che già, nascosta dietro l’uso di una differente lingua, questo significa, sia stato uno dei primi passi. La chat è davvero la continuazione delle interminabili telefonate tra amiche di quando le telefonate urbane erano gratuite (diciamo, incluse nel canone). In più, nella chat, c’è l’anonimato, con le conseguenze del caso. A me pare che sostanzialmente, sia i social networks, che i blogs, siano in definitiva delle variazioni della chat. Questa irrefrenabile esigenza di far fluire questa teoria infinita di parole non importa dove e non importa verso chi, trova quindi soddisfazione in questi mezzi.

Questo uso dei blogs è più evidente nel caso di blogs famosi, dove i commenti sono brevi, spesso composti di un’unica frase, con intenti in genere derisori o inneggianti: insomma, una semplice logica binaria, sono d’accordo, e allora ti dico che sei il più bravo, o non sono d’accordo, e allora sei uno stronzo. Per me, è ad esempio sorprendente vedere come ci siano tante persone che commentano con grande frequenza e apparente passione su certi blogs, senza avere o senza farci sapere di avere un loro blog: li chiamerei i gregari, perché sembra che riescano ad esprimere un concetto solo se qualcun altro gli da’ lo spunto. In verità, esiste anche un altro tipo, il grande commentatore che ha anche il blog dove impedisce di lasciare i commenti: capirlo il perché!

Sembra un giudizio negativo, ma in realtà è possibile rintracciare, magari con un po’ di pazienza, persone preziose che ti comunicano tante cose, e che ci possono arricchire. Probabilmente, se non ci fossero i social networks, il rumore di fondo sul web si abbasserebbe di un bel po’, e sarebbe più facile trovare il meglio. Tra l’altro, i social networks giocano un loro ruolo infausto anche attraverso un altro meccanismo: creando delle microcomunità, creano altresì una complicità che si trasferisce spesso nel mondo dei blogs. Quando si entra in contatto con qualcuno che frequenta i social networks, spesso si percepisce una qualche forma di discriminazione: chi sta dentro è complice, chi sta fuori è presumibilmente ostile, il cosiddetto spirito di corpo insomma, si esprime anche qui.

In ogni caso, il blog è un mezzo specificamente adatto all’attualità, richiede quindi aggiornamenti frequenti, perché nessuno viene a visitare un blog su cui non trova novità. In un certo senso, tenere un blog è un vero e proprio lavoro: come a tutto ciò che teniamo, dobbiamo dedicargli tempo ed attenzioni.

Confesso, alla fine di questo primo anno, che il mio progetto originario procede con fatica, per non dire di peggio. Penso che presto farò un tentativo, anche cambiandone la veste grafica, per rilanciare la mia intenzione di costituire un gruppo attorno alle tesi che ho esposto nel mio libro che però neanche i miei più fedeli bloggers hanno la minima intenzione di leggere. Vedremo, forse presenterò il libro in alcune città italiane: consideratevi sin da adesso tutti invitati ad intervenire.

giovedì 14 gennaio 2010

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA: N. 22

E dunque siamo già in piena campagna elettorale per le regionali. Un appuntamento che appare cruciale, visto che dovrebbe trattarsi dell’ultima consultazione a carattere nazionale fino alle prossime politiche che, in mancanza di novità, che ci auguriamo in tanti faticando a sperarci, si terranno nel lontano 2013. A dare il via alla campagna elettorale, ha provveduto lo stesso premier, lanciando il piano riforme. Come sempre, il signor B. si mostra padrone dei meccanismi di comunicazione, col solito giochetto a cui, a quanto pare, gli Italiani non smettono di abboccare, dell’effetto annuncio e della successiva pronta smentita. Le regolette sono sempre le stesse e perfino banali, già nelle pubblicità commerciali si usano tecniche molto più sofisticate:

- il messaggio iniziale deve essere forte e composto da pochi concetti semplici e facilmente comprensibile, anche da parte di un uditorio poco istruito. Parole come “amore”, “libertà”, “riforma” non deludono mai: semmai, qualche variazione non nuoce, come sostituire libertà con libertatem (l’accusativo latino).

- il proposito sbandierato a pieni polmoni nel messaggio iniziale non ha ovviamente alcuna pretesa di essere effettivamente attuato. Ha una duplice funzione: oltre che attirare facili attenzioni nell’elettorato, quello di tastare le reazioni degli interlocutori in senso lato, includendo quindi quelli istituzionali, quelli politici interni alla stessa maggioranza, quelli della stampa avversaria.

- considerato il tono delle reazioni ricevute, si smentisce il messaggio iniziale, e qui, proprio sulla smentita, il signor B. è un vero professionista nel padroneggiare un insieme coordinato di strumenti. Si va così dalla violazione dell’evidenza (la cosiddetta tattica del traditore nel rapporto coniugale: negare anche di fronte ad evidenza palese), all’ambiguità semantica dei termini utilizzati, al dare la colpa agli avversari su cui si chiede la vendetta degli elettori, all’invocazione dell’emergenza (quella usata stavolta a proposito della cosiddetta riforma fiscale: colpa della crisi che un destino cinico e baro ci ha messo contro).

Poco conta che della crisi qualcosa dovrebbe aver sentito anche lui (non l’avranno ancora informato che è scoppiata una crisi finanziaria nell’autunno del 2008?), il nostro, con la miglior faccia di bronzo esistente sulla terra, con il codazzo di collaboratori che con maggior o minor fortuna riescono ad imitarlo, proseguono nella loro tattica del famoso “clan degli smentitori”, con cui li farei passare alla storia.

Il PD, il maggior partito di opposizione a tuttoggi, nello stesso tempo sembra traballare vistosamente. In Lazio, il tempismo perfetto della Bonino li ha costretti a subirne le scelte, in Umbria c’è in corso una furibonda lite interna, in Puglia la tracotanza inefficiente del solito baffino D’Alema ha creato un vero disastro, negando fino a due giorni fa quello che oggi sembra di dovere dare: le primarie. Fortuna per la sinistra che pare che anche a destra non riescono proprio neanche loro a mettersi d’accordo.

Altrove, sembra che la nuova linea del PD impersonata da Bersani, sia quella di inseguire ad ogni costo Casini e di chiudere ancora una volta ogni dialogo a sinistra con quel poco di sopravvissuto al disastro elettorale del 2008.

Direi che, anche sulla base di queste considerazioni, non sia possibile avere una prospettiva positiva neanche verso queste elezioni, ma la campagna elettorale sarà ancora lunga e le candidature non sono state ancora definite: bisognerà seguire con grande attenzione gli eventi.

mercoledì 13 gennaio 2010

SUI FATTI DI ROSARNO

Mi sono finora astenuto dall’intervenire sulla questione di Rosarno perché, per come è stata riportata sulla stampa, la dinamica non appare affatto chiara. In particolare, le opinioni sul ruolo della ‘ndrangheta sono le più diverse. Da più parti, si è detto che questa degli immigrati di colore era una rivolta contro la criminalità organizzata, ed altri hanno addirittura ironizzato su questa ipotesi. A me pare che si volesse dire che oggettivamente, e non consapevolmente, questa era una rivolta contro chi lì comanda, e quindi non colgo il senso di tale ironia. Altri invece hanno avanzato l’ipotesi opposta, che cioè la rivolta fosse proprio fomentata dalla ‘ndrangheta, ma chi sostiene ciò non da’ una motivazione minimamente logica dei vantaggi che ne avrebbe conseguito. Altri ancora ne fanno un’analisi che a me appare confusa e non condivisibile (qui), perché ipotizza una ‘ndrangheta che va al traino degli eventi. Se diamo per scontato che a Rosarno essi comandano, dovere inseguire gli eventi significherebbe un grave loro smacco nella capacità di controllare il territorio, la vera forma di potere di qualsiasi organizzazione criminale di tipo mafioso. La cosa però che risulta più indecente è il comportamento del ministro Maroni, che ha tuonato contro l’illegalità, ed ha fatto prelevare questi immigrati per trasferirli in vari centri di accoglienza. Vorrei fargli i seguenti appunti. Come mai, essendo ministro dell’Interno da una ventina di mesi, scopre solo adesso una tale palese situazione di illegalità? Nessuno lo ha informato? Come mai non ha allora adottato dei provvedimenti di rimozione dei funzionari inefficienti? Mi chiedo, chi sarà mai responsabile delle situazioni di illegalità se non il ministro a ciò preposto? E ancora, crede egli che la situazione sia stata sanata con questi trasferimenti forzosi? Dovremo chiederci piuttosto, io credo, quali siano stati i datori di lavoro di questi immigrati: davvero sorprendente che dei due contraenti in un rapporto di lavoro illegale e perseguibile per legge, se ne persegua solo il più debole! Speriamo quindi che la magistratura voglia indagare su chi abbia promosso questa situazione inumana di vita per questi poveri lavoratori, e che gli organi governativi vogliano fornire il supporto investigativo necessario nel condurre le indagini. Sarebbe ad esempio imperdonabile che nel trasferire gli immigrati, non siano raccolte le testimonianze su quali fossero i loro “caporali” ed in quali aranceti essi erano condotti a svolgere il loro lavoro. Più che imperdonabile, questa “dimenticanza” non potrebbe che suonare come una forma di connivenza con la criminalità.

lunedì 11 gennaio 2010

L'IDENTITA' NAZIONALE

Recentemente, alcuni editoriali su importanti quotidiani nazionali ha riportato all’interno del dibattito politico l’attenzione sui problemi legati all’immigrazione. Un concetto chiave di questo dibattito è quello dell’identità nazionale, nella versione “identità padana” da parte della Lega. La difesa della propria identità culturale sembra in effetti una causa degna di essere combattuta, ma trovo quanto meno singolare che a nessuno di costoro che sono intervenuti sull’argomento si siano chiesti se esista nel 2010 una identità italiana, e in che cosa essa consista. Possibile che questi grandi intellettuali si siano appena svegliati da un lungo letargo, e solo ora si accorgano che l’Italia è cambiata? Sarebbe interessante che essi ci spiegassero quali siano questi elementi della nostra identità che vadano preservati, ma forse dovremmo anche interrogarci su come e perché certi elementi identitari siano scomparsi o siano in grave pericolo. In assenza di ciò, è ovvio che il sospetto che l’identità venga tirata in ballo per motivi strumentali è più che lecito. Se poi guardiamo al contenuto specifico degli interventi, diventa palese che gli elementi identitari richiamati siano, che strano, tutti di origine religiosa, ed ancora più strano sembra il fatto che essi siano richiamati essenzialmente sempre in riferimento all’islamismo.
Si è parlato ad esempio del presepe: ebbene, parliamone. Io, in virtù della mia età, vi posso raccontare quale fosse la tradizione del natale quando ero un bambino, cioè negli anni cinquanta in Sicilia. A quel tempo, l’albero di natale non esisteva: solo a partire dagli anni sessanta qualcuno timidamente cominciò a fare l’albero. Al contrario, il presepe era presente in tutte le case, era una cosa pressoché obbligata: non solo, c’era associata la tradizione dello zampognaro, che girava per le case suonando davanti al presepe. Qualcuno potrebbe rimpiangere questa tradizione: vorrà dare la colpa all’Islam? Sono forse stati questi immigrati di fede musulmana che c’hanno fatto perdere la tradizione, la nostra voglia di compiacerli? Chi e cosa c’ha costretti a passare all’albero, il vero attuale simbolo del natale anche italiano? Su, grandi intellettuali, non è poi un così gran sforzo ricostruire i fattori che c’hanno fatto perdere questo elemento identitario: chi aveva la tradizione dell’albero prima di noi? Non sarà che le picconate all’italianità le abbiamo ricevute semplicemente attraverso i messaggi mediatici, senza bisogno alcuno di invasione di persone fisiche? Non sarà che l’albero è arrivato nelle nostre case assieme alla Coca-Cola, non sarà che i McDonald hanno invaso tutto il mondo? Dov’erano questi attenti e rigorosi intellettuali, questi difensori d’ufficio dell’identità in questo mezzo secolo d’invasione di cultura anglosassone? Ma non erano essi i vati della società aperta, quella che ha consentito al signor B. di imporci con le sue TV dai lontani anni settanta i serials, le telenovelas? Evviva la concorrenza, o entrare in concorrenza con il nostro piccolo mondo contadino è lecito solo ai forti? Possibile che questi opinionisti non si siano ancora accorti della rivoluzione culturale già avanzata nel nostro paese attraverso i messaggi pubblicitari palesi ed occulti veicolati dalle TV e dalla quella stessa stampa su cui scrivono? Per tracciarne un profilo lungo questi ultimi decenni, non basterebbe un libro, ma invece la loro sensibilità ha atteso il crescente numero di musulmani che risiedono nelle nostre città per risvegliarsi a difendere un’identità culturale ormai nei fatti scomparsa da lungo tempo.
Difendono la cultura occidentale questi signori, non l’identità nazionale già messa a dura prova da ben altri influssi, interessati a farci cambiare ed a stimolare nuovi tipi di consumo, il criterio del profitto come unica motivazione lecita per condizionare le persone.
Difendiamo dunque un mondo divenuto futile, un nostro modus vivendi fatto di futilità, il SUV che invade le nostre strade come simbolo di una civiltà che non è seria, dove cioè non si diventa mai adulti, almeno nel senso che si ritiene così importante circondarli di oggetti di ogni genere come mezzo per conseguire la nostra personale felicità. Siamo infine sinceri, ciò a cui sommamente teniamo, ciò che vogliamo difendere con le unghie e coi denti, è un modello di consumi crescenti fine a sé stesso: peccato che ciò somigli tanto ai passeggeri del Titanic che vanno incontro all’iceberg danzando, come noi andiamo incontro al disastro ecologico prossimo venturo difendendo un modello di vita incompatibile con l’ambiente.

venerdì 8 gennaio 2010

RUBRICA SETTIMANALE DI POLITICA INTERNA. N. 21

E come è mai potuto succedere che l’UDC, con circa il 6% di consensi diventi la nuova DC? Questa è davvero la novità della politica italiana, che ha ritrovato un suo faro e riferimento nel partito di Casini. Pensate: Casini riesce a porre dei veti alle candidature di quella che una volta si chiamava sinistra, e, badate, a costo zero: egli mette veti e va con chi gliela la da’ più facilmente (la vittoria, cosa avevate capito?), senza disdegnare di scoprirsi una vena onanista in altre regioni, un vero capolavoro di tattica politica. Come dice Vendola, Casini aspira ad essere socio di riferimento in una coalizione in cui manco c’è: una vera magia, tutta a cura del baffino nazionale, sempre convinto di essere l’uomo più intelligente che esista, ma in realtà uno che non ne imbrocca una giusta.

Per un giudizio più globale, dovremmo considerare tanti aspetti, apparentemente di contorno, ma in realtà fondamentali. Primo: Fini lo sceglie come interlocutore, e ciò alla luce del sole, non è una mia elucubrazione. Secondo: è nato l’APL che verosimilmente, piuttosto che essere una formazione concorrente, sembra svolgere il ruolo di fiancheggiatrice. Insomma, a quanto pare, ad esclusione del signor B., sempre più preso dal delirio dell’odio-amore (fosse lui solo, milioni di Italiani gli vanno dietro, sempre più rimbecilliti), tutti parlano con Casini, e in politica parlare significa “inciuciare”. Nel suo studio privato, se vi va di andare a dare un’occhiata, potete vederli tutti questi politici in fila per approfittare del proprio turno di consultazione: fa impressione vedere il Presidente della Camera che aspetta che esca Rutelli, mentre D’Alema, a causa della mareggiata che l’ha fatto attardare sulla sua barca, deve attendere ancora a lungo per essere ricevuto.

Mi pare chiaro ormai che, se davvero verrà mai fuori una coalizione anti-signor B., questa sarà guidata proprio da Casini: un consiglio lo darei a Cossiga, che si prendeva gioco del Pierferdinando (diceva che si intendeva solo di donne, e già questo non mi sembrerebbe poco…), che vada alla sua veneranda età a prendere lezione da Pierferdinando, che davvero in questi ultimi anni non ne ha sbagliata una di mosse.

giovedì 7 gennaio 2010

A PROPOSITO DI PRIMARIE

A proposito delle prossime elezioni regionali, si ripropone la questione delle primarie. Tralasciando l’aspetto più politico sulla linea ondeggiante del PD che, dopo aver fatto delle primarie la propria bandiera, sembra restio a volerle indire a proposito delle designazioni dei candidati a governatore, è stata sollevata la questione delle designazioni di coalizione, che sembrano costituire la regola piuttosto che l’eccezione. Il meccanismo elettorale infatti, essendo di tipo maggioritario, incentiva le aggregazioni elettorali in vista del confronto tra due opposti schieramenti. Non pochi osservatori si fermano perplessi rispetto all’ipotesi di primarie di coalizione: per costoro, le primarie potrebbero tenersi solo nel caso di candidati di partito. Sarebbe allora il caso di considerare la questione da una prospettiva più ampia che consenta di collocare lo strumento delle primarie nella sua giusta dimensione.

Le primarie costituiscono un importante elemento nel contesto del mondo politico statunitense, e da lì sono state più o meno fedelmente scopiazzate dalla politica nostrana. Costituiscono in ciò uno tra i tanti dei mezzi del colonialismo culturale USA verso la nostra nazione. Tale trasferimento di usi USA avviene quasi sempre copiandone pedissequamente elementi parziali senza troppa attenzione al contesto, al confronto insomma tra la nostra situazione di partenza e quella esistente nel paese di origine. Negli USA, le primarie sono uno strumento prezioso, direi insostituibile, nel contesto di partiti “leggeri”, cioè tali da non determinare il comportamento degli eletti. Un Presidente USA, ma lo stesso potrebbe dirsi del più umile deputato, non si sognerebbe mai di fare condizionare la propria azione politica dal proprio partito, magari da una potente lobby sì, ma dal proprio partito, proprio no. Questa indipendenza dell’eletto dagli apparati di partito richiede logicamente una legittimazione popolare, costituita appunto dalle primarie. Così, la funzione di tale consultazione elettorale trova una sua logica collocazione all’interno di quel tipo di ordinamento politico-istituzionale. D’altra parte, in quel contesto non si pone neanche il problema delle coalizioni.

Passando ora alla situazione nostrana, è evidente che il contesto è totalmente cambiato: siamo in presenza di un modello di partito “pesante”, cioè per cui gli ordini di scuderia in Parlamento vanno fedelmente rispettati. Una defezione dal voto conforme ai colleghi di partito costituisce in genere scandalo, e comunque un’eccezione che attira l’attenzione degli osservatori. Logica vorrebbe che un tale tipo di partito avesse al suo interno meccanismi di decisione ferrei, che ne garantiscano la democraticità. Niente di tutto questo: un ristretto gruppo di burocrati di partito stringe un implicito patto di sangue al proprio interno, monopolizzando le decisioni di partito, senza tanto rispetto per i semplici iscritti, apparentemente d’accordo, forse perfino felici, di farsi sequestrare ogni decisione dai propri capetti. Ecco dove nasce l’attualità delle primarie, essa nasce proprio da un peccato di origine del partito a cui lo Stato non richiede alcuno specifico requisito formale nella definizione delle decisioni. I partiti, lo sappiamo bene, hanno meccanismi di decisione assolutamente non democratici,e ciò avviene apparentemente nell’indifferenza generale. Secondo me, invece, è proprio nella strutturazione dei partiti che nascono tante magagne della nostra politica, ed è il mancato intervento su questi aspetti che impedisce di cambiare la politica.

Passiamo ora all’aspetto riguardante le coalizioni. Gli osservatori che oggi si scandalizzano dell’ipotesi delle primarie di coalizione hanno già dimenticato che le primarie furono inaugurate dall’Ulivo, certamente una coalizione. La storia delle primarie è proprio tutta legata all’esistenza di coalizioni tra partiti differenti, e a me sembra anche logico. Difatti, mentre un partito democraticamente organizzato, un partito che chiaramente non c’è, avrebbe tutta l’autorità e la legittimazione nel definire le candidature, senza alcun bisogno di ulteriori consultazioni, non si vede come possa esistere una candidatura di coalizione democraticamente designata: le primarie in questo senso sarebbero l’antidoto al verticismo inevitabile di una decisione di coalizione.

Semmai, quindi, il problema esiste nella stessa esistenza di coalizioni, e tali coalizioni trovano la loro origine nel maggioritario “de noiantri”, cioè nella pretesa impossibile di basarlo sul bipolarismo piuttosto che nel bipartitismo: anche qui, scopiazziamo da altri paesi sistemi senza porre troppo attenzione a una applicazione rigorosa.

martedì 5 gennaio 2010

DAL MANIFESTO:"VOCAZIONE MINORITARIA"

Su "Il Manifesto" è apparso questo articolo che condivido totalmente, tanto che, e non mi capita spesso, non ho neanche nulla da aggiungere, e lo riporto qui perchè compendia con grande maestria le cose che io penso sull'argomento.

A volte la politica può anche essere semplice. Dovendo scegliere un candidato per cercare di vincere le elezioni regionali in Puglia, il partito democratico pare aver scelto quello con il quale perderà senz'altro. Uno sbaglio? È semplice, ma non così semplice. Il candidato - non Nichi Vendola ma quello che Vendola ha già battuto nelle primarie del 2005, Francesco Boccia - è stato scelto perché la cosa più importante per il Pd, persino più importante di vincere le elezioni, è stringere un'alleanza con l'Udc. Almeno in quelle regioni dove l'Udc vuole fargli la grazia. Dunque in Puglia. Ma il fatto è che il Boccia prescelto è tanto debole e destinato a sicura sconfitta che neanche l'Udc è disposto a sostenerlo. Dunque non ci sta ed ecco che la cantonata presa ieri sera dal partito democratico appare in tutta la sua splendente semplicità.

Eppure non possiamo dimenticare che, quando correva per la segreteria del Pd, Pierluigi Bersani voleva trovare «un senso a questa storia». Proviamoci. Le ipotesi possono essere solo due. La prima è che Bersani si è stufato di fare il segretario del Pd. Ma non sa come dirlo. Soprattutto a D'Alema. Dunque ha deciso che perdere in Puglia e cercare di perdere anche nel Lazio, in Campania e persino in Piemonte, in Umbria e in Calabria può essere per lui la perfetta exit strategy. Sarebbe una disfatta, sarebbe costretto a dimettersi. Oppure lo metterebbero sotto tutela e, guarda un po', finirebbe col fare come Veltroni: un bel gesto e addio. La seconda ipotesi è che Bersani non sia già più il segretario del Pd. Infatti ieri alla riunione decisiva, quella che ha lanciato Boccia, il perdente perfetto, Bersani non c'era. Tornerà il 7 gennaio, dopo le vacanze. Senza fretta. Ma allora chi è che sta decidendo questa fantasiosa linea del Pd? D'Alema che gioca sempre a smontare i giocattoli, anche quelli che ha appena costruito lui stesso? Di Pietro che fa la corsa a dire male le cose giuste per lasciare al Pd solo la possibilità di dire bene quelle sbagliate? Casini che non vuole concorrenti al centro? Fermiamoci qui prima di sospettare l'inciucio e l'intelligenza con il nemico.
Il fatto è che la scelta di sacrificare Vendola per lanciare Boccia è davvero inspiegabile. Di più: è impresentabile proprio per il Pd che ha sostenuto fino alla noia la sacralità delle primarie. E adesso invece ha l'unico obiettivo di fuggire dalle primarie, perché può anche perderle e in Puglia contro Vendola le ha già perse. Dunque c'è voluta questa interminabile e sciagurata operazione di selezione dei candidati per le regionali per sperimentare la novità bersaniana. La fine della vocazione maggioritaria e il ritorno alle alleanze voleva dire alle alleanze con l'Udc: la sinistra è considerata già acquisita e i suoi elettori inevitabilmente sedotti dall'emergenza berlusconiana. Per questo farà bene Vendola se resisterà al ricatto del voto utile. Sia se questo gli riaprirà le porte della candidatura, sia se al contrario finirà col favorire il suicidio del Pd. Sbagliato era invece, evidentemente, confidare nelle progressive sorti del nuovo corso democratico, affidarsi a questi strateghi. Fare il tifo per Massimo D'Alema.

lunedì 4 gennaio 2010

MA SIAMO DAVVERO TUTTI D'ACCORDO?

Mi chiedo se la pretesa del Presidente Napolitano di rappresentare tutti gli Italiani sia fondata. Questo è un punto che mi appare fondamentale, perché il Presidente, come tutti del resto, ha diritto alle sue proprie opinioni, ma mi chiedo cosa lo autorizzi a ritenere di parlare a nome dell’intera Italia, impresa già di per sé impossibile su un piano squisitamente teorico. Il Presidente invita le forze parlamentari a quel minimo di concordia necessaria ad andare verso una riforma costituzionale condivisa. Ebbene, sarà possibile in questo paese essere contrari a tali modifiche costituzionali, o le parole del Capo dello Stato si debbono intendere come la perdita di cittadinanza di chi la pensa come me? E se invece, sempre in linea di principio, senza quindi entrare nel merito di quale genere di riforme realizzare, il ruolo del Capo dello Stato fosse in primis quello di difendere il testo quale esso è attualmente? Perché è evidente che la Costituzione è riformabile, ma qualche preoccupazione verso una sua modifica dovrebbe suscitarsi proprio in quelle istituzioni che ne devono garantire l’applicazione. Questa sollecitazione, non da parte di partiti, che per definizione esprimono posizioni di parte, ma piuttosto da parte di chi non potrà fornire alcun contributo di merito, a me preoccupa. Gridando “al lupo, al lupo”, verso la Costituzione, da riformare, quindi attualmente inadeguata, non ne potrebbe pregiudicare il rispetto puntuale già da oggi? Mi chiedo insomma, chi gliela fa fare al Capo dello Stato, a sollecitare una concordia nel riformarla, lasciando il certo per l’incerto?

E ancora, passando ad un’altra sua affermazione, quali evidenze abbiamo che l’Italia ha risposto bene alla crisi economica? Come si può dare per scontato che tutti in questo paese, perché di tutti il Presidente vuole farsi interprete, sia d’accordo che la crisi sia stata affrontata in modo adeguato?

Mi spiace dirlo, ma mi pare che il discorso del Presidente si iscrive in una forma di conformismo che del resto ha già abbondantemente contagiato la stampa nazionale, per cui si danno giudizi tombali. Qui ormai non si sottolinea la natura personale di certi giudizi, ma i giudizi divengono definitivi, tali che non occorra neanche discuterne. Leggevo l’ultimo articolo di Giavazzi sul Corriere della Sera, che buon secondo, dopo Galli della Loggia, da’ un giudizio affrettatamente positivo sulla riforma dell’Università proposta dalla Gelmini. In un post precedente, ho tentato di esprimere un parere, che è complessivamente negativo su questo provvedimento, anche se mi rendo conto di quanto sia difficile darne una descrizione articolata su un blog. Sarà possibile in questo paese discutere di qualcosa senza che il Pierino di turno venga a sottrarti perfino la possibilità di critica e messa in discussione?

Nello stesso articolo, Giavazzi si propone come una persona schietta. Volete sapere in cosa è schietto il Giavazzi? Nel dire ai lavoratori che devono perdere il lavoro. Non stiamo lì insomma a tentare di salvare i posti di lavoro, questa è una cosa da ipocriti. Bisogna essere sinceri e spiegare all’operaio coinvolto che il suo lavoro non serve più. Perché dargli la cassa integrazione? Niente, basta con tali ipocrisie. Non si capisce veramente cosa egli proponga in alternativa, forse il suicidio di massa sarebbe davvero un’operazione verità.

Mi chiedo: ma che mondo è mai questo dove si è perso il senso delle cose. Ma caro Giavazzi, è così difficile ricordare che il lavoro è al servizio dell’uomo e non il contrario? Forse, io penso, sarebbe il caso di dire a Giavazzi che il suo lavoro di esperto di economia e lavoro non è più un lavoro utile, e che egli debba perdere il suo di posto di lavoro: a gettare la gente in mezzo alla strada, i capitalisti lo sanno fare da soli, delle sue presunte competenze tecniche non sappiamo proprio che farne.

venerdì 1 gennaio 2010

FAVORI INTERESSATI A GRAVIANO?

Riporto una notizia della massima gravità: sarebbe stata revocato l'isolamento diurno a Giuseppe Graviano: ricordo come questi, dopo le dichiarazioni di Spatuzza, costituisca un teste chiave, essendo stato chiamato in causa dallo stesso Spatuzza. Rimango sconcertato, oltre che dal merito del provvedimento, dalla sua tempistica, proprio in corrispondenza con la fine dell'anno, tradizionale periodo di festa e di minore attenzione dell'opinione pubblica. Fortunatamente, la cosa non è sfuggita a tutti ed è ormai di pubblico dominio: speriamo bene.

DDL GELMINI PER L'UNIVERSITA'

Lo scorso autunno la Gelmini ha presentato un DDL di riforma dell'Università (informazioni qui). E' un provvedimento che se approvato, influenzerebbe fortemente l'attività degli Atenei. Voglio qui di seguito riportare un mio secondo intervento su questo argomento presso un forum della mia Università (qui il dibattito precedente). Nei commenti potrò rispondere ad eventuale integrazione delle informazioni.

Non è gradevole, se non francamente imbarazzante,continuare un dibattito che si è voluto suscitare, e che purtroppo però vede due soli docenti partecipanti.

Ci si potrebbe chiedere cosa trattiene i colleghi dal farci conoscere la loro opinione a proposito di un DDL che presumibilmente influenzerà profondamente la nostra quotidiana attività. Ciò è tanto più inquietante se si considera come parallelamente gli interventi a proposito del bilancio del nostro Ateneo non sono certo mancati, così come precedentemente sui criteri di suddivisione dei fondi PRA. I colleghi quindi non si ritraggono dal farci conoscere la loro opinione su questioni importanti, ma che certo non sono così fondamentali come il DDL Gelmini di cui si parla in questo Forum.

Ciò che posso arguire è che prevalga tra i colleghi una qualche forma di ricerca di ottimizzazione delle proprie risorse, per cui essi si impegnano lì dove ritengono di avere una possibilità ragionevole di influire sui risultati, mentre si astengono deliberatamente dal dedicare tempo e sforzi intellettuali nella direzione di questioni che ritengono al di fuori della loro portata.

Il punto che vorrei sottolineare è appunto che questa stessa consapevolezza di inadeguatezza rispetto ai problemi fondamentali del proprio luogo di lavoro è già un risultato molto significativo: potrei aggiungere che, assieme al taglio dei fondi, la vera riforma universitaria si poggia proprio su questo apparentemente ragionevole tralasciare le cose il cui luogo di decisione è distante da noi. Insomma, sembrerebbe che il risultato più importante del processo di autonomizzazione degli Atenei portato avanti da una ventina d’anni a questa parte, sia paradossalmente quello di coinvolgere i docenti in un processo di gestione dei dettagli, subendo peraltro passivamente il quadro generale in cui questi stessi atti di gestione si iscrivono.

Io ho però l’impressione che alcuni tra i miei colleghi più influenti tralascino di intervenire con motivazioni del tutto differenti, che cioè essi siano magari intervenuti in qualche misura nella stessa elaborazione del testo e che ne siano complessivamente soddisfatti. Perché allora occuparsi di un dibattito che si vede essere nato in modo così asfittico, coinvolgendo solo due colleghi? Meglio lasciare le acque calme, e attendere serenamente che il DDL venga approvato.

L’Università diviene così lo specchio stesso della nostra società, in cui un ceto dirigente ha trovato come interesse prevalente gestire sé stesso e l’inamovibilità del proprio potere piuttosto che governare saggiamente il paese.

Se invece i provvedimenti di legge si giudicano sulla base delle loro risultanze sperimentali, e così rientro nel merito del dibattito, allora credo che tutti dovremmo convenire che il maggiore potere conferito ai singoli Atenei negli ultimi decenni è stato gestito assecondando interessi particolari. Mi meraviglia che Renato che si occupa come me di scienze sperimentali non voglia trarre le giuste conclusioni dalla verifica appunto sperimentale dei risultati di gestione decentrata delle risorse da parte dei docenti dei singoli Atenei. Il problema attuale delle Università è la carenza di principi di responsabilità. Quando un determinato organo collegiale vota una determinata delibera, sa già dall’inizio che non sarà chiamato a risponderne degli effetti: basta usare l’accortezza di non violare alcuni principi formali. Un sistema irresponsabile però non può funzionare, o meglio, può soltanto continuare ad andare avanti all’infinito verso un inevitabile e progressivo degrado.

Il punto quindi non sta nel valutare se il Dipartimento di Fisica dell’Università di Catania sia migliore o peggiore del Ministro dell’Università, ma piuttosto nella possibilità di potere ricostruire le responsabilità specifiche di determinati atti. Ricostruire una centralità delle decisioni mi pare assolutamente indispensabile. Altrove, gestioni decentrate funzionano, ma ciò richiede un coinvolgimento diretto dei singoli operatori nell’esito delle gestioni. Negli USA, tante università sono private, e sembra ovvio che chi ci mette i soldi, è assolutamente coinvolto nei risultati delle iniziative su cui egli stesso ha investito. Anche i docenti, del resto, avendo contratti individuali, non possono prescindere dai risultati che il loro specifico contratto ha generato, senza con ciò perdere la possibilità di conseguire nuovi vantaggiosi contratti.

Adottare quindi un modello decentrato con una centralizzazione delle risorse significa attuarne una sua applicazione caricaturale. Esistono quindi obiezioni di tipo teorico e di tipo sperimentale a continuare a perseverare in un modello con tutta evidenza inattuabile.

Analogamente, l’immaginare una qualsiasi innovazione strutturale, rifiutandosi di garantirne il finanziamento, si traduce inevitabilmente nell’impossibilità di prevederne gli effetti reali, come tentavo di mostrare nel precedente intervento a proposito di figure di docente di cui non si definisce a priori la dimensione numerica.

In un modello centralistico invece, il Ministero potrebbe stabilire una serie di criteri sufficientemente rigidi per la destinazione delle risorse, non solo come già fa verso i differenti Atenei, ma anche specificamente verso i differenti settori scientifico-disciplinari. Se poi la suddivisione non è ottimale, è chiaro che sono i criteri a non funzionare, ed allora si cambiano, ed in ogni caso è il Governo della Repubblica ad esserne responsabile: almeno, si potrà dire che esso ha ricevuto la fiducia di un Parlamento eletto (magari con una legge elettorale diversa dall’attuale, diciamo, almeno decente, ma questo è un altro discorso).

Questa legge invece, non solo non ricostituisce una centralizzazione doverosa delle decisioni, ma addirittura ci lascia in balia di un Consiglio di Amministrazione estraneo al mondo accademico, presumibilmente colluso col potere politico, e in definitiva ancora una volta irresponsabile.